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3 serie tv cult di Netflix da vedere almeno una volta nella vita

Netflix, la piattaforma americana di streaming più famosa del pianeta, ha frantumato il perimetro del piccolo schermo tradizionale. Negli ultimi dieci anni ci ha offerto serie televisive che hanno lasciato il segno.
Non siete stati ancora in Spagna, Corea del Sud o Gran Bretagna? Prendete il telecomando, radunate un gruppo di amici per una bella maratona e buon viaggio.

LA CASA DI CARTA

Netflix e la Spagna alla riscossa con La casa di carta (2017-2021), una delle serie tv più amate che in 48 puntate ha conquistato il pubblico di mezzo mondo. Non mi dite che non avete sentito dei colpi alla Zecca di Stato e alla Banca Centrale a Madrid per opera di folli rapinatori mascherati da Dalì e capeggiati dal geniale Professore Salvador?
Gli episodi sono da mandar giù tutti d’un fiato e in una decina di giorni riuscite a farli fuori tutti, o quasi. I protagonisti, interpretati da un cast di alto livello, si portano con loro storie di vita intriganti e commoventi che filano un plot pieno di colpi di scena. Così questa ciurma di criminali, agli occhi dell’opinione pubblica, diventerà uno nuovo squadrone di “partigiani” alla ricerca della libertà lontano dalle logiche di potere e dalle contraddizioni dello Stato. La versione spagnoleggiante della nostra antifascista Bella Ciao sarà un vero hit della colonna sonora, con impliciti riferimenti agli anni bui della Spagna franchista.
La casa de papel, questo è il titolo originale, ha dato via allo spin-off Berlino (2023) del quale è disponibile già la prima stagione interpretata dal bravissimo Pedro Alonso.

SQUID GAME

Netflix vi farà preparare il bagaglio per un viaggio in Corea del Sud con Squid Game (2021), la pluripremiata e criticata serie tv. Nove episodi mozzafiato da vedere in una giornata scritti e diretti magistralmente dal sudcoreano Hwang Dong-hyuk. Con un ottimo cast asiatico, Il gioco del calamaro – questo è il titolo tradotto in italiano – ha alzato un polverone di polemiche ovunque perché colpiva il target fragile adolescenziale, istigandolo ad uccidere.
Cosa succede se c’è in palio un premio da quasi 5 milioni di dollari per partecipare a un gioco spietato dove vince chi prevarica sull’altro, ammazzando tutti gli altri concorrenti? Una fotografia contemporanea che denuncia la sfrenata competetività che sta mettendo tutti noi stupidi essere umani gli uni contro gli altri. Chi guarda la serie con il solo focus del game si perde il risvolto critico verso la società sudcoreana e i suoi fallimenti di politiche sociali tra collassi economici e inflazione sulla coda del ‘900.
Squid Game ha il merito di far tornare a galla la rinascita della cinematografia coreana tra stile e poesia a partire dagli anni ’90, da A Petal di Jang Sun-Woo al più recente Parasite di Bong Joon-ho.

BLACK MIRROR

Black Mirror (2011-2023) è tra le serie tv più longeve trasmesse da Netflix e ogni episodio è autoconclusivo. Pertanto, potete mandarli giù come mini film di poco più di un’ora nell’ordine che volete. Un viaggio in Gran Bretagna per la maggior parte delle sceneggiature che affrontano il tema dell’invasione delle nuove tecnologie e l’impatto che stanno avendo sulle nostre vite.
Black Mirror è una vera e propria sfera di cristallo perché diverse puntate sono state profetiche rispetto ai tempi con finali che ci hanno lasciato a bocca aperta.
Le prime due stagioni, arrivate in Italia tra il 2012 e 2013, sono quelle rimaste nel cuore degli appassionati: girate a budget ridotto attirano per quella fotografia grezza che, solo in apparenza, li fanno apparire come dei vecchi B-Movie. Ecco la mia playlist da “vedere assolutamente”: The National Anthem (Stagione 1), Be Right Back (Stagione 2), White Christmas (Speciale 2014), San Junipero (Stagion 3), Black Museum (Stagione 4), Striking Vipers (Stagione 5) e Joan is Awful! (Stagione 6).
In tutto questo tempo Black Mirror è cambiata molto passando dalle remote minacce dei social network a quelle più attuali dell’Intelligenza Artificiale, che può rendere l’unicità della persona umana nella frantumazione di uno, nessuno e centomila. Le riflessioni abbondano, nonostante la serie abiba perso la fragranza degli esordi, così come i dubbi su ciò che sia etico.

Riverdale e il giorno dei morti nell’addio commovente a Luke Perry

La celebrazione del giorno dei morti del 2 novembre ci appartiene come ai messicani e neanche l’infatuazione dei più piccoli per Halloween potrà convincerci del contrario. Riverdale, la serie tv americana disponibile su Netflix e ispirata ai fumetti d’oltreoceano di Archie, fa spesso i conti con il dolore per la perdita di una persona cara. Perché vale la pena rivedere la prima puntata della quarta stagione, addio commovente all’attore Luke Perry?

DA BEVERLY HILLS 90210 A RIVERDALE

Per quelli della mia generazione Luke Perry, scomparso prematuramente nel 2019 all’età di 52 anni, ha prestato il volto al Dylan di Beverly Hills 90210. Chi non ricorda la serie televisiva ambientata in California che in dieci memorabili stagioni ci ha fatto cavalcare gli anni novanta?
Prima di vestire i panni di Fred Andrews in Riverdale, Perry ha reso cult l’interpretazione giovanile di Dylan. Il suo personaggio in Beverly Hills 90210 aveva contribuito a far tornare in noi giovani di allora la voglia di continuare ad essere noi stessi. Sì, perché da ragazzi di periferia potevamo starcene alla larga dai primi ricatti dell’altra vita in Internet, felici anche senza i soldi, le macchine e le bellezze di plastica che circolavano sulle strade californiane della televisione di allora.
Per i teenager di oggi il ricordo di Luke Perry è ancora vivo nella fisionomia di Fred Andrews, il papà premuroso e onesto di Riverdale, che gli autori della popolare serie hanno dovuto cancellare dalla sceneggiatura per la morte improvvisa dell’interprete.

DOLORE TRA FICTION E REALTA’

La penna dello sceneggiatore di Riverdale Roberto Aguirre-Sacasa è stata abile, per tutta la durata della puntata commovente dedicata alla scomparsa del papà di Archie, a farci chiedere per l’ennesima volta: è legittimo provare dolore per la perdita di qualcuno mai conosciuto di persona che ha dato vita ad un personaggio che non smetteremo mai di amare?
Sì e questo va oltre l’espediente narrativo di far apparire per l’occasione Shannen Doherty, la Brenda protagonista di Beverly Hills 90210, che in Riverdale interpreta la donna per cui è corso in aiuto Fred ed è stato investito da un’auto.
Gli attori Luke e Shannen, vecchi compagni di set, non si incontreranno mai in Riverdale e questo poco importa. Ciò che conta è aver ufficializzato il legame e l’eredità tra due serie televisive, tra due generazioni che, dentro e fuori il piccolo schermo, oggi giocano a ricoprire i ruoli complicati di genitori e figli.

IL GIORNO DEI MORTI NELL’ADDIO A FRED/LUKE

I funerali di Fred Andrews in Riverdale e la partecipazione commossa di tutta la comunità ci ricordano quelli di Luke Perry e di tutti i papà che sono andati via, lasciando noi figli senza il braccio e la gamba supplementari per affrontare meglio la vita.
Fanno bene gli sceneggiatori a suggerirci che un funerale di un padre come il 2 novembre, il giorno dei morti, può diventare una festa quando un figlio si sente il più fortunato del mondo per avere avuto un papà che lo ha reso migliore. E così un addio resta un arrivederci.

Carlo e Camilla, The Crown, Netflix

Quali segreti ci riserva The Crown di Netflix sull’incoronazione di Carlo?

Occhiali

L’incoronazione di Carlo a sovrano d’Inghilterra di sabato 6 maggio scrive una nuova pagina nella storia della monarchia inglese. Mi chiedo: quali segreti ci riserverà The Crown di Netflix?
Ormai è risaputo che la seguitissima serie tv, giunta alla quinta stagione, sia una spina nel fianco a Buckingham Palace. Vi vorrei vedere nei panni di un reale inglese, inclusa la compianta Regina Elisabetta, a litigare dal 2016 con il vostro alter ego sul piccolo schermo tra verità e immaginazione.

SESTA STAGIONE E POI THE END

Scusate l’impazienza. Quanto tempo dovrò aspettare affinché gli sceneggiatori di The Crown spifferino i retroscena dell’incoronazione di Carlo?
La sesta stagione, di cui sono in corso ancora le riprese, dovrebbe essere l’ultima della serie. I battenti si chiuderebbero sui primi anni Duemila fino all’incontro fiabesco tra William Kate.

CARLO, CAMILLA E GLI INCIUCI DI THE CROWN

Se così fosse Re Carlo III tirerebbe un sospiro di sollievo. Nella quarta e quinta stagione, tra il divorzio dalla principessa Diana e l’amore clandestino di una vita con Camilla non ne era uscito un figurino.
Spulciando tra gli aneddoti di palazzo mi è giunta voce che ormai Carlo sia stufo di guardare la serie tv di Netflix. Dall’altra parte mi sembra preoccupato. Re Carlo avrebbe detto a un gruppo ristretto di parlamentari scozzesi “di non essere la persona raccontata nella serie televisiva di The Crown“. A differenza sua Camilla ci ride su. Pagine di tabloid l’anno scorso la hanno ritratta al fianco della sua fotocopia televisiva, la brava e affascinante attrice Emerald Fernell, che ha constatato quanto la futura regina consorte fosse una donna di spirito.

PANE DA SCENEGGIATURA

Quale dito nella piaga si teme di più a Buckingham Palace sull’incoronazione di Carlo? Io non mi preoccuperei tanto dei 100 milioni di sterline spesi per la cerimonia che ricadranno fitti fitti sulle tasche dei britannici. Piuttosto sarei vigile sul prossimo brutto tiro di Henry e Meghan.
Del resto l’ultima sconcezza del principino ribelle non è andata proprio giù a Re Carlo: veleni e veleni messi nero su bianco nel libro Spare. Lo avete letto?
Questi ultimi farebbero l’acquolina in bocca a qualsiasi sceneggiatore.

NETFLIX, RIPENSACI!

Sul set di The Crown hanno appena finito di girare le scene del matrimonio di Carlo e Camilla, che potremmo vedere solo nel 2024.
Nel frattempo godetevi in tv l’incoronazione di Carlo, con una speranza, l’ultima a morire: che il nuovo Re sia quantomeno all’altezza della mamma Elisabetta e convinca quelli di Netflix a non chiudere l’amata serie tv con la sesta stagione.

Notturno per Raffaella

Nella primavera del 1978 a casa mia arrivò il primo televisore a colori, un Voxon di 30 pollici a 8 canali. Lo inaugurammo con la Raffaella Carrà del sabato sera. In quel periodo erano venuti a stare da noi i nonni Pasquale e Lucia e condividevamo la nostra stanza con loro, ricompensati da tante coccole.
Stavo per chiudere il ciclo dell’asilo e a un bambino, che contava l’età sulle dita di una mano, non era concesso stare sveglio fino a tardi. La Carrà di Ma che sera sul primo canale Rai era un’eccezione per me, anche perché impazzivo per la sigla iniziale.

Com’è bello far l’amore da Trieste in giù

Com’è bello far l’amore io son pronta e tu

Tanti auguri

A chi tanti amanti ha

Mentre l’Italia bigotta storceva il naso per il testo provocatorio della celebre Tanti Auguri, un bimbo in pigiama alla periferia di Napoli saltellava sul letto mentre Raffaella faceva la contorsionista intorno alla torre di Pisa, cantando l’emancipazione scambiata dai rampolli democristiani per tabù.

Ballo, ballo, ballo da capogiro

Ballo, ballo, ballo senza respiro

Ballo, ballo, ballo m’invento un passo

Notturno per Raffaella è inchiostro dipanato nella memoria che, prima ancora di essere collettiva, è spudoratamente individuale. Poi la conta dei fagioli dal salotto televisivo di Pronto Raffaella ci aveva spinti fuori dal tunnel degli anni ’80 come quando ci sputano fuori dall’utero materno: il disincanto arrivò appena la nostra Raffaella nazionale sparì dalla tv per essere ceduta all’estero.

Viene fuori una biondina (che dolor, che dolor)
Che era nell’armadio (che dolor, che dolor)
Viene fuori una biondina (che dolor, che dolor)
Che era nell’armadio (che dolor, che dolor)

Notturno per Raffaella è un tuca tuca in mezzo alle stelle comete tra i giganti che sono adati via e il presente orfano di eredi, sul galleggiante della volgarità e del voler apparire a qualsiasi costo. La pena arriva quando da una finestra di TikTok sbuca l’ennesimo ammiccamento. Raccontate allo zimbello dei social che la sua goffa torsione non sarà mai ballo come quello inventato e reinventato dalla Carrà.

Chissa’ se va’
se va’
ma si che va’
ma si che va’
ma si che va’
che va’
e se va’ se va’ se va’
tutto cambiera’
forza ragazzi spazzola
e chi mi fermera’…

Notturno per Raffaella non è un fuori onda di Carramba che sorpresa, ma un elogio silente a ridosso di mezzanotte per una donna di carattere e talento che, fuori dalle mareggiate ideologiche e di potere politico, è stata sorella, mamma, nonna sincera di tutti noi negli ultimi sessant’anni di storia italiana.
La femminilità di Raffaella Carrà ha schiaffeggiato il becero maschilismo, incluso quello dei piani alti di via Teulada, di viale Mazzini, della RAI tra le quinte della lottizzazione.

Lo so che nell’amore
C’è chi vince e c’è chi perde
E stasera ho perso te.

Oggi si è spenta la televisione, per sempre.

Quel concerto di Paul McCartney insieme a Fabrizio Frizzi

Il 19 febbraio 1993 al Forum di Assago io e Fabrizio Frizzi sembravamo il fratello minore insieme al maggiore venuti a spartirsi il concerto di Paul McCartney. Avevamo due cose in comune: la montatura degli occhiali e la passione sfrenata per i Beatles.

Io ero arrivato a Milano da Napoli, dopo una litigata furibonda con mio padre, non ancora ventenne. Lui aveva superato da un pezzo la trentina e aveva accanto la sua Rita. Lei mi sorrideva, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, mi disse che la sua preferita era Penny Lane.

In quella mezz’ora, prima l’inizio del concerto di Macca, Frizzi mi apparve improvvisamente come un fratello maggiore che ti faceva venire voglia di aprirti senza timore di essere giudicato. Rassicurò le mie perplessità da neo studente universitario senza né arte né parte con una sagace riflessione: “Le passioni sane vanno alimentate perché ci aiutano a far venire fuori il meglio di noi stessi”.

Al termine del concerto con il suo bon ton Fabrizio Frizzi mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliargli di più. Ci stringemmo la mano e poi lui scomparve lungo un corridio del Forum tenendo per mano Rita Dalla Chiesa.
Stasera ho tirato fuori dal mio archivio il biglietto di quel concerto memorabile. Glielo dedico dopo venticinque anni esatti insieme a questa bella fiaba che tanti anni fa lesse in chiusura di una trasmissione televisiva:

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
“IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!”
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
“IO SONO LA FEDE purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa”.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
“IO SONO L’AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!”
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

…Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente.
“Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
“Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA”

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA DENTRO IL NOSTRO CUORE…

…e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza,

la FEDE, la PACE e l’AMORE.

Parliamone Sabato? Le donne dell’Est viste dal viaggiatore non sono quelle della Rai

Una decina d’anni fa, in occasione di un reportage di viaggio nei Paesi dell’Est Europa, mi feci accompagnare all’Università di Varsavia. Incrociai un gruppetto di studenti a cui raccontai questo episodio, chiedendo alla mia guida di tradurre.
Nella seconda metà degli anni ’80, alla periferia di Napoli dove vivevo, si erano trasferite molte donne polacche per lavorare come badanti e assistere gli anziani. In paese, nell’infelice pregiudizio retrogrado, circolava la voce che quelle femmine dell’Est fossero arpie perché stavano scippando i mariti alle mogli del posto.

Le ricordo il sabato mattina che si ritrovavano alla stazione per andare in gruppo a trascorrere il giorno libero nella vicina Napoli: condivisione dei giorni dalle nostre parti, sospiri nostalgici, mostravano le une alle altre le foto dei figli, dei mariti, dei loro cari.
Le ricordo con profonda commozione in fila all’ufficio postale a depositare i soldi guadagnati da mandare alle famiglie in Polonia. Salutai così gli universitari di Varsavia: “Siete una generazione sveglia, siete il cuore pulsante di questa Europa. Ringraziate e siate fieri delle vostre mamme venute in Italia a faticare per finanziare anche i vostri studi. Io le ho viste con i miei occhi”.

Chissà oggi cosa direbbero gli studenti di allora se sapessero dell’imperdonabile scivolata di Paola Perego e dei suoi autori che ha portato alla chiusura del programma televisivo Parliamone Sabato. Un colpo basso del Servizio Pubblico Televisivo, i cui vertici non si erano accorti dei “sei consigli” sul perché conviene scegliere una fidanzata dell’Est.
E pensare che proprio ieri un amico mi aveva parlato con entusiasmo del suo matrimonio a Bucarest di prossima data. Ora chi lo dice ad Alexandra, sua futura sposa e promettente psicologa over 30, che in Italia la Televisione di Stato è schiavizzata dal fetido maschilismo del bar sotto casa e dal populismo ad oltranza?

Forse il migliore modo per risarcire noi che paghiamo il canone RAI – finiamola con la solita tiritera che si tratta di una tassa sulla tv (se così fosse dovrebbe essere equamente distribuito a tutte le emittenti) – sarebbe sostituire lo spazio occupato dalla Perego, oggi capro espiatorio di tante altre zolle in cancrena del palinsesto, con una serie di ritratti delle donne dell’Est Europa nell’ultimo cinquantennio, affidati a firme autorevoli del giornalismo italiano. Sarebbe un’opportunità per affossare pregiudizi, curare il nostro strabismo.
La mia generazione ha dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per iniziare a dialogare e riconoscere da vicino la bellezza della gente dell’Est, vissuta nei miei on the road che mi hanno portato da Sarajevo a Belgrado, da Tirana a Bucarest, da Varsavia a Sofia.

Ci sono tanti modi per far violenza su una donna. La puntata di Parliamone Sabato è uno di questi. A viale Mazzini le mimose sono appassite da un bel pezzo.

Starsky e Hutch, si può essere amici per sempre?

Mi ha profondamente commosso uno scatto che da qualche giorno circola in Rete: un anziano signore dell’età di mio padre spinge la carrozzella dell’amico. Non sono due persone qualunque Paul Micheal Glaser e David Soul. La loro fama di attori è aver prestato il volto sul piccolo schermo a Starsky e Hutch, protagonisti della famosa serie televisiva dell’ABC che quelli della mia generazione aspettavano con trepidazione per continuare a sognare il primo viaggio negli USA.

Mentre i social network ci vomitano addosso scenette casalinghe di finti legami, pane per i denti del voyeurismo facebookiano, due vecchie glorie del cinema e della televisione americana sanno darci una bella lezione: le amicizie vere e durature possono nascere anche sul posto di lavoro, su un set televisivo dove lo star system fagocita competizione sfrenata, peggio del veleno dei serpenti, mettendo in secondo piano i valori dell’amicizia.

Oggi si può essere ancora amici per sempre? Questo bell’andare di corsa e chissà in quale direzione non è consolante perché abbiamo smesso di guardare negli occhi l’altro.
Ci accontentiamo di scarti, di misuratori virtuali, senza volere ammettere che qualsiasi tipo di legame, un’amicizia in primis, deve seguire le orme e i passi della trasformazione, della crescita e del cambiamento di ciascuno.

Paul, attraverso la spinta di quella carrozzella, ha prestato le gambe a David ricordandogli che, se papà da piccini ci faceva salire sulle spalle per riuscire a guardare il mondo, un amico autentico ti presta volentieri “le sue gambe” per farti percorrere l’ultimo miglio. 

Sì, può essere amici per sempre? Non occorrono trattati o le solite canzoni da masticare come un chewingum. Questo scatto può farci fare qualche considerazione, perché non si tratta né di un vezzo di tenerezza né di un fotogramma di Starsky e Hutch con la mano abile di uno sceneggiatore. Sono Paul e David, due amici cresciuti l’uno sulle orme dell’altro, in un arco di tempo che si chiama vita.

Lino Toffolo, maschera goldoniana sciolta in una canzoncina

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Rosario Pipolo“Chi ha rubato la marmellata? Chi sarà? Ed un uovo di cioccolata? Chi sarà? E chi ha rotto la vetrata con un colpo di pallon? Chi ha scaldato la cassata con il fon?”.
Dietro la canzoncina di Johnny Bassotto, che ha gracchiato sul 45 giri della mia infanzia, c’è la maschera di Lino Toffolo. Maschera goldoniana in perenne evoluzione, l’attore veneziano aveva quella versatilità straripante che lo avrebbero dovuto incollare al palcoscenico della Laguna e farlo restare osservatore della realtà attraverso la giostra delle storie di Carlo Goldoni.

“Ma il bassotto poliziotto scoprirà la verità, il bassotto poliziotto scoprirà la verità. Che poliziotto Johnny bassotto con le manette arresta la tua fantasia; ti fa svegliare e confessare tutto quel che hai combinato”. La maschera galleggia tra i versi di una buffa canzoncina, una girandola nel piccolo schermo di fine anni ’70. Ci confonde senza farci notare che il sorriso sornione di Toffolo è la lama con cui il cabarettista guerreggia  contro l’ipocrita serietà della vita.

“Chi ha giocato in ascensore? Chi sarà? Chi ha legato al palloncino la cravatta di papà che ora vola sopra tutta la città, eh?”. Persino nei fotogrammi della pellicola antimilitarista Sturmtruppen, diretta da Samperi e tratta dal fumetto meraviglioso di Bonvi, Toffolo manipola la maschera d’argilla di un abile teatrante facendoci credere di essere un caratterista.

“Il bassotto poliziotto è il più in gamba che ci sia! il bassotto poliziotto è il più in gamba che ci sia!”. Persino una réclame – pardon oggi si dice spot pubblicitario – diventa con lo scanzonato Toffolo territorio artistico, senza essere con prepotenza la rincorsa verso uno scaffale del supermercato per un barattolo di marmellata.

Non esistono attori di serie A o serie B. Esistono attori, punto.

Cari Giovanni e Paolo, i vostri sorrisi cancellano la vergogna degli eredi dei padrini in tv

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Rosario PipoloDa bambino mi hanno insegnato che agli sconosciuti si dà del “lei”. In modo particolare è d’obbligo agli sconosciuti che scalfiscono nella nostra dignità l’offesa di mandare in tv i figli dei padrini.

Ai tempi della Prima Repubblica i padrini si baciavano perché sigillavano il patto di complicità tra politica e mafia, tra istituzioni e mafia. A differenza della concorrenza che si limitava a mandare in onda le vicende di Tony Soprano, il più noto boss della mafia italo-americana di una serie televisiva, oggi il Servizio Televisivo Pubblico apre le porte e fa spazio sui suoi divani alla prole legittima della stessa mafia che venticinque anni fa tentò ti togliervi la parola.

La messa in onda di ieri sera non era una fiction così come non lo è stato il giornalismo che ha subìto un duro colpo, uno schiaffo alla deontologia di un mestiere in cui restano invisibili coloro che si sforzano di farlo nel migliore dei modi.
La banalizzazione della mafia nelle domande del padrone di casa mi ha fatto tornare in mente una sottolineatura, lasciata sulla prima edizione della mia Garzantina sulla Televisione. Così scriveva Aldo Grasso a proposito dell’intervistatore di ieri sera: “Sempre fedele a un modello di giornalismo ossequioso nei confronti del Potere”.

Il dolore non passa mai così come la vergogna. Voglio tenermi appartato dal fetore di questa discarica.  Voglio ricordarmi della mia ultima volta a Palermo, a piedi scalzi sulla sabbia, per mettermi alla ricerca di voi due tra i suoni e i profumi della vostra città. I colori della libertà mi hanno fatto sentire a casa.

Ah, sì, a voi due sto dando del tu. Non mi sento maleducato. Volevo tenere l’ultimo fiato sospeso per voi. Ho imparato sulla mia pelle che alla belle persone si deve dare necessariamente del “tu”.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, voi due restate la bellezza che nessuno ci porterà mai via, neanche la televisione che saccheggia la dignità.

Terra dei Fuochi e tv di regime

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Rosario PipoloNelle province campane di Napoli e Caserta, cuore della Terra dei Fuochi, il tasso di mortalità è aumentato in maniera spropositata. La maggior parte dei casi sono per tumore o leucemia: 28,9 e 27,5 decessi per diecimila abitanti, sono i dati forniti da Corriere.it.

I dati dell’Istat parlano anche di mancanza di posti letto negli ospedali e, di conseguenza, di un doloroso flusso di migrazione per curarsi altrove. Vi siete accorti che il vostro vicino, per giunta gravemente ammalato, sta ipotecando l’appartamento o sta facendo questua tra i  parenti per finanziare il viaggio della speranza?

Nel frattempo a Porta a Porta, salotto televisivo tutto tarlato da Prima Repubblica, si parla di Terra dei Fuochi, annaquando la terminologia del tumore con malattia grave. Del resto in questa tv pubblica di regime, a cui verseremo dal prossimo luglio in bolletta il canone televisivo, i panni sporchi si lavano in famiglia – come recitava nel suo breviario il divo Giulio – sbiancando la coscienza con qualche fiction tv sul delicato argomento.
Chissà se ne prenderà atto il nuovo direttore di Raiuno Andrea Fabiano che dovrebbe svecchiare la rete ammiraglia di mamma RAI.

Tornando alla Terra dei Fuochi, è raccapricciante come nella città di Napoli, colpita anch’essa da dilaganti casi di mortalità,  tornino a farsi spazio i vicerè dello stantio rinascimento partenopeo. Manca poco al 6 marzo, giorno delle Primarie per scegliere il candidato a Sindaco del capoluogo partenopeo. Non basta più la rabbia esplosiva da rapper, la cantata del neomelodico o la promessa politica.

“Masaniello è cresciuto, Masaniello è turnato” per non farsi beffeggiare, per non farsi derubare il diritto alla salute.