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La Genova di De André nel silenzio della pandemia

Genova per noi nel silenzio della pandemia, come se questo viaggio di ritorno in una delle città che più mi appartiene fosse una soffusa liberazione dalle catene dei lockdown a colori. La mascherina agevola la mescolanza nel flusso di coscienza della comunità e, allo stesso tempo, impedisce alle mandibole e al respiro di muoversi liberamente. Il mondo di Fabrizio De André diventa la tua ombra, passo dopo passo.

DAL LETAME NASCONO I FIOR

In via del Campo – conosco a memoria ormai ogni angolo – di Bocca di Rosa neanche il fantasma e mi chiedo abbassando lo sguardo quanto tempo Faber abbia impiegato per scrivere quella strettoia poetica divenuta patrimonio dell’umanità: “Dai diamanti non nasce niente Dal letame nascono i fior“.
C’è sempre qualcosa che profuma di De André in questo silenzio pandemico e surreale, in questo vuoto dei crocieristi di un tempo sbarcati dalle navi con l’affanno di collezionare selfie: “Come è bello il mare, quanto dura una stanza. È troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male”.

IN UNA MULATTIERA DI MARE

Risponderebbe l’altra anima salva, Ivano Fossati, che “Chi guarda Genova sappia che Genova Si vede solo dal mare Quindi non stia lì ad aspettare Di vedere qualcosa di meglio, qualcosa di più”.
Sì, tutto viene fuori per ritornare nel mare, come quello del viaggio musicale di Faber e Mauro Pagani in Creuza de mä, uno degli album più pittorici della nostra discografia:

E ‘nt’a barca du vin ghe naveghiemu ‘nsc’i scheuggi
emigranti du rìe cu’i cioi ‘nt’i euggi
finché u matin crescià da puéilu rechéugge
frè di ganeuffeni e dè figge
bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä
che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä.


STAGLIENO

Tradurre questo genovese è una bestiemma, sembra quasi di sbucciare la poesia: “E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli emigranti della risata con i chiodi negli occhi finché il mattino crescerà da poterlo raccogliere fratello dei garofani e delle ragazze padrone della corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare.
Sì, tutto ritorna nel mare, come le ceneri di Faber. E quando mi perdo nel cimitero monumentale di Staglieno, tra il ricordo risorgimentale di Mazzini e l’incontro indimenticabile con Nanda Pivano, mi rendo conto che è una lurida sciocchezza cercare De André oltre una lapide gelida, adesso che le sue ceneri appartengono al mare di Genova, che la difesa del suo patrimonio cantautoriale rimane un faro nella traversata del vuoto di oggi e delle sue strambe ovvietà.

NEL SILENZIO DELLA PANDEMIA

La Genova di De André nel silenzio della pandemia mi appartiene comunque e non occorre essere un genovese di razza per notare le ambulanze senza sosta, che in direzione del Pronto Soccorso del San Martino ci raccontano anche che la guerra contro il Covid è ancora in corso e non bisogna smettere mai di abbassare la guardia. Eppure in questo silenzio struggente, amalgamato al mondo poetico di Fabrizio De André, c’è un mucchio di luride parole che dissacra la memoria delle vittime del Ponte Morandi:

“Io non ci ero mai andato a Genova a vedere questo ponte mi han detto: ‘Fai l’analisi dei rischi catastrofali’. E io: ok”.

Questa intercettazione del 28 marzo 2019, che incastra l’incaricato di classificare il rischio del ponte crollato con 43 vittime, rimbomba nella Genova pandemica e batte l’ennessimo colpo d’ascia alle famiglie delle vittime e a tutti noi che aspettiamo giustizia.

Diario di viaggio: naufrago sull’Elba di casa mia

Rosario PipoloL’Elba è l’isola che non ti aspetti, soprattutto se ci capiti per un viaggio fuori programma. È Caprese negli spicchi che cantano a squarciagola la salsedine del mare cristallino di Cavoli; è Corsa nell’entroterra che fa delle alture e della vegetazione la plancia contadina dell’isola che non c’è.

L’isola c’è ma non solo nella costa frastagliate che agguantano la baia di Sant’Andrea o le spiagge selvagge avvistate oltre Porto Azzurro. L’isola esiste sulle alture dei borghi sospesi come Marciana Alta, dove le vecchie case scoperchiano la consistenza della memoria o nell’acqua della fonte napoleonica che rumoreggia sulla piazzetta di Poggio.

Si può essere elbani quando Angelo di Poggio trasforma l’ospitalità di un Bed & Breakfast in un canto di storie e di aneddoti che ti fanno mescolare con quella gente per un giorno, per due, per tre, per sempre.
Si può essere elbani quanto le pappardelle fatte a mano da Antonella di Porto Azzurro fanno inghiottire al gusto dell’entroterra i sapori della costa così che i funghi porcini aggrediscano cozze e vongole.
Si può essere elbani quando scopri che la donna affacciata alla finestra è Emilia Pignatelli, scenografa di Fabrizio De Andrè e occhio poetico che rese infrangibile la bambina sulla copertina di Anime salve, album testamento di Faber.

Mentre il turismo di massa se ne sta in spiaggia tra il chiasso di pisani e livornesi litiganti furiosi per accaparrarsi un posto auto, sbucano le cafoncelle vestite di goffaggine provinciale e preoccupate di collezionare tintarella e tuffi, perché illuse di essere chic.
L’isola dell’Elba le fa tornare a casa con un palmo di mosche in mano, le lascia senza abbronzatura, e per giunta con fastidiosi starnuti allergici, sculacciandole e mortificandole per la vuotezza da fradicia turista.

L’Elba premia invece il viaggiatore che sa ascoltare il richiamo della memoria, salendo le scale di Porto Ferraio e riconoscendo il rigurgito della storia rinchiuso tra le mura domestiche di Villa dei Mulini: l’epopea di Napoleone Bonaparte colta sul viale del tramonto dell’esiliato, tra le pagine dei libri ingialliti e il rumore dei passi dello spettro che l’ode manzoniana custodì integra nella sua totale umanità, come il faro che si intravede dalla finestra.

Vorresti non ripartire più, ma ormai la nave è salpata e ti obbliga a guardare in direzione della terra ferma, verso gli scheletri dell’Italsider di Piombino che invece nascondono tutt’altro. In treno incroci Stefania, psicologa e insegnante,  che ti svela l’altra faccia di Piombino e allora forse è già quello punto di partenza del viaggio che verrà.

A Pisa, in piazza dei Miracoli, attraverso gli occhi chiari di Simona, ritrovo riflesso il mare cristallino dell’isola dell’Elba. Danzano i ricordi e le nostre anime di viaggiatori che si tengono per mano. Il futuro è negli zaini che la vita ci ha messo addosso perché, attraverso questa instancabile voglia di viaggiare, riconosceremo nell’altro lo specchio per guardarci nell’anima da vagabondi e capire quale sarà la prossima meta. Il viaggio non finisce, mai e poi mai.

Don Andrea Gallo, il prete scomodo tra gli emarginati cantati da Faber

Don Gallo recità De Andrè

Rosario PipoloUn prete non dovrebbe mai assecondare i propri bisogni, ma fiutare i limiti di far parte del coro, magari pure stonato. Don Andrea Gallo, che sembra uscito da un verso del canzoniere di Fabrizio De André, è stato una gran bella voce fuori dalla mischia. La sua visione profetica del buon pastore si è fatta portatrice di laicità per strada, tra gli ultimi e gli emarginati, tenendo gli altari e i clamori del clero alla giusta distanza. Eppure “il don” genovese, scomparso mercoledì scorso all’età di 84 anni, non è stato mai un solista. Ne aveva le capacità, ma conservava l’umiltà di chi sapeva che “lottare assieme” per il bene del prossimo era una scorciatoia per accostarsi allo sguardo del Padreterno.

La Comunità di San Benedetto al Porto Di Genova raccoglieva le Marinelle, le Bocca di Rosa e i Michè di Faber, mentre nelle pupille di Don Gallo era tracciata la spina dorsale di un pensiero: “Ce ne sono tanti, purtroppo, che sognano una casa, una famiglia, invece trovano l’abbandono, la disperazione. Non sono loro le vittime, sono io, siamo noi, perché non ci rendiamo conto dell’indifferenza”.

Don Andrea Gallo è stato amato senza distinzione da credenti e miscredenti perchè al posto della tonaca indossava umanità. I giovani sapevano ascoltarlo perché le sue preghiere, prima di alzarsi verso il cielo, attraversavano il cuore della sofferenza che ci circonda ogni giorno e che noi puntualmente facciamo finta di non vedere. Per ricordarlo non servono più i suoi inseparabili compagni di viaggio – la sciarpa rossa, la Bibbia, la Costituzione e la bandiera della Pace – ma non perdere l’orientamento per continuare a percorrere il sentiero dei preti scomodi, quello ci fa sentire accanto il soffio di Dio.

Don Raffaè 2012: Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi e lacché

Io mi chiamo come mia madre mi ha fatto e sono finito nel carcere senza sape’. Avevo un nome straniero e sto a Poggio-Reale dal 2012. Alla centesima parola che non capisco, ho chiesto se c’era un uomo speciale che parlava con me. L’ho trovato al braccio speciale. Tutto il giorno vedo in tv quattro infamoni briganti, papponi, cornuti e lacchè. Che fetenzia quella faccia che sputa minaccia e se la prende con me, figlio dall’Africa nera. Perché lui là e io qui?
Ma alla fine mi sento meno solo, mi sbottono, leggo il giornale e chiedo spiegazioni al vecchio Don Raffaè. Mi spiega che penso e bevimm’ò cafè.

A comme è amaro ò cafè, neanche in carcere ‘o sanno fa, perché Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi, puttane e lacché.

Prima pagina, venti notizie inutili, cento ingiustizie nascoste e lo Stato che fa? Facebook si costerna, Twitter s’indigna, lo Stato s’impegna e poi finge di alzare la testa con gran dignità.
Mi scervello, capisco meglio il napoletano, per fortuna c’è chi mi risponde, a quell’uomo immenso io chiedo consenso al vecchio don Raffaè: Un falso galantuomo, eletto dal popolo, dovrebbe stare in carcere al posto mio, mentre guappi di cartone, che Dio li perdoni, spargono sangue tra infamie e miseria. A voi una volta bastava una mossa, una voce. Con rispetto s’è fatto le otto per guardare il tiggì, volite ‘a spremuta con la pillola per la pressione o volite ‘o cafè?

A comme è amaro ò cafè, neanche in carcere ‘o sanno fa, perché Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi, puttane e lacché.

Qui ci sta l’inflazione, la svalutazione, forse torniamo alla lira e la borsa ce l’ha chi ce l’ha. Io non tengo compendio che chillo stipendio non mi basta per le cure di mamma e papà. Aggiungete mia figlia zitella che serva-badante non vuole essere più. Non chiedo la grazia pe’ me, vi faccio la barba o la fate da sé. Voi tenevate un cappotto cammello che al maxi processo eravate ‘o chiù bello, un vestito gessato marrone così ci è sembrato su YouTube. Vi prego Eccellenza, ditemi se i disonesti stanno qui dentro o stanno fuori, perché altrimenti sapete cosa vi dico? Io resto qui.

A comme è amaro ò cafè, neanche in carcere ‘o sanno fa, perché Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi, puttane e lacché.

Qui non c’è più decoro vacanze da lusso su isole lontane, ma chi l’ha mi viste chissà. Chiste so’ fatiscienti pe’ chisto i fetienti, se tengono l’immunità. Don Raffaè un dì voi politicamente, ma chi caspita sono questi falsi santi, ma ‘ca dinto io sto a pagà senza permesso di soggiorno e fora chiss’a. A proposito ho visto bravi laureati che da quindici anni stanno disoccupati, hanno fatto quaranta concorsi, novanta domande e duecento ricorsi. E adesso chi glielo darà il conforto e il lavoro?

Don Raffaè, che zoza ch’è chisto cafè.*

*Ispirato liberamente alla canzone “Don Raffaè” di Fabrizio De Andrè

 Fabrizio De André, Don Raffaè

  Testo originale

 Via del Campo

Ustica e lo Stato che non vuol pagare: I panni sporchi si sciacquano

Non basta rivedere il film “Il muro di gomma” di Marco Risi o cazzeggiare in rete per capire quanto pesino le frottole ambulanti intorno al mistero di Ustica. Bisognerebbe farsi fare un abito su misura con tutti i ritagli di giornale di una trentina d’anni fa, quando quell’aereo in volo da Bologna a Palermo scomparve in cielo come in un film di fantascienza. Avremmo dovuto chiedere in prestito agli americani i Fantastici 4 per andare giù a fondo a quest’altro mistero italiano che, assieme alle stragi di piazza Fontana, di piazza della Loggia, della stazione di Bologna e il rapimento di Aldo Moro, chiude il girotondo intorno alle “incompiutezze” della Prima Repubblica.
Il Tribunale di Palermo fa tornare a parlare della strage di Ustica e di 81 vittime innocenti: punisce i Ministeri della Difesa e dei Trasporti per “negligenza e omissioni della verità” con una multa da 100 milioni di euro. Una cifra sciocca e di scarso valore morale visto che in questo lungo tempo la verità non è mai saltata fuori. No, anzi si è solo sciolta come un ghiacciolo al sole, mentre la roulette gira tra Libia, Francia e Stati Uniti.
E lo Stato che fa? Lo aveva predetto Faber tra i versi della sua Don Raffaè: “Prima pagina venti notizie ventuno ingiustizie e lo Stato che fa si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità”. Nessuno vorrebbe essere nei panni dei parenti delle vittime, costernate da un dolore straziante. Peggio ancora è vestire i panni di chi rappresenta lo Stato italiano e si prepara a “far ricorso contro la sentenza” perché la ritiene “inaccettabile”.
Pur di non indossare i panni sporchi, è più dignitoso andarsene in giro “in mutande” e finire sulla prima pagina di un giornaletto parrocchiale per “oltraggio al comune senso del pudore”.

  Ustica, sentenza choc: nessuna bomba sul DC9…

  Associazione parenti delle vittime

  Quella maledetta estate di Giovanni Minoli

 

Don Riccardo Seppia e i nuovi mostri: meglio Bocca di Rosa!

Non occorre essere anticlericali fino alle unghie dei piedi per strillare col megafono che don Riccardo Seppia rappresenta il disonore del sacerdozio. Il parroco di Sestri Ponente è accusato di abusi sessuali sui minori, ma peggio ancora si trema dinanzi alla notizia shock: il “don mostro” è anche sieropositivo e potrebbe aver contagiato chissà quali delle sua vittime.
E come per ogni categoria, mettendo da parte il credo religioso, sarebbe un grave errore mortificare il valore di quella ciurma di sacerdoti sparsi per il mondo a donarsi per il bene dell’umanità. Mi riferisco a quelli di frontiera nella aree disagiate delle nostre metropoli; a coloro che sono finiti in Africa devolvendo la vita ad intere comunità; a coloro che sono partiti nei territori di guerra e non sono più tornati. Fa meno cronaca, ma dovremmo tornare a parlarne, a trovare lo spazio adeguato per raccontare storie che non sono poi così banali e controbilanciano quella minoranza mostruosa che ha trasformato “la tonaca” nell’arma diabolica della miseria umana.
Chi fa abuso dei minori dovrebbe essere linciato, ma soprattutto dovrebbe essere subito intercettato da chi spesso fa finta di niente, chiude un occhio, per il bene apparente della comunità. Chi è complice di Don Seppia o chi lo ha protetto dall’alto della gerarchia merita la sua stessa sorte. A chi spetta il giudizio, a seguito della rabbia e del dolore, al tribunale o anche alla stessa comunità?
Più di quaranta anni fa un genovese cantò con la sua chitarra “Bocca di Rosa”, scandalizzando il clero benpensante che scagliava pietre contro le prostitute, ma forse già chinava il capo di fronte ai nuovi mostri. Vorrei tornare tra i vicoli di Genova a cercare quella chitarra. C’è ancora un cantastorie coraggioso che, senza aver letto i vangeli apocrifi, è pronto a difendere l’ultima “puttana” pur di smascherare l’ennesimo “sepolcro imbiancato”?

 

Genova per noi

Genova per noi “che stiamo in fondo alla campagna”, come cantava Paolo Conte nell’omonima canzone, è la visuale di chi viene dall’astigiano piemontese. Genova per noi “profughi del mediterraneo”, aggiungerei io, è la visuale di chi sbarcava da città come Napoli o Palermo, invischiandosi al porto tra bordelli e contaminazioni dei vecchi night club. Genova per me era una tappa di transizione, dopo una notte di Espresso affollato, per cambiare il treno che mi avrebbe portato in Francia da una parte della mia famiglia. E adesso Genova per chi è, in quella sua conformazione misteriosa e affascinante in bilico tra Porto, Lisbona e Marsiglia ? Ai sudamericani, che hanno invaso Via Del Campo, se chiedi chi fosse Fabrizio De Andrè ti rispondono: “Quel tizio che strimpellava la chitarra”. Delle atmosfere cantate da Faber non c’è quasi niente. Il negozio-museo fondato da Gianni Tassio ha le saracinesche abbassate, perché il comune ha messo su un bando per darlo in gestione, ma nessuno si è fatto avanti ancora. Altro che Bocca di rosa, occorre imbattersi nei travestiti della zona, che oggi parlano solo spagnolo e portoghese. La vecchia Morena, alias Mario Dorè, il travestito che ha nutrito tutta la generazione di De André, è solo un pallido ricordo così come rischiano di diventarlo i femminelli dei quartieri Spagnoli partenopei. Gli aneddoti interessanti si rubano ai genovesi di altra generazione, ma su questa memoria raggelata e intorpidita nessuno batte ciglio, così come se ti metti alla ricerca invana dei Tenco, dei Bindi o dei Lauzi. Timidi accenni a Boccadasse tra la casa citata in La Gatta di Gino Paoli o la Creuza de Mar, immortalata nell’omonimo aquerello musicale di Pagani e De Andrè. C’è sempre una consolazione, una sosta casuale all’ Antica Sciamadda di via San Giorgio a rimpizzarsi con focaccia genovese e farinata, a quasi i 18 euro al chilo, forse un po’ troppo per un piatto popolare. E’ legittimo rifugiarsi nel gusto perchè Genova resti Genova?

Luigi Tenco, vedrai vedrai…

Quando spunta l’anniversario della morte di Luigi Tenco, avvenuta il 27 gennaio 1967, tutti si fiondano ad indagare sulla scomparsa ombrosa del cantautore genovese.  Al di là dei misteri irrisolti, dovremmo dare più spazio nella nostra quotidianità ai cantautori che hanno guardato  avanti, giocando in anticipo sui tempi. L’Italia musicale degli anni ’60 ancheggiava ancora con Celentano, ballava Con le pinne, fucili ed occhiali e si innamorava sulle note di Sapore di mare. Di quell’Italia era figlia una casalinga napoletana, appassionata sfegatata di Morandi, Don Backy e Ranieri. Nonostante la distanza dalla musica impegnata, tra i suoi beniamini c’era Luigi Tenco. Era un pomeriggio del ’79 e alla radio davano Ciao, amore, ciao. Ascoltandola capii che non era il solito brano e lei mi presentò così Tenco: “Eravamo abituati a raccontare l’amore alla maniera di Io, Tu e le Rose (il brano finalista di Sanremo ’67,ndr.), ma Luigi si espriveva in tutt’altra maniera, portando a galla altri aspetti. Non eravamo pronti allora e forse non lo siamo ancora oggi”. Aveva ragione quella casalinga, mia madre, perchè dopo tutto i sentimenti potevano restare intrappolati in una malinconia  dal sapore schopenhaueriano (Mi sono innamorato di te), l’esilio dalla terra natia in un acquerello sussurrato (Ciao, amore, ciao), la speranza in balia degli affanni del tempo (Vedrai vedrai). Nei sabato pomeriggio del primo liceo facevo lo speaker “abusivo” in una radio locale e, mentre dj Alex mi faceva segno di smettere per non perdere i quattro gatti che ci ascoltavano, lessi  i versi che Fabrizio De Andrè gli dedicò in Preghiera in Gennaio: “Signori benpensanti spero non vi dispiaccia  se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio, fra le sue braccia, soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte  che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte”.

Sanremo 2009 Atto II, la PFM festeggia Faber

pfm-sanremo150La seconda serata del Festival di Sanremo è stata noiosissima. L’entusiasmo per gli ascolti è scemato con l’uscita di scena di Roberto Benigni, ancora argomento di discussione su blog e forum. Iva Zanicchi gioca a fare la parte dell’offesa e accusa l’attore toscano. Caro Roberto, forse hai osato troppo nel tirare in ballo di nuovo “la patonza”? Paolo Bonolis si è salvato in calcio d’angolo grazie alla splendida esibizione della Premiata Forneria Marconi, che ha festeggiato il compleanno di Fabrizio De Andrè con due regali esecuzioni di “Bocca di rosa” e “Il pescatore”, movimentando l’Ariston. Di Ciccio e compagnia bella hanno dimostrato per l’ennesima volta di essere animali da palcoscenico, convincendo anche i più testardi sulla relatività dell’età anagrafica (ascoltate l’ultimo album “Pfm canta De Andrè” della Edel!).  Tolto questo fulmine a ciel sereno, il Festival di Bonolis è scivolato giù con l’impacciata Abbagnato e la singhiozzante apertura Mozart-Pink Floyd! E la musica? Neanche al secondo ascolto hanno convinto i Big. Tra “i salvabili” proviamo a ripescare la meliosa serenata di Marco Carta, l’easy-listening di Dolcenera, la pseudo romanza di Francesco Renga e lo sprint partenopeo di Sal Da Vinci. Tra le nuove proposte spiccano il volo Karima e Iskra (bravissima corista di Dalla), mentre ad inquietare è la presenza di Arisa, figlia di Sanremo Lab! La partita è ancora aperta, sperando di evitare la catastrofe e di sostituire davvero la scaletta sanremese con quella di X Factor.