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Zivago non torna: Omar Sharif e la bellezza del musulmano d’Occidente

Rosario PipoloOmar Sharif fu Zivago, dalla prima all’ultima sequenza di uno stralcio di letteratura firmato dal russo Pasternak che l’inglese David Lean aveva impresso sulla pellicola. Sharif fu il medico innamorato per la generazione di mia madre, che avrebbe rinunciato alla più yeah-yeah delle festicciole danzanti fatte in casa pur di bucare il grande schermo, facendosi stringere forte dal dottor Zivago.

Omar Sharif, il cui cuore si è fermato nel pomeriggio estivo di ieri alla veneranda età di 83 anni, è stato il ritratto del divo atipico, colui che nessuna industria cinematografica è riuscita a possedere.
Il grande attore egiziano, che con il passare degli anni aveva preferito il tappeto verde dei tavoli da gioco a quello rosso dei festival di cinema, era sfuggito ai fasti di Hollywood così come al Rinascimento del cinema britannico, ricompattato dalla macchina da presa oleografica di David Lean, a un tiro di schioppo da Il Dottor Zivago e Lawrence D’Arabia.

Se Omar Sharif aveva quasi rinnegato il Dottor Zivago per i troppi chiaroscuri romantici e sentimentali, alla maggior parte di chi lo ricorda oggi sfugge quanto Sharif sia insostituibile. E’ un prodigio raro che un personaggio letterario traslochi dalle pagine di un romanzo alle sequenze di un film facendo coincidere l’immaginazione da lettore alla visione da spettatore.

Lo ha avvertito anche la mia generazione che non ha visto il film di Lean sul grande schermo, recuperando strada facendo. La sequenza finale del melodramma d’amore con gli occhi e i baffi di Zivago che rincorrono Lara mi è apparsa attraverso un televisore in bianco e nero alla fine degli anni ’70; si è ingrandita su uno schermo a colori degli anni ’80; è ringiovanita su un recente LCD  e mi ha folgorato nella copia restaurata dell’Anniversary Edition in Blu-Ray.

La faccia di Zivago ce l’ha data in prestito un musulmano d’occidente. Omar Sharif aveva tatuato sulla pelle la bellezza di due culture che, quando non si osteggiano, sanno donarsi luce e arricchimento reciproco.

Caro Prof. Paredes, in viaggio nella tua Andalusia per ritrovare le radici del mio Sud

Rosario PipoloCaro Prof. Paredes, la storia di Pietro ci accomuna, ritaglia le nostre vite riflesse tra le pagine del mio romanzo L’ultima neve alla masseria, che con orgoglio ho portato in Spagna. In Andalusia ho ritrovato il mio Sud con i rumori, i suoni, le voci e mi sono ricordato delle parole di nonno Pasquale. Portandomi a spasso nella mia Napoli, mi ripeteva: “I pregi e i difetti di questa città ce li hanno lasciati in eredità gli spagnoli”.

Il confine tra un pregio e un difetto è labile e dipende dalla propria visione della vita. Dopotutto la testardaggine di Pietro nel voler trasformare il Sud come prospettiva del viaggio e dell’esistenza è il pregio più grande, robusto come la corteccia di una quercia. Ed è proprio quella corteccia che ho colto negli spunti di riflessione lasciati dalla tua analisi del mio racconto, in occasione della presentazione all’Instituto Andaluz de la Juventud di Granada e dell’emozionante lettura teatrale dell’attore Marcos Julian.

Professor Paredes, il viaggio nelle proprie radici è il punto per ritrovarsi al di là delle differenze culturali, sociali, linguistiche. Mentre disfo la valigia e mi rimetto a scrivere, tu sei in Perù, dall’altra parte del mondo. Eppure un giorno torneremo a condividere storie, quelle private mescolate a quelle visionarie sotto l’ala dell’amore per il cinema che non ci molla. Attraverseremo lentamente l’Andalusia fino alla tua amata Cordova e poi troveremo una scorciatoia per tornare a Napoli, perderci nei Quartieri Spagnoli e sbucare all’entrata della Federico II, la mia università che ti ha ospitato in diverse occasioni.

Difenderemo a denti stretti le nostre memorie reciproche e ci ricorderemo che il futuro resiste nelle “radici con le gambe lunghe”. Ci terremo alla larga dalla rabbia e dalla pietà che vorrebbero allungare la siesta di ogni Sud di questo mondo e dagli illusi  cialtroni,convinti che gli umanisti possano essere rimpiazzati da venditori di fumo e affaristi girovaghi.

Il viaggio di Pietro ricomincia dall’Andalusia.

Rileggere “La Califfa” ad alta voce è il miglior elogio funebre per Alberto Bevilacqua

Rosario PipoloDovremmo rileggere La Califfa di Alberto Bevilacqua, scomparso poche ore fa a Roma all’età di 79 anni, per indossare di nuovo quella sottoveste che il Belpaese ha bruciato nell’ultimo ventennio di malessere politico e sociale. Ritrovare la sensualità di Irene, la protagonista del bestseller di Bevilacqua, diventato un celebre film, ci farebbe bene per scampare il subdolo pericolo di scambiarla con le nuove vedette alla Ruby che popolano la pattumiera della Seconda Repubblica tutta “Sex and Politics”.

La sottoveste è quella “operaia”, senza fronzoli o doppi merletti, che il Belpaese rinnegò durante i fasulli “happy days” del regime democristiano. La bella Califfa di Bevilacqua, cresciuta nell’Italietta di provincia delle rivolte operaie, protegge lo charme anche quando l’amore la porta in una direzione opposta, verso l’industriale cinico e avaro, che vorrebbe profumarla per toglierle di dosso l’odore sbriciolato di fabbrica.

Alberto Bevilacqua, figlio della Parma che dai granduchi fini nel palmo della mano operaia, ci ha lasciato un bel ritratto femminile, che oggi mette in evidenza lo squallore delle nuove dee della bellezza femminile, sottomesse e svendute agli orchi dei Palazzi di lusso. Vorremmo che da una di queste stanze uscisse l’erede della Califfa, con lo sguardo impavido di chi non si fa sottomettere al potere ed è pronta a ritornare nella terra che l’ha partorita, senza rinnegare le proprie origini.

Alberto Bevilacqua è morto e nessuno riuscirà più a smuovere quella penna per convincerlo che il tanfo operaio della protagonista del suo romanzo sia robaccia di altri tempi. Anzi no, di un solo tempo, quello in cui L’Italia rinnegava di essere stato un paese operaio, mentre noi uomini ci appostavamo ancora all’uscita degli stabilimenti per innamorarci di quelle donzelle che sapevano esprimere la propria femminilità anche sulla catena di montaggio.

Diario di viaggio: I bambini ci guardano

Rosario PipoloAvevo pressappoco l’età di Joseph quando vidi la prima volta il film di De Sica I bambini ci guardano. Quel titolo mi rimase impresso e me lo sono ritrovato spesso tra i piedi. Joseph – anglofonizzai il suo nome di battesimo appena lo vidi girovagare per casa a carponi – nacque qualche anno dopo il mio trasferimento a Milano. Conosco sua madre da quando aveva 13 anni e andavo a trovarla con la mia vespa rossa.

Joseph è cresciuto vedendomi comparire a casa sua di rado. Non ero un viso assiduo e riconoscibile. Fino a poco tempo fa pensavo di essere stato negli anni della sua crescita una comparsa. Mi sbagliavo. Il mio andare e venire mi aveva fatto dimenticare una piccola verità: I bambini ci guardano, appunto. Tre anni fa trascorsi una serata a casa sua. Mi staccai dal gruppo e me ne andai nella sua cameretta. Mentre lui giocava alla playstation, gli parlai di me, gli raccontai di ciò che avrei dovuto fare e non riuscivo più a fare. Era tardi ormai. Joseph interloquiva con me, ma mi parlava di tutt’altro: dei suoi giochi, della noia dei compiti nelle vacanze, di sua madre che era in soggiorno con gli ospiti.

Qualche settimana fa mi sono ritrovato Joseph alla presentazione del mio libro. Lo osservavo mentre mi ascoltava. Era proprio lui, era diventato un ometto. E quado abbiamo fatto la foto assieme, mi sono ricordato che “i bambini ci guardano”. Ed è come se il figlio della mia amica avesse compreso che, tra le pagine del mio romanzo, fossero assiepate le confidenze che gli avevo fatto anni addietro. L’indomani sono passato a casa di Joseph. Prima di andare via – non lo aveva mai fatto prima – mi ha afferrato per un braccio e mi ha rimproverato: “Adesso riparti. Quando ritorni?”. Per la prima volta da quando lo conosco, Joseph aveva mollato i suoi giochi e le sue cose per trattenermi.

I bambini ci guardano, appunto. Io e Joseph eravamo cresciuti assieme ed avevamo condiviso un dolore comune: il distacco da ciò che ci apparteneva. Con due significati diversi era successo quando avevamo cambiato casa. Io e il piccolo Joseph non eravamo più comparse, ma eravamo tornati ad essere protagonisti della reciprocità del nostro legame.

I bambini ci guardano, appunto. Mi sono voltato e ho visto scomparire Joseph dietro il cancello. I suoi occhioni scuri mi hanno sussurrato: “Stringi i denti. Vai, insisti. Chi ama, non sbaglia mai.”

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L’ultima neve alla masseria alla Feltrinelli: Il girovago metropolitano torna nel “piccolo mondo antico dell’infanzia”

In occasione della presentazione del mio romanzo “L’ultima neve alla masseria” a la Feltrinelli di Caserta, il collega Ernesto Ferrante, moderatore dell’incontro, ha voluto lasciare sul mio blog una polaroid scritta a mano che mi ripaga della fatica legata a questo racconto.

Ernesto FerranteIl giornalista con i lacci delle scarpe sciolti, con la penna nel taschino e l’iPad sotto il cuscino, è tornato a “casa”, in una città a cui è affettivamente legato fin da bambino, per presentare il suo lavoro, “L’ultima neve alla Masseria”, edito da Demian. Un romanzo autobiografico, in cui si mescolano senza sbavature, realtà e fantasia, percorsi interiori e chilometri macinati per davvero, in sella alla sua mitica vespa rossa. Sullo sfondo di quest’opera densa di significati ed emozioni, si staglia il suo vissuto, guardato e rielaborato a volte con occhi bambini, altre con lo sguardo disilluso di chi ha qualche primavera in più alle spalle. Sfogliando le sue centotredici pagine, si respira l’aria fresca dei sogni ma anche l’odore forte della terra, delle radici, dell’appartenenza. Il girovago metropolitano torna nel “piccolo mondo antico dell’infanzia” ed osserva da una prospettiva diversa cose e volti, dando un senso nuovo a ciò che nuovo non è. Pietro degli Orsi, Rosina Miletti, Zi’ Santuccio, il maresciallo Amorosi, Silvio il guardastelle, la piccola Giulia o le sorelle Spadafora, non sono solo semplici personaggi ma anche prospettive sulla vita. E’ troppo semplicistico per non dire scontato, pensare alla partenza unicamente come uno strappo, una fuga. La partenza, tante volte, è arricchimento, sia che si tratti di un viaggio reale sia che si tratti di un percorso intimo, immaginario.

Molto spesso si torna più forti e più affamati di quei sapori e di quei colori prima impolverati dall’abitudine. Sguardo al cielo d’Europa, quello di Rosario, ma radici dalle gambe lunghe che, come egli stesso dice, se ne vanno in giro trascinandosi dietro i mondi, familiari e professionali, da cui è stato allevato. Con Shakespeare, Kerouac e Bukowski sul comodino ed una fetta di migliaccio sul tavolo. Il presidente della giuria di CinemAvvenire del Festival del Cinema di Venezia cammina a braccetto con il ragazzino con l’Invicta sulle spalle e la scrittura matura del giornalista di formazione tradizionale lascia di tanto in tanto il posto alle istantanee del social reporter.

Ricordo ancora il giorno in cui, appena dopo pranzo, il comune amico Cesario mi fece omaggio del libro, parlandomene entusiasticamente. Avevo dei word aperti davanti ed una pagina del giornale per cui lavoro tutta da chiudere ma dopo appena poche righe ne fui rapito, incamminandomi con Pietro lungo il sentiero che portava alla collinetta cara a Silvio il Guardastelle e commuovendomi davanti agli occhi lucidi di nonno Pietro da piccolo di fronte al ritratto di quella regina che, al buio di una stanza dell’istituto in cui era rinchiuso, aveva iniziato a fargli da mamma.

Le stelle di Silvio e l’atto d’amore della loro adozione, la terra messa nel pugno di Pietro dal nonno, quale simbolo di appartenenza e di un legame che trascende il tempo, il missionario turco e la solidarietà tra camminatori lungo i sentieri della vita, al di là del colore della pelle e delle sigle sui documenti di identità, con un piccolo paese del Meridione sullo sfondo che diventa un universo intero, sono, a mio avviso, delle autentiche gemme in uno scrigno ricolmo di emozioni e sogni, brividi e sospiri, di cui Rosario che ringrazio di cuore, ci ha fatto dono.

E’ bello, infine, che un emigrante ritorni nella sua terra, in questa difficile terra, con un libro di ricordi e di sentimenti, senza piombi e mattanze, con al centro il cuore piuttosto che i forzieri da riempire con le copie vendute.

Ernesto Ferrante
Giornalista*

Classe 1978, Ernesto Ferrante è giornalista professionista e notista politico del quotidiano “Rinascita”. Dopo la maturità classica al Liceo Domenico Cirillo di Aversa, ha collaborato con il network di intelligence economico-politica del Baltico-Adriatico “Osservatorio Italiano” e con il sito Nuova Polonia.

Amaranto: Ho fregato a Daniel la T-shirt dei Clash!

Ci sono due abitudini che mi rendono bizzarro per strada agli occhi dei passanti: ascoltare musica con le mie cuffie giganti o leggere un libro passeggiando a passo svelto. La prima è quotidiana, la seconda è rara, anche perché rischierei davvero di finire sotto un’auto. L’ultima volta è capitato dalle mie parti, attraversando il centro storico di Napoli. Ho tirato fuori dalla borsa Amaranto di Marianna Grillo ed ho scoperto che Daniel, uno dei protagonisti del romanzo edito dalla Demian, faceva il mio lavoro, ma con una differenza: io ho fatto le valige per cercare fortuna altrove, lui invece ha lasciato Londra ed è venuto a Napoli per fare il giornalista. C’era lo zampino di una donna… perchè il più delle volte l’universo femminile ridisegna la geografia della nostra vita.
Imbambolato ad un semaforo, mi sono guardato attorno per cercare Daniel e chiedergli: “Io non avrei mai fatto marcia indietro per nessuna donna e senza alcuna condizione. Perché sei venuto nella mia città?”. Mentre per il protagonista di Amaranto “il Vesuvio era un imbuto nero, dava la sensazione di un flagello sedato”, per me l’immagine di quel vulcano era legata ancora ai colori di quello esplosivo di Andy Warhol, prigioniero tra le mura del Museo di Capodimonte. Era forse l’amore “cieco, egoista e possessivo” di quell’inglese a dargli una visione così diversa dell’ambiente circostante? Io neanche volevo crederci ai cumuli di immondizia sparsi per la città e pensavo fosse un altro scherzetto dei napoletani per mettermi di cattivo umore.
Rotolando tra le parole del romanzo di Marianna Grillo, mi sono reso conto di essermi perso per strada la fisionomia di Caterina e Valeria, le altre due muse di Amaranto. E questo perché in quella mattina da turista napoletano non lo avrei mai trovato Daniel, anche se avessi setacciato tutti i vicoli della Sanità. Un bel racconto ti appiccica addosso ciò che il tuo stato d’animo ti suggerisce all’istante. Perciò indossavo una T-shirt dei Clash, era quella che avevo fregato a Daniel. Non fate gli spioni, non glielo dite a Marianna Grillo!

Io piango: Josè Saramago lo scrittore che volle farsi “blogger”

O lo amavi, o lo detestavi. Non c’erano vie di mezzo. Io sono stato sempre un lettore volubile e scapestrato. Una volta mi è capitato tra le mani Il bagaglio del viaggiatore. L’ho letto con avidità – non perché portasse la firma di Josè Saramago –per la data di pubblicazione: il 1973,  anno della mia nascita. Saramago è scomparso alla veneranda età di 87 anni e a lui devo una cosa, molto prima che mi mettessi lo zaino in spalla per andarmene a zonzo in Europa. Uno spudorato amore per i portoghesi e per la loro terra, che da Porto verso Lisbona, continua a suggerirmi fugaci suggestioni del mio Sud. Quando vado in Portogallo non parlo né in inglese né in italiano, ma in napoletano.  Riesco sempre a farmi capire.
Ho avuto la fortuna di conoscere di persona l’altro grande portoghese, il regista Manoel de Oliveira, ma dello “scrittore scomodo” mi rimane il ricordo di quel libro e, soprattutto, gli interventi da blogger nel marasma della rete. O caderno de Saramago è l’ultimo atto coraggioso del Premio Nobel alla letteratura: un irregolare e poetico diario on line che non risparmia nessuno, neanche il premier italiano Silvio Berlusconi definito “una cosa pericolosamente simile a un essere umano”. Nessuno più di José è riuscito a somministrare una galanteria letteraria su più fronti, dalla poesia al teatro, coinvolgendo a suo fianco i grandi nomi del pianeta, da Chomsky a Pinter, quando c’era da gridare a voce alta.
E’ stato lo scrittore “polemico” per eccellenza, in esilio volontario alla Canarie, ma sempre voce di quel Portogallo che oggi deve riconoscergli un merito: aver innalzato la liricità della lingua portoghese, oggi più di ieri, ad arma di denucia delle balbuzie di questo tempo tenebroso.

Margherita Buy e l’attesa di “Lo spazio bianco”

la locandina di "Lo spazio bianco"

Rosario PipoloAl cinema a Margherita Buy le appiccicano sempre il solito clichè: quello della “sfigata”. E questa tendenza me la ricordo fin dai tempi della sua partecipazione al film Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni. Stessa cosa accade nella nuova pellicola di Francesca Comencini Lo spazio bianco, tratta dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella. Tuttavia, qui è passabile perchè la Buy è davvero convincente nel ruolo di questa mamma che deve attendere mesi per sapere se la sua bimba, nata prematuramente, riuscirà a sopravvivere. Non vi aspettate il solito cinema al femminile con quei luoghi comuni melodrammatici. Il taglio della Comencini è quasi “documentaristico”, asciutto e asettico, sospeso nel vuoto. Persino Napoli, città-sfondo della storia, è irriconoscibile senza stereotipici e la colonna sonora dalle intrusioni jazz è azzeccata. Lo spazio bianco mi ha riportato a riflettere su un anello ricorrente della nostra vita: l’attesa. Ogn giorno ci viene chiesto di attendere e “sapere aspettare” è davvero un dono. E non venite a dirlo a me che sono impaziente per natura!