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Cartolina da Lignano Sabbiadoro: I fan di Vasco

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Rosario PipoloI fan di Vasco li vedi sbucare all’alba a Lignano Sabbiadoro e pensi che siano lì semplicemente per essere i primi sotto il palco. In realtà sono lì perché si sentono tutti parte di una grande famiglia e il concerto non è un ridotto di un paio d’ore, ma è una sottile linea all’orizzonte che va dall’alba al tramonto: Si raccontano, strizzano ricordi, si conoscono, continuano a crescere insieme.

I fan di Vasco li riconosci. Sono le facce che non rinuncerebbero mai a rivedere il loro capitano. Non hanno il dono dell’ubiquità, ma riescono a saltellare da una città all’altra, ad attraversare l’Italia senza esitazione, ad abbandonarsi allo sfinimento pur di vivere un’altra storia.
Ogni concerto si sa non è clonato, è una storia raccontata, unica ed irripetibile.

I fan di Vasco non sono come quelli degli altri, i fan di Vasco sono di Vasco e basta, punto. Non è questione di questa o quella canzone appiccicata addosso, sfilacciata come un chewing-gum, sono parte di lui, vengono da tutt’Italia, come Simone, Ambra, Maurizio, Elisa, Madda e Remo di Sanremo, ritratti nella foto.
Guerreggiano a denti stretti alla maniera del Blasco perché, come ha ripetuto il capitano alla fine del Live Kom 016 a Lignano, “Non abbiate paura. La paura è il nostro nemico più grande”.

I fan di Vasco hanno ferite, cicatrici, lividi generazionali tra i cinquantenni dell’altro ieri, i quarantenni di ieri, i trentenni di oggi e i ventenni del futuro. I genitori che urlavano Siamo solo noi lo hanno tramandato ai figli che cantano Un senso: Il rock va vissuto senza compromessi, ovunque e comunque, con la radice di provincialismo, che deve battere duro a Zocca prima di scalpitare in ogni angolo della nostra penisola.

I fan di Vasco apparterranno per sempre alle generazioni a venire perché, come ha ribadito Simone di Sanremo, “Vasco ha una canzone per ogni stato d’animo”. A loro non interessa di certo la gloria perché il Blasco, colui che noi all’alba della sua storia musicale chiamavamo Vasco Rossi, riesce ancora a farli volare facendoli stare con i piedi per terra.

“Io che credevo alle favole e non capivo le logiche.” I fan di Vasco sono grandi ormai.

Addio prematuro a Prince, furia del pop che scheggiò funk e soul

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Rosario PipoloCi volle la Svizzera, nei giorni a ridosso del mio compleanno, per farmi incrociare Prince dal vivo. Nel luglio del 2009 al Festival di Montreux ero stato spedito per un reportage tra viaggio e musica, e raccontare  l’atmosfera di una delle vetrine di jazz più prestigiose d’Europa.

Pensavo che il pop di Prince stesse stretto all’edizione numero 43 di Montreux. Dovetti ricredermi durante il concerto, completamente sold-out, quando mi resi conto che le acrobazie musicali dell’icona di Minneapolis sfregiavano il pop tout court per insidiarsi in lapilli di funk, jazz, con un falsetto che mi colse di sorpresa e mi ha lasciato come souvenir di viaggio Somewhere Here on Earth.

Alla fine dell’esibizione di Montreux compresi quanto Prince fosse legato geneticamente al jazz, quanto il suo pop, vagante sulla sponda opposta di Micheal Jackson, avesse scheggiato funk e soul con lamelle di rock.

Prince ha remato controcorrente nelle acque dell’omologazione culturale degli anni ’80, ha guerreggiato contro lo strapotere delle major, si è impadronito della libertà dell’artista a tutto tondo per mantenersi fedele alla pignoleria maniacale del vivere la musica.
Prince si è vestito con un abito ritagliato su misura, quello dell’artista controverso e pieno di contraddizioni che ha fatto dell’incoerenza la linea d’ombra tra presente e futuro.

E’ stato lui l’ultimo uno, nessuno e centomila di fine secolo, saccheggiando nel fluido rovente delle sue canzoni l’instabilità di una generazione dopo la legittima presa di coscienza: gli anni ’70 si erano barricati dentro con la grande musica che mai più sarebbe tornata.
Prince ne rimase fuori e provò a modo suo ad orchestrare per le generazioni avvenire sonorità pulp che resteranno comunque vive, anche nelle perline come Nothing compares to you, donata generosamente a una gran bella voce come Sinead ‘O Connor.

Il pop si è spento. Ecco tutto.

Per sempre Nomadi tra la passione dei fan e la bellezza dei disabili

Foto di Beppe Fusè Fucchio

Foto di Beppe Fusè Fucchio

I concerti spesso nelle grandi metropoli sfigurano l’intimità delle piccole piazze. Quando intervistai i Nomadi nel 2008, in occasione di un compleanno speciale al Blue Note di Milano, mi colpì un passaggio di Beppe Carletti: “La nostra vita sono le piazze, la nostra vita sono la gente, continuiamo a fare musica per loro”.

Ho voluto ritrovare Beppe e compagni proprio in periferia perché, dopo cinquant’anni e passa di musica, una delle band più longeve della musica italiana è riuscita a non spezzare mai il rapporto di empatia con chi gli sta di fronte. Una perdita incommensurabile come quella di Augusto Daolio ha trasformato il dolore in una forza di un ciclone e li ha spinti ad andare avanti, lasciando crescere il legame con il pubblico.

Mi sono distratto all’ultimo concerto dei Nomadi a guardare la bellezza dei disabili in preda alla felicità, avvolti dalle canzoni: lui sulla carrozzella che teneva per mano una ragazza. Gli schiaffi della vita tradotti in carezze sincere, come quelle dilaganti nel canzoniere di Guccini cantato da Carletti e compagni.

Mi sono distratto a sbirciare i fan, con gli occhi lucidi di chi rimpiange di non averci riprovato; gente normale che ha voglia di sentimenti robusti; uomini e donne che hanno tatuato sulla pelle la vita di periferia prima di cantarla a squarciagola. I fan dei Nomadi sono sparsi in ogni angolo del nostro Paese, nei piccoli centri ed è così che si ricongiungono regioni, province, piccole città.

Mi fingo autostoppista per ritagliare piccole storie tra i fan: Paola e la passione per Beppe e compagni; Battista e il primo concerto a metà degli anni ’80 con la voce di Augusto; Carla e la forza di tenere unito un piccolo fan club di una zolla di Lombardia; Yvonne convita che queste canzoni sanno come aiutarci ad affrontare e superare i dolori della vita.

I Nomadi sono una ricchezza per tutti loro, per tutti noi. Forse è ora che mi decida ad andare a Novellara, il piccolo paese che ha dato i natali a questo gruppo storico. Non per cercare cimeli, ma per bussare alla porta di casa di Beppe Carletti, fermarmi a mangiare un piatto di minestra con lui, perché ci sono pochi artisti e musicisti in Italia che custodiscono un grande pregio: sentirsi gente normale perché il segreto è tutto lì, lungo l’unica strada da percorrere per donare agli altri riflessi di umanità.

Ritornerà il Duca David Bowie, “Lazzaro” della musica che sbeffeggiò la morte

Rosario PipoloAlla fine dello scorso settembre in tanti ci consolammo con i vinili restaurati del primo David Bowie 1969-1974, sbucati da un elegante cofanetto. Non fu la fissazione per il feticcio, quanto la voglia di interrogarsi sul perchè quella materia musicale di oltre quarant’anni fosse reincarnazione del futuro.

Quando alle 8.30 di questa mattina ho lanciato incredulo il tweet sulla scomparsa del Duca Bianco, mi sono pentito degli ultimi 14 caratteri spazi inclusi: “…ci ha lasciati”. Ci ha lasciati l’alter ego Ziggy Stardust, Halloween Jack, the White Duke o Glass Spider?

Bowie si è preso gioco di noi, che avevamo visto in lui una scheggia impazzita dell’universo, facendo credere che l’album Blackstar fosse un bel regalo per il suo sessantanovesimo compleanno.
Invece no, il testamento dissacratorio era già tutto scritto nel brano Lazarus e nel video onomino diretto da Johan Renck, che lo vede in un letto di un ospedale psichiatrico nelle vesti del personaggio evangelico, amico di Gesù di Nazareth. Tra le bende si intravede il Bowie malato che sbeffeggia la morte.

Quelle che un tempo furono camaleontiche trasformazioni, oggi restano l’abbagliante resurrezione di un artista del XX secolo che ha aggredito il melanoma dell’omologazione, di cui siamo ammalati cronici, attraverso ogni forma d’arte della re-invenzione.
David Bowie ha fatto della musica, dal glam rock al rock sperimentale, dal proto-punk alla new wave, il midollo spinale della pittura che mescola avanguardismo, classicismo,  street-art, fantascienza. David Bowie ha reso i testi delle canzoni delle incandescenti sceneggiature da cinema, trapiantate al posto dei nostri occhi miopici e strabici, per un ritorno alle origini con lo sguardo interiore sull’esistenza.

Il trasformismo e i travestimenti di David Bowie non sono stati capricci di edonismo futurista, ma il teatro dell’ultimo jedi dell’esistenzialismo che si è sforzato di affrontare la depressione umana della morte circoscritta nell’epitaffio “polvere siamo e polvere ritorneremo”. Ritornerà il ragazzotto di Brixton che ha folgorato il XX secolo, unendo monarchi, proletari, borghesi, arcivescovi protestanti, laburisti e conservatori.
Ritornerà L’uomo caduto sulla terra perchè “puoi semplicemente guardare ai miei dischi e capire cosa provo”. Ritornerà il Duca Bianco perchè “è anche vero che la vita stessa è artefice di noi stessi”. State a vedere.

Cartolina da Graceland: Elvis Aaron Presley abita ancora qui

Rosario PipoloI colori dell’autunno incorniciano la casa come se fossi capitato sul set di un film di Douglas Sirk degli anni ’50. A Graceland il tempo sembra essersi fermato. Sulla strada, che mi porta dal downtown di Memphis a qui, il traffico scorre. Non c’è la folla solita di pellegrini venuti alla “Mecca della Musica”.

Le penne del Tennessee, che la mattina del 17 agosto 1977 titolarono “Se n’è andato il monarca del Rock ‘n Roll“, sono le stesse che anni dopo avrebbero raccontato Graceland come un immenso luna park.
C’è qualcos’altro oltre lo steccato di quest’abitazione, oltre lo scintillio dell’icona che incarnò l’ascesa e la fine dell’American Dream. C’è una prospettiva di intimità che sfugge alla massa accorsa qui per mummificare la memoria.

Gli addobbi natalizi, la sala da pranzo, una camera da letto per i genitori, la cucina, il soggiorno, l’angolo bar, tutto ha sobrietà, niente sfarzo. Alzo lo sguardo, c’è lo scalone dal quale scendeva. Sosto lì, nella mano sinistra ho il taccuino e la penna come se dovesse concedermi un paio di risposte per l’intervista.
Poi mi sposto nel giardino. Mi sembra di vedere la piccola Lisa Marie tuffarsi sull’erba con il papà.

Sento il fruscio dell’acqua di una fontana. Mi sposto. Lì ci sono le spoglie mortali, senza chiasso, nel silenzio dell’intimità. Niente messaggi, niente graffiti, solo parole scolpite sul marmo e un minuscolo mazzolino di fiori.

Mi volto e avvisto un bellissimo tramonto che folgora Graceland in un tiepido pomeriggio di dicembre. Ripenso a mia mamma, casalinga alla periferia di Napoli, che alla fine degli anni ’70 teneva buono il suo bimbo con le sue canzoni.
Elvis Aaron Presley, il bimbo sulla copertina dell’album Elvis Country, il ragazzo del Tennessee che bussò alla porta dei Sun Studios per cercar fortuna, abita ancora qui per tutti coloro che non sono i predatori avidi dell’icona ma i cercatori dell’esistenza umana fatta di sogni, fragilità, amore.

Cartolina d’estate: la Swing Avenue di Accordi Disaccordi

Rosario PipoloQuando senti puzza di “proibizionismo” intorno a te, ti viene una smaniosa voglia di gettarti a capofitto nello swing. Dopotutto ogni genere musicale che si rispetti deve fare i conti con la storia che lo ha sputato fuori.

C’è una filettatura sofisticata dello swing italiano lungo la Swing Avenue di Accordi Disaccordi, il duo torinese formato da Alessandro Di Virgilio e Dario Berlucchi, ed è la strada che voglio percorrere in questi giorni d’estate. Quello che mi è finito tra le mani non è il solito disco ma un percorso da fare scalzo, perchè la terra sotto i piedi dovrebbe essere vissuta a contatto con la pelle.

L’altro ieri Buscaglione dimenticato, ieri Buscaglione bistrattato, oggi lungo la Swing Avenue Buscaglione ritrovato nella sincera armonia di Buonasera signorina, prima che nel meraviglioso Valse di Amélie di Tiersen, perla musicale d’oltralpe, scatti il naufragio: nel tremolio delle corde lo swing vibra nel pozzo magico della memoria.

I musicisti bravi non hanno bisogno di elemosina ma di ascoltatori acuti in grado di riconoscerli. Eravamo troppo distratti per accorgerci che proprio la Torino, in cui se ne vanno a zonzo i fantasmi sabaudi, ha partorito Accordi Disaccordi, i nuovi principi dello swing.

Lungo questa strada asfaltata di swing incrocio il sassofono di Emanuele Cisi, il contrabbasso di Luca Curcio e Isabella Rizzo, il clarinetto di Giacomo Smith. Mi distendo nel collage grafico di Stefano Brizzi.

Sto bene qui. Non voglio più tornare indietro.

Il 25 aprile oltre l’anniversario: partigiani della musica come gli Area

Rosario PipoloFinito il giorno dell’anniversario, socchiuso nella sindrome del revival, sembra che il 25 aprile si sia arrestato a quella liberazione di 70 anni fa. Senza dimenticare che  l’Italia passò da una dittatura ad un regime fatto di meccanismi perversi – quest’ultimo era il soppalco della Prima Repubblica – resta da chiedersi chi siano stati i partigiani del dopoguerra.

Lo sono stati un po’ tutti coloro che hanno fatto “resistenza” nel proprio territorio a quel sistema che osteggiava il sogno collettivo di rendere la vita umanamente a misura di ciascuno, senza certi feroci dislivelli che fucilano la dignità umana.

Chiacchierando con Paolo Tofani e Patrizio Fariselli, due colonne del gruppo musicale degli Area, al termine di un concerto nella cornice della rassegna JazzAltro, ho confermato il mio bizzarro convincimento. Negli anni ’70, nell’Italia che brulicava delle bombe degli anni di Piombo, gli Area furono i partigiani della musica.

Non fummo all’altezza di capirlo né qui né all’estero perché accecati dall’innocenza melodica di casa nostra. Il sound sperimentale degli Area, che fece della voce di Demetrio Stratos l’urlo rabbioso del “nuovo partigiano Johnny”, declinò la resistenza come valore per annusare la vita.
Il  concerto del 14 luglio 1979, che rese il raduno musicale all’Arena Civica di Milano l’unica Woodstock nostrana che l’Italia ricordi, fu la testimonianza che quel sound fu la nuova liberazione dallo sguardo vigile dei nuovi padroni in ascesa.

Il repertorio musicale degli Area, così come il coraggio di Mario Caccia, Laura e i membri dell’Associazione Area 101 sostenitori di rassegne come JazzAltro, dimostrano che si può essere ancora partigiani a 70 anni dal 25 aprile che cambiò il volto all’Italia.
Possiamo esserlo tutti noi, nella nostra quotidianità, per superare ciò che scrisse Sandro Pertini: “È meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le ‪‎dittature‬.” E per uscire dal tunnel di “la peggiore delle democrazie” dovremmo imparare a riconoscere i partigiani del nostro tempo, che resistono all’ombra dei riflettori.

Viaggio nel Medioevo: da giornalista a cantastorie al Castello di Bevilacqua

Foto di Tony Anna Mingardi

Foto di Tony Anna Mingardi

Rosario PipoloChi non ha sognato almeno una volta nella vita di incontrare Emmett “Doc” Brown, l’eccentrico scienziato del film Ritorno al Futuro, per fare come Martin un gran bel viaggio nel tempo? Io ci ho provato per ventiquattro ore, andando oltre i ghiribbizzi fantastici, senza ricorrere ai soliti parchi tematici che tendono a scimmiottare in maniera gogliardica la ricostruzione storica.

Me ne sono andato a zonzo nel Medioevo con la mia penna da cronista, per fare un mini reportage e mettermi alla ricerca degli antenati che avevano cucito un filo temporale fino al mio futuro. Mi sono ritrovato nell’Italia Medievale, intorno al Castello di Bevilacqua costruito da quel Guglielmo I Bevilacqua, che mi ha concesso benevolmente di portarmi dietro gli inseparabili occhiali e lo smartphone per twittare. L’abito nuovo mi calza a pennello, incluso il cappello. Io sono mancino e non rinnego le origini. Riuscirò mai ad usare le piuma d’oca, inchiostro e calamaio per appuntare sul mio diario?

L’euro non vale niente nel Medioevo. Non so come fare per mangiare. Chi mi crederebbe mai che vengo dal futuro? All’entrata del Castello inciampo nella bontà di Anna. Mentre la sorellina Giulia fa da sentinella, Anna mi lascia passare sotto un tunnel, facendo credere a tutti che sono Enrico, il factotum di Guglielmo I che indossa il mio stesso abito da cantastorie. Arrivo alle cucine del castello e riesco a mangiare selvaggina e verdure, bevendo del buon vino.
Dalla sala accanto sento la voce di un attore che recita stralci di Mistero Buffo. Lui si accorge di me, si avvicina e mi prende per il cappello: “Straniero, lo so che tu vieni da lontano. Quando tornerai a casa tua, va’ a bussare alla porta del grande Dario Fo e digli che io fui suo antenato. Sono l’attore Alessandro Martello”.

E’ notte fonda. Sono fuori dal castello. Trovo un accampamento. Omero, capitano della Compagnia d’Arme San Vitale, mi offre l’ospitalità. Isabella, Anna e Moreno pensano ad allestire la tenda; Marcello e Sabina si fanno in quattro per trovare delle pelli come coperta; Giulia mi guida nel posto dove dormirò, facendomi luce con una candela. La notte passa, mi sveglio di soprassalto. Esco dalla tenda e mi incanto a godermi una meravigliosa alba che sbarba il castello di Bevilacqua. Mi raggiungono Paolo, Theo, Yuri, Renato, Oriella e Sandra.

E’ il dì di festa. E’ domenica. Arrivano grandi e piccini, c’è musica, sfilano gli sbandieratori, gli alfieri della Regina di Piovene Rocchetta, saltibanchi e giocolieri. Massimo, Davide, Gabriele, Alessandro, Arianna e Valeria fanno strepitose magie, parlando con la cadenza della mia Napoli. Irene non ne vuole sapere. Nonostante sia imbranato, mi insegna a camminare sui trampoli, facendo buon uso della maschera.

L’incantesimo sta per finire. Vorrei che non arrivasse più questo ritorno al futuro. C’è tanta umanità e solidarietà tra questa gente, che non divora lo scorrere del tempo con la nostra frenesia. Abbiamo rinnegato il vivere per l’arte, perchè ci fa palpare il mondo con gli occhi della fanciullezza.
Prima della partenza, mi commuove un esercito di bambini che combatte l’ultima battaglia per lasciare un messaggio chiaro a noi saccenti del futuro: “Perchè non gettate via le armi e usate gli abbracci per riscoprire la ricchezza che c’è oltre la corteccia della diversità?”.

Dimentico il cappello e la mia piuma d’oca. Ora come vi dimostrerò che sono stato per ventiquattro ore nel Medioevo? Gli appunti si sono sbiaditi. Le emozioni per niente.
Nel taschino trovo un biglietto con una dedica di Guglielmo I Bevilacqua che, nella transizione da passato a futuro, si è disciolta nell’inchiostro di un pensiero di Alfred De Musset: L’immaginazione a volte dispiega ali grandi come il cielo in un carcere grande come una mano”.

LINK CORRELATO:
Spunti e riflessioni nel mio articolo su Italia Medievale.org

Da Franco Battiato a Mina, perché i loro compleanni ci appartengono

Rosario PipoloLe canzoni non solo ci fanno stare bene ma sanno essere per una minoranza di noi incisioni sulla vita per le scelte future. Per questo motivo i compleanni di chi ce le ha donate, vanno festeggiati.
Non si tratta però dell’odioso fanatismo che fa di ogni fan che si rispetti il cortigiano immaginario del proprio beniamino, piuttosto dell’incosciente leggerezza che lega la vita, la nostra appunto, a certe canzoni e di conseguenza alle voci che le hanno vendemmiate per noi.

Pensando a due compleanni speciali in questo marzo, le 70 candeline di Franco Battiato e le 75 di Mina Mazzini, mi chiedo se dopotutto bastano canzoni per arrogarci il diritto di sedere da commensale al tavolo dell’illustre festeggiato. Non sono complici un mucchietto di ricordi, messi in castigo all’angolo, a dare una sostanza a quelle voci?

Mi capitò con Battiato in un auditorium milanese: dopo l’esecuzione di Povera Patria mi alzai in piedi e lui sorridendo mi disse: “Assiettete”. In camerino, mangiucchiando della frutta insieme, ripercorsi con Battiato la via Etnea sperimentale che illuminò gli orizzonti perduti delle mie conoscenze musicali.

Per Mina mi capitò in una cucina alla periferia di Napoli nei pomeriggi dell’infanzia: mamma terminava le faccende domestiche e mi raccontava della signora Mazzini, di professione cantante, trasferita a Lugano per tornare a vivere la quotidianità lontana dalll’invadenza dei riflettori. Insomma, per farla breve, nel mio immaginario Mina è rimasta l’amica di mia madre che, tra lavoro di casalinga e la professione di mamma per Massimiliano e Benedetta, si chiudeva in sala di registrazione e incideva canzoni.

Il fanatismo tanto decantato, che alimenta il personaggio e lo mitizza, prima o dopo appassisce. Resta in soffitta impolverato tra ricordi e vecchi brani. Accade il contrario quando le voci di quelle canzoni prendono la forma di persone, cresciute accanto a noi nella loro fragilità e umanità.
Perciò crescendo, avvertiamo la necessità di entrare in contatto con loro. Non è fanaticismo feticista. Questo tratto lo colse mia cugina Elena, quando anni fa mi fece trovare una dedica di Mina, incorniciata come se fosse uno specchietto della mia vita.

Abbiamo il diritto di essere accanto a loro quando soffiano sulle candeline perché, nell’ultima fiammella accesa sulla torta, ci sono i quattro angoli del cielo della nostra vita.
Le canzoni non si liquefano come su Spotify ma, dopo essere stati appiccicati come bottoni su un pentagramma, si muovono con la leggerezza di una libellula. Finiscono per assopirsi su una brandina al vinile, avvolta da una copertina su cui era disegnato, ad insaputa nostra, ciò che avremmo voluto dal nostro futuro.

Oggi sono io, anche grazie a voi due. Buon compleanno, Battiato. Buon compleanno, Mina.

Sanremo 2015, il Volo “cantanti da pizzeria” e le penne con l’Alzheimer

Rosario PipoloI due giovanissimi tenori e il baritono che compongono il Volo, la formazione musicale vincitrice del 65° Festival di Sanremo, si sono guadagnati meritatamente il consenso popolare, destando però qualche perplessità nei corridoi della Sala Stampa dell’Ariston. Tra l’altro pare che Pietro Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble siano stati additati pure come “cantanti da pizzeria”.

Senza tener conto di chi non ha digerito il successo planetario dei tre mocciosetti del programma tv di Antonella Clerici e la conquista degli USA,  dobbiamo rassegnarci al fatto che in Italia abbiamo delle penne malate di Alzheimer. Si tratta delle medesime biro che, abusando del loro inchiostro, pensano ancora di vivere ai tempi in cui segnavano il bello e il cattivo tempo della discografia.

Per fortuna o per sfortuna oggi ci sono i social media, non soltanto territorio di clowneria e nefandezza ma anche di competenza, la stessa che ha l’orecchio lungo e riconosce il talento di Il Volo. Le penne malate di Alzheimer hanno esaurito l’inchiostro a supporto di mediocri pianisti contemporanei, facendoli passare come geni incompresi, e non ne hanno più a dispozione per riconoscere la bravura di questo trio?

Consapevoli da una parte che i Festival di Sanremo dei Modugno, dei Dallara, dei Latilla, dei Villa, dei Rascel, degli Endrigo, dei Tenco o dei Gaetano non torneranno mai più, dall’altra ci opponiamo a questi ciarlatani da corridoio perché Barone, Boschetto e Ginoble possono fare un miracolo con le loro romanze pop: far avvicinare i ventenni alla lirica, ricordando loro che la radice della musica è tutta lì.

La mia generazione fece il grande passo scoprendo Luciano Pavarotti, l’antesignano di quella fusione magistrale tra lirica e pop. E me ne resi conto il 30 luglio 1991 quando, all’uscita da una merenda all’Hard Rock Cafè di Londra, mi ritrovai il grande tenore che cantava sotto la pioggia ad Hyde Park. Ebbi la fortuna di ascoltare quel concerto gratuito che in parte avrebbe compromesso alcune mie scelte musicali future.

Il Volo sono l’unico sollievo di questo Sanremo avaro che dimenticheremo in fretta, forse il peggiore musicalmente di tutte le edizioni. Se proprio dobbiamo salvare una baby band, teniamo loro e buttiamo giù dalla torre i Dear Jack, flop del filone della tribù della De Filippi.
Pietro, Ignazio e Gianluca hanno talento ma devono sapere che l’umiltà è necessaria per crescere. La strada per guadarsi un posto nella storia della musica è ancora lunga, faticosa, tortuosa e il pericolo che il successo negli USA li abbia montati la testa è dietro l’angolo.

Le braccia spalancate di Mimmo Modugno sulle note di Volare fecero il giro del mondo. E questa Grande amore? Nonostante resti una romanza pop di serie B avrà il pregio di ricordare all’estero che l’Italia – ed in particolare Abruzzo e Sicilia, le regioni che li hanno partoriti – non è solo corruzione e volgarità ma è ancora culla di ragazzi entusiasti, capaci di assistere con la passione il faticoso cammino per le nuove generazioni, orfane della grande musica che fu.