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Ròbert a fumetti e il rischio di prendere per il sedere Roberto Saviano

Rosario Pipolo

In Italia dovrebbe funzionare così: o stai con lui o contro di lui. La stessa regola vale anche nei confronti di uno scrittore osannato come Roberto Saviano. Il fumettista Vito Manolo Roma ha espresso la sua posizione in maniera netta: l’autore di Gomorra, la penna che ha smascherato la malavita organizzata, è vanitoso e vuole la scena tutta per sé.

Essendo il pamphlet anti-Saviano un volumetto disegnato a matita, chi lo prenderà in considerazione? “Ròbert”, questo il titolo della storia a fumetti (Antitempo edizioni) di uno scrittore anti-mafia infettato dal narcisismo dei tempi nostri, soffia tra le nuvole parlanti i difetti di un personaggio molto apprezzato anche dentro e fuori i social network.

Già prima dell’apparizione delle strisce satiriche di Manolo Roma, sapevamo che Roberto Saviano non era stato né il primo né l’ultimo ad occuparsi dei temi che gli hanno dato fama e successo. La differenza rispetto ai predecessori è una sola: la penna di Saviano è arrivata diritta al cuore del lettore proprio come quelle canzoni che, pur assomigliando al replay di qualcosa altro, diventano colonna sonora della nostra vita.

Io personalmente non sto né con Roberto né contro Saviano, ma con chi difende la propria dignità per riflettere sulla giustizia. All’ultimo Salone del libro di Torino ho visto centinaia di ragazzotti in fila per strappare a Saviano una dedica o una battuta e non per divorare le solite brioche indigeste della tv alla De Filippi. Pertanto, anche se lo scrittore di Gomorra fosse l’alter-ego a fumetti del Ròbert di Vito Manolo Roma, questi difetti sono passabili. Riguardano un trentenne che ha rinunciato a un comodo paio di pantofole e un sofà, ha messo in pericolo la sua vita per scacciare l’insidiosa massima andreottiana che “i panni sporchi si lavano in famiglia”.

C’è un rischio nel prendere per i fondelli Roberto Saviano: essere scambiato per la voce stonata fuori dal coro che vuole guadagnarsi un minuto di popolarità, anche se di mezzo c’è il tratto di una matita.

A Saviano e Benigni: Vengo via con voi!

Quando mi vergogno di essere italiano per le tarantelle che si ballano nel nostro Paese, ho sempre l’alternativa a porta di mano: “Prego, sono napoletano”.E’ bastata un’inquadratura televisiva, stranamente del Servizio Pubblico, a farmi tornare orgoglioso di essere napoletano e italiano al tempo stesso. Si tratta di quella che riprendeva assieme “i due Roberto”, Benigni & Saviano. Quando occorre aspettare affinché diventi una polaroid emblematica della storia televisiva del nuovo millennio? Con l’assenso o dissenso del potere, il telespettatore ha ancora l’ultima parola, perché l’arma del telecomando è dalla parte nostra e non da chi vuole censurare.
La prima puntata di Vieni via con me, l’osteggiato programma televisivo di Fabio Fazio e dello scrittore di “Gomorra”, è stata una delle oasi più travolgenti ed emozionanti che la Rai abbia mai proposto. Roberto Saviano, surriscaldando i motori delle coscienze dentro la metafora della “macchina di fango”, si è servito del monologo teatrale per far sì che la riflessione della formula del Teatro-Canzone di Gaber e Luporini si rivestisse di teatro-televisione. Il giullare Benigni, svolazzando tra sussulti danteschi e filosofici, ha guardato diritto negli occhi un “boss”, ricordandogli che l’amore e una biro posso resistere ad ogni mostruosità.
Mentre il web si mette a caccia delle pillole in video della prima puntata e il successo è a furor di popolo, perché rischia di saltare lo speciale dantesco di Roberto Benigni nei giorni Natalizi? La Rai dice che non ha soldi, ma continua a strapagare quei quattro gatti della casta prediletta. Ieri sera, al concerto di Paolo Conte a Milano, ho ritrovato la canzone Via con me e Roberto Benigni, seduto in platea a pochi passa di me. Firmandomi una dedica, non si è accorto che oggi sono io a gridare : Caro Saviano, caro Benigni, vengo via con voi, perché il Belpaese fa finta di niente, si ottura il naso, pure quando c’è chi si batte affinchè la nostra tv ritrovi la genesi della sua missione sociale. Ah, dimenticavo la missone sociale è un’altra, quella di stordire col fango populista sotto l’egemonia di tette, volgarità e stupidità.

Angelo Vassallo, il Sindaco eroe ritornato a fare “il pescatore”

Nel Cilento vi ho trascorso delle estati meravigliose. Quasi probabilmente, mentre io ero in spiaggia alla prese con i miei castelli di sabbia, lui era lì sulla sua barchetta. Quante volte avvistavo all’orizzonte i pescatori, al largo con le loro reti che tornavano a casa col pesce fresco. Angelo Vassallo lo faceva per passione perché sia sa che dialogare col mare non è da tutti. Ed è lo stesso entusiasmo che lo  ha trasformato in Sindaco, con un impegno e costanza tali da diventare un punto di riferimento per la comunità di Pollica. Niente teatrini politici, niente bagarre, ma una lista civica che ha convinto tanti a battagliare al suo fianco. Chi lo ha lasciato solo quando sette colpi di pistola lo hanno freddato senza pietà?
C’è un contrasto paradossale tra l’opposizione del “Sindaco pescatore” alla Camorra e la lettera aperta ai vertici di Gomorra, diffusa alcuni giorni prima della sua morte dai dipendenti dei consorzi di Napoli e Caserta per la raccolta differenziata: “Se lo dice Saviano e la stampa la camorra nei rifiuti deve essere un fatto vero. Ci rivolgiamo a voi noi, che, seppur indirettamente, stiamo lavorando per voi”“Mafiosamente vostri” – così si concludeva la missiva in cui si chiedevano alla Camorra più lavoro e aumenti di stipendio –  è un’espressione in netto contrasto con la bara che venerdì scorso ha attraversato Acciaroli. C’erano seimila persone a dare l’ultimo saluto ad Angelo.
Mi chiedo chi siano i più coraggiosi: il bagno di folla che speriamo non dimentichi o quel mucchio di lavoratori, che ha infangato con quella lettera il sacrificio del “martire del Cilento”? La mia convinzione è che in quella cassa di legno non ci fosse il corpo del Sindaco ammazzato. Qualcuno ha avvistato una barca nel mare calmo del Cilento. A bordo c’era un uomo, ritornato a fare il pescatore, per lasciare un segno di coraggio, umiltà e determinazione.

Iole Di Lauro, la mia maestra e quei 21 scalini

E pensare che a separarmi da Iole Di Lauro, in quella mattina del settembre del 1979, c’erano soltanto 21 scalini, quelli della Scuola Elementare di via Dei Mille ad Acerra. Li salii uno ad uno con mia mamma e in spalla avevo la cartella. Era il primo giorno di scuola. Seconda porta a sinistra, in un’aula soleggiata del II Circolo Didattico e lei era lì. Sussurrai a mia madre: “Mi piace, mi fa impressione”, questa era la mia espressione infantile per indicare che una persona mi aveva folgorato. In un angolo della classe, c’era un bimbo che singhiozzava perché voleva tornarsene a casa. Mi sedetti accanto a lui e, dandogli una pacca sulla spalla, gli dissi: “Perché fai così? Guarda che bella maestra che c’è capitata”. Lui mi sorrise e da allora io e Giuseppe Scolaro diventammo amici per la pelle. La classe si riempì e iniziò il nostro viaggio. Sì, un bel viaggio durato cinque anni che trasformò quell’aula in una piccola grande famiglia, decifrando il ciclo della nostre vite.
Iole Di Lauro era una giovane maestra venuta da un piccolo paese dell’avellinese. Era moderata nell’animo, era modesta, romantica e sentimentale nel suo stile di vita, ma perspicace nell’essere precorritrice, anticipando i tempi e costruendo una congiuntura tra la scuola del passato e quella del futuro. Ha puntato, nelle vesti di educatrice, su una formazione che avesse alla base la creatività, lo slancio verso l’innovazione, la multimedialità, nell’uso dei diversi linguaggi. Iole Di Lauro fu una convinta ambientalista quando ancora esserlo non era di moda; fu una profonda sostenitrice della ricchezza della diversità e dell’integrazione razziale prima ancora che l’Italia si svegliasse meticcia; rinunciò al solito canzoniere per bimbi,facendoci cantare i grandi cantautori come Sergio Endrigo. Fu coraggiosa quando strinse un patto d’acciaio con i nostri genitori e trasformò la nostra vita da scolari nel prolungamento di quello che eravamo a casa. Fu un modo intelligente per difenderci dal grigio che c’era fuori, per mettere il silenziatore agli spari dei mostri della Gomorra di allora, che spargevano sangue nella nostra città, mentre l’Italia si illudeva di cancellare,attraverso l’euforia degli anni ’80, lo shock per il buio del decennio precedente, sulla zattera che da Piazza Fontana si era spinta fino al cadavere di Aldo Moro.
Iole Di Lauro segnò il mio destino negli anni delle scuole elementari, nel giorno in cui le regalai “Il giornalino di Pinocchio”, disegnato in un pomeriggio in cui sbuffavo davanti alla noiosa matematica o forse l’8 marzo del 1982, quando mi ritrovai con un fiocco blu sul braccio destro come premio per aver scritto un tema, che oggi penso sia stato il mio primo articolo: un bambino spiegava al suo cagnolino il significato del giorno della Mimosa.
Poi arrivarono gli esami e, nel luglio del 1983, fu la volta della nostra ultima pagella. In tutti quegli anni mi sentii un burattino come Pinocchio, ma fu lei, la mia maestra, a trasformarmi in un bambino vero. Sulla mia guancia c’è ancora il segno della sua ultima carezza  e quella raccomandazione con il tono severo e dolce di una mamma: “Non sarete mai soli, ci sarà sempre qualcuno a preoccuparsi di voi”.  Uscito da scuola, fui preso da un groppo in gola, mi voltai indietro, non c’era più lei e neanche i miei compagni di classe di cui non potevo fare a meno. Come avrei fatto senza Paola che, appena spuntava la primavera, diventava smaniosa perché avrebbe voluto mandare all’aria il grembiule; come avrei fatto senza Giuseppe e Mimmo con cui ne avevo combinate di cotte e di crude; come avrei fatto senza Marco che arrivava  puntualmente di corsa con il fiocco messo al contrario; come avrei fatto senza Laura che sgranocchiava patatine fin dalle nove del mattino; come avrei fatto senza Carmela che percorreva con me un pezzo di strada fino a casa; come avrei fatto senza Margherita e quella sua gentilezza che ti acquietava; come avrei fatto senza gli occhi azzurri di Angela o senza Stefania che si improvvisava con la matita una stilista di moda; come avrei fatto senza Lilly che mi passava caramelle e gomme da masticare; come avrei fatto senza Orsola con cui condividevo la passione sfrenata per il teatro; come avrei fatto senza Luisa (Tassari) che sbraitava perché non voleva fare i riassunti;  come avrei fatto senza Loredana, la bambina che mi aveva rapito il cuore fin dalla prima elementare: non feci in tempo a dirle che finalmente “mi ero tolto quel maledetto bendaggio che mi faceva sentire un pirata”, che lei poteva aspettarmi perché, quando saremmo stati più grandi, io sarei passato con un cavallo bianco a prenderla come nelle fiabe e l’avrei sposata. Io non ho mai dimenticato tutto questo, nonostante il passare degli anni, nonostante i continui vagabondaggi da randagio in giro, nonostante tutto.
E oggi risalgo quei 21 scalini per tornare da te, Maestra, per restituirti quel fiocco blu e quel grembiule che non erano per me una fastidiosa divisa, ma rappresentavano il significato di uguaglianza che solo la Scuola Pubblica può e deve garantire. E tu, Maestra, sei il fiore all’occhiello di questa Scuola Pubblica, a volte distratta nell’attribuire riconoscimenti, a volte maltrattata da chi non si accorge che essa alleva anche gli educatori per vocazione.  Le maestre non vanno mai in pensione, ma restano sempre protagoniste in un armonioso intermezzo tra il banco e la cattedra, come il buon profumo di una pagina stagionata del libro Cuore. Grazie  perché nel primo verso di quella canzone c’era la profezia: “Per fare un albero, ci vuole un seme…”. E noi tuoi ex alunni se oggi siamo diventati degli alberi robusti è perché alla nostra radice c’è quel seme, tu maestra. Goditi la meritata pensione, ma restaci accanto.

Las Vegas, un museo per quelli come Roberto Saviano!

Per chi ha in programma un viaggio a Las Vegas, conviene temporeggiare almeno fino al 2011. Ai resort di lusso e alla febbre del gioco dei casinò si aggiungeranno un paio di attrazioni “inutili”, due musei dedicati al crimine organizzato. Insomma, la capitale della perdizione del Nevada celebra a modo suo la Mafia e, tutto sommato, non le dà noia ravvivare la memoria del suo passato losco. In Italia c’è chi si è convinto che Gomorra, il libro di Roberto Saviano, abbia contribuito ad infestare la nostra immagine, nella logica della massima andreottiana – censoria nei confronti del Neorealismo cinematografico – che “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Piuttosto tirerei in ballo la trilogia cinefila di Il padrino di Francis Ford Coppola, che ha propagandato quella ambigua mistificazione, portando don Vito Corleone sulla via dell’eroismo. E chissà se il progetto “pseudo-culturale” di Las Vegas rafforzerà lo stupido stereotipo del popolo yankee di considerare l’Italia come patria di “mafia, pizza e mandolino”. Forse sarebbe il caso di dedicare un museo a tutte quelle vittime o a coloro che si sacrificano in prima linea per combattere la malavita organizzata, in America come in Italia. All’entrata, più che una maxi riproduzione di Al Capone, mi piacerebbe vedere il faccione di Roberto Saviano accompagnato da una scritta: “La nuova gioventù italiana vuole assomigliare a lui perché la sua penna graffiante ci toglie di dosso il cattivo odore, quello infognato dell’omertà ”.

Castelvolturno, l’ultimo canto di Miriam Makeba

makeba-miriam-150Ho trascorso a Castelvolturno le prime due vacanze della mia vita. Nonostante avessi 2 anni, ho ancora qualche sprazzo di quelle estati. Nei primi anni Settanta il nome di questa località balneare della provincia di Caserta era meta vancanziera per una parte delle famiglie napoletane. I tempi cambiano e oggi Castelvolturno finisce sempre sulle prime pagine dei giornali come una roccaforte di malavita e criminalità. Dall’altra parte, Miriam Makeba, una delle voci più intense del jazz e della world music, è tra i  miei rimpianti: non la ho intervistata né ascoltata dal vivo. La adoro da sempre per l’impegno tenace contro l’Apartheid in Sudafrica. Una parola che mi fa ancora rabbrividere così come me la spiegò la mia professoressa Rosalba alle Medie. Vallo a spiegare a un tredicenne che anche dinanzi al pericolo di morte i bianchi sono da una parte e i neri dall’altra! Mama Africa è morta a Castelvolturno  per un arreasto cardiaco, dove era venuta per un concerto di solidarietà per lo scrittore di “Gomorra” Roberto Saviano, minacciato dalla camorra. Non è mai casuale che musica, impegno sociale, denucia e il desiderio legittimo di avere un territorio nuovo si incontrino in un misto di rabbia e coraggio. Il Sudafrica e il Sud Italia non sono mai state così vicine per una guerriglia sociale, trait d’union simbolico tra Johannesburg e Castelvolturno. L’ultima volta “Cristo si è fermato ad Eboli”, ma l’ultimo canto di Miriam Makeba si è smorzato in una terra che vuole riavere indietro la sua dignità. Speriamo che gli ultimi passi di Mama Africa non si fermino qui.

Gomorra, l’Oscar mi rende nervoso!

Ogni anno è una tribolazione per trovare un accordo sul film che rappresenterà l’Italia gli Oscar. E il malcontento rischia di essere all’ordine del giorno per alcune candidature passate, azzardate ed ingiustificate: il Pinocchio di Benigni nel 2003 o La sconosciuta di Tornatore quest’anno. Sarà Gomorra di Matteo Garrone, il film tratto dal libro cult di Roberto Saviano, a restituire all’Italia il 22 gennaio 2009 la speranza di rientrare nella rosa delle nomination per l’ambita statuetta. Tradotto in 33 lingue con quasi 2 milioni di copie vendute, il libro dello scrittore e giornalista partenopeo è una radiografia sconvolgente, in bilico tra saggio e inchiesta, sulle attività criminali della camorra. La trasposizione cinematografica di Garrone è un racconto epico, una tragedia in stile classico che trasforma quei mostri localizzati tra Napoli e la sua degradante periferia in un dramma universale. Non dimentichiamo che la maggior parte degli Americani guarda l’Italia come il Paese di “spaghetti, sole, pizza, mandolino e mafia”. Quel film è un coraggioso atto di denuncia, e non una radiografia pittoresca o folcloristica del morbo cronico di una città e del Sud Italia. L’ambita statuetta – che tutti ci auguriamo – acquisterà un valore culturale e artistico soltanto se rientrerà nei parametri di questa riflessione: il popolo napoletano non ha più bisogno di finire in pasto alle prime pagine dei tabloid di tutto il mondo per autorevoli critiche, compassione o commiserazione. Napoli, oggi più di ieri, ha bisogno di una presenza costante delle istituzioni e del sostegno a persone come Saviano, piccoli grandi eroi dei nostri giorni bui. Se così non fosse, allora vi diciamo: “No grazie, l’Oscar ci rende nervosi”.