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La “fifa” del Padrino del pallone gonfiato

Rosario Pipolo“Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare”. Il Padrino era troppo sicuro di sé, avrebbe agito da “pallone gonfiato”, perché la ragnatela che aveva tessuto occultava il sistema. Era un mondo quasi perfetto.

E quando gli affari venivano conclusi e il profumo della mazzetta apriva le narici, allora il don Vito Corleone del pallone ghignava: “Un giorno, e non arrivi mai quel giorno, ti chiederò di ricambiarmi il servizio, fino ad allora consideralo un regalo”.

Quando mai il pallone ha fatto goal nella rete dell’America? Gli americani mangiucchiavano e sputavano noccioline ad un partita di football, ad un match di rugby e si ricordavano del calcio solo quando c’erano i Mondiali.

“Mai dire a una persona estranea alla famiglia quello che c’hai nella testa”. Don Vito ebbe l’illuminazione di portare il pallone d’oro tra le lobby americane. Tanto a riempirlo di passione ed entusiasmo ci avrebbero pensato i sudamericani di frontiera, figli della generazione che aveva consegnato il pallone tra i piedi degli dei delle favelas, rendendolo un dio pallone nel mondo.

Don Vito annuì: “Perché un uomo che sta troppo poco con la famiglia non è mai un vero uomo.” Quaranta anni fa due bravi giornalisti sgominarono il clan insediato a Washington, facendo dimettere il peggiore Presidente degli Stati Uniti d’America. Cosa riuscirà a fare oggi l’FBI contro la lobby del “pallone gonfiato”?

Altro che mani nella marmellata. Questa è davvero merda essiccata al sole. E’ giunta l’ora della “fifa” anche per il padrino del pallone gonfiato?

David Letterman e l’America oltre la TV

Rosario PipoloL’America, conficcata tra la presidenza di Truman e quella di Nixon, si stropicciò gli occhi guardando l’Ed Sullivan Show, lo storico programma televisivo che allevò più generazioni, inclusa quella che, nella puntata del 9 febbraio del ’64, annusò che la musica degli sbarbatelli Beatles avrebbe potuto fare le scarpe ad Elvis.

David Letterman, icona dell’intrattenimento televisivo d’oltreoceano degli ultimi quarant’anni, si è fatto erede di Ed Sullivan e ha traghettato gli USA del piccolo schermo televisivo attraverso i decenni ondulanti tra la politica pirotecnica reganiana e quella pseudo-sociale di Obama.

Non state leggendo un necrologio, perchè Mister Letterman non è morto. Va a godersi semplicemente la meritata pensione e spegne un pezzo di storia della televisione americana. Anzi no, diciamocela tutta: mette per sempre il sigillo alla scatola stregata che ha fatto il bello e il cattivo tempo di un Paese.

In Italia ci siamo dovuti accontentare facendo zapping tra i siparietti nazional-popolari del Maurizio Costanzo Show. Agli americani è andata meglio di noi con il Late Show. Letterman ha scremato i ruoli del conduttore, del comico e del “giornalista” mancato, mischiandoli in un gioco sottile tra ironia, satira, denuncia.

Per chi non se ne fosse accorto, David Letterman è stato anche la rivincita di un tipo di televisione, che in Italia abbiamo scimmiotato male nella belle epoque del berlusconismo catodico.
Letterman, armato di nonchalance sofisticata e per certi versi “con la puzza sotto il naso”, è stato così abile ad abbattere la corazza e i tabù della star monumentale che la poltrona dell’ospite ha fatto anche da confessionile gonfiabile.

Tra la scrivania di Letterman e lo scottante sofà su cui si sono seduti gli ospiti c’è stata la distanza di sicurezza sufficiente per accorgersi del carisma del padrone di casa, in tante occasioni più ospitale e arguto degli inquilini potenti che si sono succeduti a Washington.
Nel 1981 Hollywood spedì un attore in pensione alla Casa Bianca. Chissà che domani non ci riesca la tv del Late Show.

Diario di viaggio: Gli italoamericani e l’America che sta cca’

Rosario PipoloGli italoamericani sono entrati nel nostro immaginario collettivo anche attraverso il cinema e la televisione. Il più delle volte con quelle forzature che affogano nell’odioso cliché, da Il Padrino ai Soprano. In quanti si sono lasciati affascinare e convincere che il successo all’ombra della Statua della Libertà sia tutto in un pugno di ferro, nel tiro alla fune che fa del Vito Corleone o del Tony Soprano di turno il braccio violento d’oltreoceano.

Se però mettiamo in conto che una famiglia italoamericana, prima dei suoi codici e delle sue regole, custodisce con gelosia il meglio della sua italianità, allora forse è il caso di dire che l’America sta cca’, come canterebbero i Terrasonora, e non nel quadretto televisivo della famiglia patriarcale della serie Dallas, tramontata insieme alla politica pirotecnica reaganiana.

Nel 1963 dal Sud dell’Italia Luigi e Concetta sbarcarono a ‪New York‬ e cominciarono a Queens una nuova vita. Nell’arco di tempo che va dall’America dei Kennedy a quella degli Obama, Luigi e Concetta vantano oggi una famiglia numerosa: più di 45 persone tra figli, generi, nuore, nipoti e pronipoti.

Condividere con loro una cena a ridosso della Pasqua, mi ha convinto che incrociare gli italoamericani in Italia è come il boato di un tuono per la nostra memoria. Le complicazioni di un pianeta testardamente globalizzato hanno cancellato la soluzione del rebus tatuato sulla pelle di ogni civiltà che si rispetti: chi emigra dona un valore aggiunto al Paese che lo accoglie.
Guardando negli occhi Rocco, Antonietta, Catherine, Antonietta junior, Francesca, Gina Marie e Giovanna, spicchio di questa numerosa famiglia che porta nomi italiani ma parla una lingua straniera, mi sono detto: Dobbiamo qualcosa a loro per aver schiacciato il cliché citato all’inizio, esportando negli ‪Stati Uniti‬ l’immagine autentica dell’Italia laboriosa e onesta.

I viaggiatori come me in realtà non hanno la vita rinchiusa nella famiglia d’origine ma la frazionano con tante altre anime conosciute lungo il percorso della vita. Catherine e le sue sorelle mi hanno restituito quel senso di libertà che conquistai nel 2005, attraversando gli USA su un autobus della Greyhound per oltre seimila chilometri.
Nell’aprile di dieci anni dopo è l’America che viene a farmi visita, ricordandomi che non si è mai abusivi quando il viaggio si è compiuto per riprendersi una vita vissuta insieme agli altri. Così accade che un Paese straniero diventi improvvisamente nostro, facendoci scivolare di dosso la sfacciata leggerezza da vagabondo.

Cuba e la farsa della caduta del muro dell’Avana

Rosario Pipolo“Continueremo ad andare avanti come fossimo insieme a te con Fidel ti diciamo: Per sempre, Comandante Che Guevara!”. Il tempo sciacqua tutto? Le parole del vecchio inno rivoluzionario cubano, Hasta siempre di Carlos Puebla, sono state seppellite dal sound di Candido Fabré e la sua orchestra, colonna sonora dell’apertura di Cuba al turismo di massa e alle “tette e culi latini”, l’attrazione vera per i maschi “arrapati” americani.

L’annuncio di Barack Obama di porre fine allo storico embargo americano verso Cuba – sembra uno slogan da campagna elettorale per recuperare punti dopo l’ultima batosta repubblicana –  vorrebbe farci bissare l’entusiasmo per la caduta del Muro di Berlino.
La cortina di ferro tra Usa e Cuba era iniziata a sgretolarsi quando Raul Castro aveva rimpiazzato di fatto il fratello Fidel e i venti di occidentalizzazione cominciavano a far comodo ai cubani.

Più che Bergoglio in questo processo c’entra la storica visita del ’98 di Karol Wojtyla a Cuba che, non solo servì a ridimensionare gli ululati nostalgici del compagno Fidel, ma anche a ricordare al dittatore cubano che i cattolici sull’isola erano una forza numerica da riconoscere e tutelare.
Per tornare agli americani, l’inasprimento dell’embargo cubano fu l’errore più clamoroso della fallimentare politica estera di John Kennedy.
La Cuba castrista, per decenni spina nel fianco degli USA, battagliò in autonomia la sua “guerra fredda” lontano dall’ex URSS, vendendo a noi occidentali l’immagine di isola felice comunista. I dissidenti che lasciarono l’Avana andavano dicendo il contrario.

Quando vedremo fast food americani in centro all’Avana, ci chiederemo se mai il tanfo di un hamburger sia così disgustoso da esiliare l’olfatto della storia. La rivoluzione cubana fu prima di tutto rivolta intellettuale e i primi indizi sono disseminati nei Diari di viaggio del medico Ernesto Che Guevara.
I balli, le tette e i culi cubani così come le concessioni opportunistiche degli USA non potranno mai cancellare lo sforzo di piccoli uomini che sognarono e perirono per un mondo più umano, più giusto, più equo.

L’iPhone 6 può attendere

Rosario PipoloCi sono code e code. Quella “surreale e stratosferica” delle ultime ore davanti agli Apple Store delle grandi metropoli per l’arrivo del nuovo iPhone 6.

Quella che vedo tutte le sere tornando da lavoro davanti a una Caritas milanese, dove una ciurma di uomini e donne aspetta di ricevere un piatto caldo.  Le prima fa il giro del mondo alla velocità della luce. Quest’ultima finisce nel dimenticatoio, perché fa parte della routine: gli operai in fila per protestare contro la mobilità o i papà in coda dall’alba all’entrata dell’asilo nido per accaparrarsi un posticino per il pargolo.

Quanto costa l’iPhone 6? In Italia il prezzo oscillerà tra i 700 e i 1000 euro. Occorre rinunciare ad uno stipendio medio per andarsene in giro con il gioiellino della Apple. I due ragazzi nella foto si sono accampati su una panchina della Fifth Avenue newyorkese. Non sono lì per protestare ma spudoratemente in fila per avvinghiare  il melafonino più amato o odiato di tutti i tempi.

Questa immagine offende un’altra America e non abbiamo bisogno di un vecchio disco di Bob Dylan per riascoltare quella voce. Basterebbe farsi raccontare dai genitori e dai nonni di questi ragazzi come sciuparono i loro quattrini: per fare un viaggio e protestare fuori la Casa Bianca contro il Vietnam sanguinoso di Nixon o il rampantismo di Reagan.
Erano altri tempi, come del resto in Italia. I nostri genitori e nonni hanno fatto lunghe code per salvarsi dagli scempi del Secondo Dopoguerra o per avere il diritto di studiare in un’università pubblica.

Quanto costa “mettersi in coda” per l’iPhone 6? Le favole del marketing urlano che qualche folle abbia pagato fior di quattrini per avanzare nella lunghissima fila. Ci sono code e code. Preferisco quella che vedo tutte le sere tornando da lavoro davanti a una Caritas milanese. Fotografa l’umanità di cui avremmo bisogno tutti.

Il razzismo non ha età: gli USA scarcerano il Glenn Ford “nero” dopo 30 anni

Rosario PipoloL’anonimia con il famoso attore hollywoodiano non ha permesso al nostro Glenn Ford “nero” di sottrarsi alla condanna ingiusta dell’America razzista. Nel 1984, mentre gli USA erano sotto l’imperialismo repubblicano di Ronald Reagan e nelle classifiche musicali padroneggiava Born in the USA di Springsteen, una giuria di soli bianchi condannava Glenn per aver ucciso un gioielliere durante una rapina.

Il suo grido di innocenza non scompose neanche la Casa Bianca, come del resto accade per tanti che scontano una pena ingiusta. Glenn non era presente a quella rapina ma fu mandato dietro le sbarre del Braccio della Morte, l’inferno della prigionia. Nel 1988 rischiò di essere giustiziato e fu salvato per capello da un giudice della Louisiana che volle vederci chiaro nella faccenda.

Dopo 30 anni il signor Ford è stato scarcerato con una pacca sulla spalla e un sacchetto di dollari che mai gli restiuiranno il tempo perduto e la sofferenza patita. Glenn entrò in carcere da papà ed ora esce da nonno e, per una giunta, con una beffa: Barack Obama, un presidente nero alla Casa Bianca.
Cosa racconterà ai suoi nipoti? Che gli Stati Uniti hanno attraversato una buona parte del XX secolo lavandosi la coscienza con il tanfo dei dollari. Tutto sommato le gravi discriminazioni razziali non si concentrano tra gli anni ’50 e i ’70 così come le parabole di Martin Luther King non graffiano solo, come gli spruzzi di bombolette spray, i muri delle coscienze in cancrena.

E forse sarebbe di buon auspicio se Glenn Ford ricevesse un invito dal Presidente degli USA per un pranzo alla Casa Bianca. Un nero che guarda negli occhi un altro nero nella sala ovale del potere, come per dire che l’America di colore non è soltanto quella umiliata nel Braccio della Morte.

Niente mare a Sharm El Sheik. Estate in Egitto tra golpisti militari e finta democrazia

Rosario PipoloQuesta sarà un’estate calda in Egitto. E non perché i tour operator spediranno tra gli scenari finti di Sharm El Sheik il vacanziero italiano medio con infradito e panza al sole. Persino i napoletani dalla filosofia della “mappatella”, che importarono in riva al Mar Rosso lo stile pacchiano dei lidi di Varcaturo e Mondragone con le canzoni dei neomelodici ad alto volume, dovranno tornarsene in riva alle spiaggette del litorale domitio.
Questa non è più l’estate dell’Egitto da cartolina, della luna di miele lungo il Nilo, questo è un luglio da golpe militare. Gli spettri gloriosi dei faraoni e il bagliore dell’antica civilta egizia, imprigionata tra sarcofaghi, antichi papiri e piramidi, aleggia nelle ore calde che smantellano il mito della Primavera araba.

L’America di Barack Obama, che aveva sposato il patto d’acciaio con Morsi e i fratelli Musulmani, dovrà fare retrofront. A pochi mesi dal quarantesimo anniversario del golpe militare che portò Pinochet al potere in Cile – in una geografia diversa di vicende e colpi di scena – la politica estera degli USA, dal ghigno malefico di Nixon al pacifismo di Obama, ha fatto un buco nell’acqua per il suo trasformismo. Le pagine della storia degli ultimi 50 anni ce lo ricordano. Accade a chi alterna ruoli e posizioni, stando con o contro i golpisti militari. E anche quando la bandiera a stelle e strisce sventola come un vessillo di pace e salvezza, è come quando sbarcò il primo uomo sulla luna. Sotto il casco di Neil Armstrong era scritto lo slogan: “Il piede sulla luna lo abbiamo messo noi. O con noi, o contro di noi”.

Tornando in Medio-Oriente, gli egiziani, con la fame di chi vuole abbuffarsi di “libertà, dignità e riscatto”, si stanno lanciando tra le braccia dell’esercito, perché sopravvivono ancora le dicerie che la democrazia possa indossare una divisa militare. I nuovi salvatori dell’Egitto, che hanno sotto le ascelle il sudaticcio dei vecchi raìs, nel caos dell’euforia, hanno messo già mano alle prime azioni di imbavagliamento, bloccando l’emittente televisiva di Al Jazeera. Basterà l’urlo dei social network a trasformare l’esultanza popolare in acuta riflessione? C’è un cambio di stagione. La primavera ha ceduto il passo ad un’estate piena di contraddizioni. E il Medio-Oriente lo capirà presto.

Addio a J.R. di “Dallas”: Larry Hagman è tornato ad essere Larry!

Tocca a tutti gli attori prima o poi sfilarsi di dosso il soprabito dei loro personaggi. Soprattutto a coloro che hanno giocato a fare “i cattivi” attraverso l’unico filtro dell’eterna giovinezza: la finzione. E’ morto Larry Hagman, che mezzo mondo ricorda come J.R. in “Dallas”, il serial tv che meglio di tutti ha espresso il rampantismo americano fatto di allucinogeni petroliferi.

Larry Hagman è stato un talento sprecato, a volte relegato in ruoli marginali, spesso segregato dalla serialità televisiva in angoli che non gli hanno permesso di esprimere al massimo le sue doti recitative.

E’ vero che il ghigno di J.R. Ewing in “Dallas” è diventato famoso quanto quello di Joker in “Batman”, ma anche vero che anche in piccoli camei cinematografici Hagman ha dato sempre il meglio di sé. E per me, nella grande abbuffata cinematografica a tutte le ore del giorno e della notte, è stato un piacere incrociarlo dietro la macchina da presa di Joshua Logan (Una nave tutta matta, 1964), Otto Preminger (Prima vittoria, 1965), Sidney Lumet (Il gruppo e le sue passioni, 1966) e John Sturges (La notte delle aquile, 1976).

Tornando alla televisione, il destino scelto dagli dei per pochi bravi attori come Larry Hagman non è solo quello della personalizzazione della malvagità. In “Una strega per amore”, che andò avanti sulle tv americane senza interruzioni dal ’65 al ’70, Hagman finì al fianco di un genio imprigionato in una lampada (la formidabile Barbara Eden). Il suo personaggio, un maggiore dell’aviazione americana, riuscì a proteggere “l’American dream” con uno spruzzo di magia all’interno della scatola televisiva, mentre fuori c’era solo insicurezza e paura: il fantasma di Kennedy, le lotte razziali, l’instabilità politica, il sangue del Vietnam.

Nel 2005 ho trascorso una giornata al SouthFork Ranch a Dallas, dove sono stati girati tutti gli esterni del famoso serial tv. Ho raccolto diverse testimonianze su Larry Hagman, chiacchierando con chi ci aveva lavorato. Ne è uscito fuori una persona generosa, che faceva tanta beneficenza, disponibile, attenta al mondo che gli stava intorno.

Tocca a tutti gli attori prima o poi sfilarsi di dosso il soprabito dei loro personaggi. Finalmente Larry è tornato ad essere Larry.

Il ritorno di Obama, da Superman a Peter Parker

Lo sciamano ci aveva azzeccato. Barack Obama è stato rieletto alla Casa Bianca. Il buongiorno dell’America intona “Working on a dream” di Bruce Springsteen e fa scivolare la speranza e la fede in questa preghiera ruggente, piuttosto che nelle intuizioni di uno stregone qualunque che vide Romney messo in un angolo.
I social network sono stati decisivi in questa campagna elettorale: hanno smascherato i numeri gonfiati di una  “rincorsa affannata” alla Casa Bianca; hanno permesso agli americani di spiaccicare le loro piccole storie quotidiane in faccia ai due candidati; hanno filtrato in un ring alternativo l’atteso duello televisivo che forse non ha più ragione di esistere; hanno allungato fino all’ultimo spicciolo il fund-raising elettorale.

Non hanno vinto né Democratici né Repubblicani, perchè l’America disillusa dalla recessione agghiacciante non pende più da nessuna parte. Ha vinto Barack Obama, il presidente che ha appeso al chiodo il mantello e la calzamaglia da supereroe, ammettando le sue colpe e rafforzando il coraggio che manca in questo momento all’Europa: tornare a puntare sul “Pubblico”.

Passata la baraonda elettorale però, gli americani dovranno convincersi che il Presidente degli USA non è più il Superman dai superpoteri stratosferici. In questo secondo mandato gli toccherà essere Peter Parker, il volto umano dell’Uomo Ragno di Stan Lee, perchè “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. E adesso abbiamo la certezza che la “sedia vuota”, a cui si è rivolto Clint Eastwood nella folcloristica sceneggiata repubblicana, era già occupata da Peter Parker, l’alter ego a fumetti del neo vincitore.

Diario di viaggio: James Holmes, la strage di Denver e la colpa degli USA

Gli Stati Uniti restano una delle mete preferite dagli italiani, che poi finiscono nel solito cliché del vacanziero: la spiaggia di Miami, il parco giochi di Orlando, il memorial di Ground Zero o le luci della ribalta di Hollywood. Eppure c’è un’altra America, l’America per eccellenza, quella di “Non è un paese per vecchi” – raccontata spietatamente dai Fratelli Cohen nell’ominimo film. Forse in quella ciurma di farabutti ci starebbe bene pure il folle James Holmes, che ha messo in piedi la tragedia estiva d’oltreoceano: morti e feriti durante la proiezione di un film in un cinema di Denver.
Guardando in tv la faccia spaurita del killer, avvolta dai capelli rossi, mi è sembrato di rivedere il ghigno malefico di Joker. E ci risiamo, di nuovo a parlare di cinema. La strage di Denver è avvenuta durante la proiezione del nuovo Batman e quindi l’America prova a giustificarsi. Questo film è maledetto così come la pellicola del 2007 di Il Cavaliere Oscuro, in cui l’attore Heath Lodger vi trovò la morte.

Allora, non è che vorremmo addossare la colpa dell’ennesimo seme di follia yankee all’eroe a fumetti creato nel 1939 da Kane e Finger? L’America bacchettona degli anni ’50 mise a tacere la latente omosessualità che sprigionava Batman (il legame ambiguo con Robin sfiorava la pedofilia), mentre la generazione che si scatenava sulle note di Born in the USA di Springsteen ammise una volta e per sempre che “Il cavaliere oscuro” stigmatizzava le penombre di una nazione, incapace di fare i conti con le sue contraddizioni.

Tornando all’assassino, James Holmes è vittima o carnefice? Forse tutti e due assieme, perché è figlio di una landa desolata – This is America! – che condanna con la pena di morte i piccoli mostri che lei stessa ha generato, facendoli diventare giustizieri della notte. Gli USA, questo Barack Obama dovrebbe ricordarlo, ti permettono prima di andare in un negozio a fare scorte d’armi. Avvenuta l’apocalisse, si lavano le mani mandandoti al patibolo. La libertà statunitense, ammalata di malsano individualismo, può essere camminare con un’arma da fuoco in tasca? Non chiedetelo a James Holmes, ma ai singoli stati che hanno fatto passare la legge del pistolero.
L’America ha prodotto una marea di film e non solo per colorare i nostri sogni. E questa volta proprio il cinema le ha tirato un colpo basso.