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Canada on the road: Cartolina da Niagara

Le cascate del Niagara mi fanno risalire su un autobus della Greyhound americana. L’ultima volta c’ero stato quattro anni fa nel Tennessee, sulla tratta Nashville-Memphis. Quando Sean, il simpatico autista della Greyhound, viene a sapere delle mie scorribande negli USA con i loro bus – nel 2005 avevo percorso oltre 6.000 chilometri da San Francisco a New Orleans – mi concede questo selfie souvenir che fa da cover a questo articolo.

Dopo aver visto le insuperabili Cascate di Iguazù in Sudamerica, avevo scritto che mai avrei intaccato quella visione strabiliante. Mai dire mai, la tentazione canadese è stata forte e poi avrei fatto un torto a mia madre: da bambino avevamo visto insieme il film in bianco e nero “Niagara”  di Henry Hathaway, indimenticabile Marylin alle prese con le atmosfere criminali della sceneggiatura.

Le cascate del Niagara sono rimaste raggomitolate tra i ricordi dell’infanzia, ma il patto di arrivarci sarebbe stato evitare le stupide escursioni turistiche. Il confine con gli USA è ad una manciata di chilometri e carovane di turisti arrivano dalla vicina Buffalo per godersi lo show. Sono tanti gli europei che pagano 200$ l’escursione in giornata da New York e arrivano qui magari per provare l’eccitante esperienza dell’impatto con una cascata.

La giornata è grigia e uggiosa, nonostante tutto le cascate del Niagara sanno com farsi valere per fascino e potenza delle acque. I turisti collezionano selfie dalla migliore posizione, io e una famiglia della Repubblica Ceca ci ritroviamo fuori dalla calca, ascoltiamo il vocio delle acque e ci incamminiamo lontano dalla “piccola Las Vegas canadese”, perché a questo si è ridotta ad essere la località di Niagara.

A 3 chilometri di cammino, mentre le cascate dell’Ontario si dissolvono alle nostre spalle, scovo il vecchio nucleo di Niagara,  dove il turismo di massa invadente non arriva. Mi sembra di essere finito in un villaggio del Far West americano, entro in un locale deserto con l’insegna luminosa “Open”. Chiedo un caffè americano caldo, ma mi rendo conto che non accettano carte di credito. Faccio cenno di non avere contanti e mi allontano. Il tizio al bancone mi chiama e, indicandomi il tazzone, mi dice in uno slang nordamercano: “Un caffè qui non lo neghiamo a nessuno, soprattutto a chi arriva da lontano come te.”
Lo ringrazio, bevo frettolosamente, guardo l’orologio e mi rendo conto che Sean sta per tornare.  Salgo sul bus della Greyhound, accanto a me una ciurma di scolaretti si ingozza con hamburger e patatine fritte. L’odore è nauseabondo.

Toronto non è poi così lontana, a poco meno di due ore di strada.

Canada on the road: Cartolina da Toronto

Con l’arrivo in Canada mi affaccio sul 49° Paese del mio giro del mondo. Avevo sognato Toronto attraverso i reportage dei giornalisti d’oltreoceano, che avevano influenzato le mie letture adolescenziali. “La capitale del Nord America” è semivuota, la maggior parte degli universitari torna a casa per il weekend lungo di Pasqua.

Nella cattedrale di St. Micheal, alla prima messa mattutina di Pasqua, il reverendo Alexander ci ricorda che l’attentato terroristico in Sri Lanka è un atto vile e spietato contro la cristianità di tutto il mondo.

 

Ci vogliono litri di caffè americano per smaltire l’amarezza. La mia vita qui parte da Church Street, in pieno downtown, e il capoluogo della provincia dell’Ontario non è una tappa qualsiasi, ma la casa provvisoria dei miei viaggi nel viaggio, attraverso il Nord America, di questo mio andare e venire, tornare per scoprire e ritrovare.

A Toronto mi sento a casa, è cosmopolita, multietnica, sa essere accogliente e sorridente, frulla le culture e te le serve come una pietanza ricca di sorprese. Questa mi sembra una tappa antologica che mi riporta altrove: certi edifici evocano la vecchia Boston, Kensington Market con il suo atteggiamento bohèmien mi riporta alla Candem Town londinese di trent’anni fa, la vecchia Distilleria che pullula di localini evoca certe aree periferiche dell’Inghilterra settentrionale, percorrere King Street mi sussurra all’orecchio Manhattan.

Lo stile neogotico di Casa Loma, l’edificio storico simbolo di Toronto, preme il pulsante della memoria tra echi anglossassoni e i vezzi del defunto proprietario Sir Henry Pellatt. Qui la mattina di Pasqua si svolge un rituale brunch che attira decine e decine di famiglie canadesi, sedotte dalle atmosfere aristocratiche che solo Casa Loma sa consegnare.

Il Royal Ontario Museum, oltre ad essere il museo più grande del Canada, racconta chicchi di storia del Paese tra arte, design e origini, tenendo conto dell’emozionante Jurassic Park che funge da macchina del tempo indietro di milioni e milioni di anni.
Per conoscere gente, anche nel pomeriggio di una domenica uggiosa, mi basta prendere con una paio di dollari canadesi un battello e arrivare sulla sponda dell’Island Park: sorseggio una birra, mi godo il panorama, il brusio di chi è rimasto in città senza rinunciare alla scampagnata festiva, condivido esperienze di vita e viaggi con due ragazze parigine, di cui una di origine algerina, soffocando i tristi ricordi della Ville lumière, schiaffeggiata recentemente dall’incendio di Notre Dame.

Il by night a Toronto mi fa ciondolare nel downtown, azzannando un buon hamburger dal mitico Shopsi’s Deli, che fin dagli anni ’40 ha sfamato più generazioni con i suoi irresistibili panini, guadagnandosi il meritato appellativo di “The Corned Beef King”.
Toronto inizia ad appartenermi negli angoli più nascosti del downtown, nel suo modo di fare e di essere, persino quando mi metto alla ricerca della musica locale e finisco da Sonic Boom, lo store indipendente sulla Spadina Avenue da cui non vorresti andare più via, così come dai piccoli librai assiepati nei dintorni di Kensington Maket, dove sono alla ricerca disperata di una vecchia edizione del romanzo Anne of Green Gables della Montgomery (Anna dai capelli rossi).

Kensington Market è il luogo ideale per il cazzeggio mattutino senza pensieri, per fare quattro chiacchiere in buona compagnia, per distrarsi tra i murales e la street art con la voglia matta di raccontare le mille facce della “capitale multiculturale del Canada”.

A Yonge Dundas Square, la Times Square canadese, spunta improvvisamente un tempo primaverile e siamo tutti lì a rubare al sole del colore, lo stesso che brilla negli occhi degli asiatici e nord amercani, colonne portanti di questa città. In realtà da Toronto non sono mai andato via, c’è una parte di me lasciata lì, con una risposta scritta nella mia anima da viaggiatore: “I viaggi ci aiutano a non rinnegare mai noi stessi”.

Carmine D’Amora, il capotreno Trenitalia che fa la differenza in Campania

I deficit del trasporto ferroviario regionale passano spesso ai doveri della cronaca, dimenticando il personale che può fare la differenza. Chi percorre come me migliaia e migliaia di chilometri in treno all’anno in Italia sa bene che il viaggiatore dell’Alta Velocità è più tutelato rispetto a quello di “serie B” del trenino regionale. Se poi capita l’inconveniente la forbiciata è ancora più ampia.

La Campania finisce spesso sotto l’occhio del ciclone per i disservizi del trasporto ferroviario locale, ma non si parla mai delle risorse che possono far luccicare Trenitalia in un momento di criticità.
Carmine D’Amora, ingegnere meccanico con lode di 27 anni, è un giovane Capotreno Trenitalia di Pompei, alla periferia di Napoli. Se non ci fosse stato lui sul treno metropolitano 26059 Caserta-Napoli Campi Flegrei, il ritorno nella terra in cui sono cresciuto sarebbe stato associato ad un venerdì nero: quante sono le probabilità di ritrovare un pacco dimenticato con documenti importanti?

La polizia ferroviaria di Napoli Centrale si è messa in contatto con Carmine, spiegando l’accaduto. Nel tratto metropolitano tra piazza Garibaldi e Mergellina, a prima mattina, il treno era zeppo di passeggeri e il giovane capotreno ha attraversato i vagoni, riuscendo a recuperare il pacco e tutto il suo contenuto. Non ho mai conosciuto di persona Carmine, perché in realtà la consegna è avvenuta in altre mani. Attraverso i social network mi sono messo alla ricerca di questo “eroe della ferrovia” per ringraziarlo e lui mi ha risposto con umiltà: “Ho fatto semplicemente il mio dovere, tutto qua”.

Aveva scritto un tempo lo scrittore e rivoluzionario cubano José Julián Martí Pérez “Aiutare chi ha bisogno non è solo parte del dovere, ma anche della felicità.” Carmine D’Amora lo ha messo in pratica con l’umiltà di chi è andato oltre il proprio dovere.
Un paio d’anni fa la mia Freccia da Milano per Napoli ritardò di mezz’ora. Fu avvertito il capotreno del locale corrispondente, per pochi minuti non volle aspettarmi e persi l’ultima coincidenza per Caserta via Cancello. Mi pagarono un taxi per raggiungere la destinazione. Questo per dire che non tutte le risorse di un’azienda sono uguali.

Viaggiando in 48 Paesi del mondo ho imparato che sul tuo cammino incrocerai spesso persone disposte ad aiutarti. Basta saperle intercettare. La routine e la frenesia ce lo fanno spesso omettere.
In Carmine ho ritrovato riflesso ciò che ero alla sua età, un ragazzo del Sud energico e pieno di voglia di realizzare tanti piccoli grandi sogni. Spero che questo gesto aiuti il suo datore di lavoro e tutti coloro accecati dal pregiudizio a confermare che il nostro Meridione può essere orgoglioso della generazione Millennials che il capotreno di Pompei rappresenta egregiamente.

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

I viaggi mattutini in metropolitana mi infastidiscono per la frenesia delle persone, prigioniere della routine tra spintoni e rincorse di quel tempo di cui non siamo padroni.
Stamattina, seduta accanto a me sulla linea rossa di Milano, c’era una donna che parlava a telefono. Ho capito dopo qualche battuta che il suo interlocutore era la figlioletta.

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

Queste sono state le ultime parole di una conversazione andata avanti parecchi minuti senza una risoluzione.  Di sbieco mi sono soffermato sul viso sgomento di questa mamma che, dopo aver concluso la telefonata, è scoppiata in lacrime affondando nello sciarpone intorno al collo.
La gente distratta continuava a salire e scendere con indifferenza, mentre io mi sentivo impotente di fronte a questo urlo sibillino di immenso dolore.

Ho ripensato a quelli della mia generazione che avevano soltanto il papà da spartire con il lavoro. Mia mamma di professione ha fatto la casalinga e mi sono risparmiato la paura e l’angoscia infantile del distacco quotidiano, se non nelle ore dei tempi della scuola materna, in cui non si andava mai oltre l’ora di pranzo.

Non bisogna essere un sociologo per cucire i cambiamenti nella nostra società degli ultimi quarant’anni così come non occorre un pediatra o uno psicologo per rendersi conto del dolore e della frustrazione che scatta da entrambi le parte, figli e mamma.

Un lettore ha commentato così il mio tweet del buongiorno:

A proposito del giudizio mi è tornato in mente Platone:

“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.”

Il viaggio in metropolitana di questa mattina è dedicato a tutte le mamme che ogni mattina combattono questa battaglia dentro e fuori il cuore.

L’anno che verrà: l’uomo sul Po che nutriva i gabbiani

Il caravanserraglio social ha provato a schiacciare la strada dell’anno che verrà con l’abbuffata di selfie familiari che facevano un baffo alle foto istituzionali di un tempo della Royal Family, di brindisi con sorrisi taroccati per sgomitare quello del piano di sotto della  “bacheca” e urlare “stiamo tutti bene”, di video discorsi casarecci dei vicini di quartiere, che ostentavano frasette surgelate per convincerci di essere diventati i nuovi profeti  dell’era del cinghiale bianco. Quanto marcio buonismo è scivolato già sulla buccia di banana dei buoni proposti per questo 2019?

I miei vagabondaggi mi rendono impermeabile e indifferente a questo tam tam e, in particolare il primo del 2019, mi ha regalato una suggestione nella prima mattinata dell’Epifania, a Torino, sulla sponda del Po.

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L’uomo che condivide le briciole della sua parca colazione con i gabbiani, ascoltando il sussurro intimo del fiume, è uno schiaffo alla miserabile intolleranza che annebbia i giorni nostri: le coperte di un senzatetto gettate nell’immondizia dal vicesindaco di Trieste o il tifo razzista degli ultrà sugli spalti dello stadio San Siro di Milano.
L’uomo che nutre i gabbiani in riva al Po torinese non è un set costruito come le tavole imbandite dall’esercito di chef provetti parcheggiatti nelle nostre case per l’arrivo dell’anno nuovo, ma è uno sciame di altruismo che vigila sull’essenziaità della vita e sulla tolleranza.

Essenzialità e tolleranza restano il valore aggiunto e l’unico lusso che dovremmo concederci in questo 2019, togliendoci le bende della routine che ci fanno perdere la bussola della quotidianità. Un viaggiatore della vita non dovrebbe mai restare affacciato alla finestra, perché rinuncerebbe alla cura dei dettagli. Bisogna tornare in strada, girarsi intorno, guardare gli altri negli occhi.

Non smetterò mai di ringraziare la strada per avermi fatto vagabondo e concesso l’ultima chance di afferrare l’anno che verrà.

Cartolina dal Brasile: Fuori dal mondo in Amazzonia come Fitzcarraldo

Cosa te ne fai di quattro giorni in Brasile con la spina staccata dal mondo a 140 chilometri da Manaus? Realizzi con un budget ridotto il sogno grande di una vita in viaggio: vivere nel cuore dell’Amazzonia.

Grazie a Debora e alla sua famiglia il mio quotidiano nella pousada sul fiume Juma, uno degli affluenti del Rio delle Amazzoni, prende la piega di un isolamento in cui la mia anima torna a scorrere nelle vene del quotidiano. Qui arriva soltanto corrente elettrica e in alcune ore del giorno va via.

Cobra, la nostra guida, è nato in una delle tribù del Nord della Foresta e da adolescente sognava di andare via e sposare una ragazza europea.
Da autodidatta ha imparato sei lingue, fa per mestiere la guida perché ha deciso di restare a vivere in questa zolla del pianeta e sposare una donna dell’Amazzonia del posto proprio come è successo ad una famiglia di indigeni con cui ho condiviso una mattinata.

Il figlio si sposerà l’anno prossimo e fervono i preparativi per la casa. Entrambi i genitori, sulla sessantina, si erano conosciuti ad una festa nella foresta. In realtà, lui aveva buttato l’occhio su un’amica, ma lei riuscì a farsi notare.
L’accoglienza a casa è davvero calorosa, lei nel tempo libero si diletta a fare collanine, lui cura l’immenso orto con i cui prodotti sfama tutta la famiglia.

Il tempo di questi giorni si dilaziona tra l’alba più densa dei miei 45 anni, 6 chilometri a piedi nella foresta con la lezione su come le piante producono rimedi curativi per gli indigeni, una notte a dormire su un’amaca nel cuore dell’Amazzonia, pesca, canoa,  avvistamento di delfini e tucani, uccelli meravigliosi rari, ore e ore su una piccola barca.
Il senso di tutto questo? Trasformare emozioni in ricordi di vita vissuta, una vita fatta di semplicità che mi ha restituito a gocce l’essenzialità e la sua immensità.

Questi quattro giorni  mi hanno cambiato in meglio. L’ultima sera, sotto le stelle, mi sono sentito come il Fitzcarraldo di Herzog chiacchierando a lungo con Martin, musicista in un’orchestra del Nord della Germania, tra una caipirinha ghiacciata, i ricordi di Abbado, Karajan, Jarrett e la smania nottambula di portare le partiture giocose mozartiane nel cuore dell’Amazzonia.

Aveva ragione mio padre: “La natura è l’arte di Dio”. Obrigado, Amazzonia.

Cartolina dall’Amazzonia: il soliloquio del Rio delle Amazzoni

Il Rio delle Amazzoni è stato il fiume più distante da me che da bambino desideravo navigare.  Quando la maestra Iole mi accompagnò alle elementari, attraverso un atlante geografico, lungo quel corso fluviale ebbi la percezione infantile di quanto le distanze fossero incolmabili tra i luoghi e gli uomini.
Per me il corso d’acqua più lungo del mondo, che attraversa Perù, Colombia e Brasile, era secondo la mia immaginazione il luogo in cui Dio andava a lavarsi senza la scocciatura di portarsi dietro lo spazzolino da denti.

Navigarlo a “nel mezzo del cammin di nostra vita” non solo ha esaudito uno dei più grandi desideri di viaggiatore, ma mi ha preparato all’entrata nel polmone verde della Terra: la foresta dell’Amazzonia. In nessuna navigazione ho mai provato questo prepotente senso di libertà che ti sgancia dell’ottusità della quotidianità, i cui ricatti vorrebbero fagocitarti in mondi che non ti apparterranno mai.

Poi il lungo e strabiliante abbraccio tra il Rio delle Amazzoni e il Rio Negro, dove le acque azzurre del primo e quelle scure del secondo si incrociano in uno spettacolo della natura che conferma un comandamento del Creato: siamo meticci come queste acque e il colore della pelle così come quello delle culture dei popoli è destinato a fondersi, e neanche lo sbianchetto dell’intolleranza potrà fermare tutto questo.

Non avrei voluto mai staccarmi da quelle onde. Sapevo che una parte dell’anima mia avrebbe continuato a navigare il Rio delle Amazzoni ripetendo a memoria i meravigliosi versi di Wilson Harris, parte preziosa del mio bagaglio letterario:

Lo spirito profondo dell’innocenza
è maturità senza fiato senza sogni:
le mani nere degli alberi si allungano
con pazienza. Le ali d’un uccello
fanno vento all’aria che brucia.
Le forze esterne, le forze interne
sono illusioni distinte che vanno
oltre il buio e le luci con un coltello a tagliare via tempi di dentro e di fuori, gli uni dagli altri,
nel corpo di un animale o di un dio
il cui passo furtivo è un’immateriale successione
di movimenti, così vasti e precisi, che non ha gesti la sua azione.

Cartolina da San Paolo del Brasile: la domenica specialmente sulla Paulista

L’incontro con il cantautore brasiliano Carlinhos Vergueiro e il suo concerto sull’avenida Paulista,  ha contribuito a farmi vivere una domenica speciale in una delle arterie principali di San Paolo del Brasile. Nello stato di San Paolo ci sono arrivato per una promessa fatta ad Elvira, la moglie del fratello di zio mimmo, in una sera d’estate abruzzese di una vita fa: lei era originaria di qui e ci raccontò della sua città che, nonostante godesse della pessima nomea di “città frenetica per essere capitale economica”, era l’ombelico del Sudamerica.

Le grandi città brasiliane si svuotano la domenica, ma il brio che invade  l’avenida Paulista nel “dì di festa” ti travolge all’insegna del calore sudamericano: mamme e papà che portano a passeggio i bimbi, artisti da strada assiepati ovunque, podisti che vanno su e giù, c’è chi pedala o chi entra negli spazi culturali dove cultura e arte sono a disposizione di tutti e ad ingresso gratuito.
Gli artigiani e le bancarelle con i loro manufatti fanno da perimetro ad un mercatino che fronteggia il MASP, il Museo d’Arte di San Paolo nel quale sarei rimasto volentieri in ostaggio non solo per le preziose collezioni, ma per l’allestimento e per il modo in cui chi ci lavora ti coinvolge nella scelta dei percorsi.

Nel primo pomeriggio osservare la Paulista da un grattacielo vuol dire incrociare lo sguardo con una fiumana di giovani, il cui “struscio domenicale” mi ricorda quello praticato nei paesotti del mio Sud per fare “acchiappanza”.
Tornando a Carlinhos e al suo canzoniere, la sua musica dal vivo su un palco piazzato tra le fermate della metropolitana Consolaçao e Trianon è una molla che fa scattare un feeling tra ritagli di vita e ritmi brasiliani e la brama del viaggiatore in solitaria di far parte di questa comunità: ripenso alla chiacchierata con un musicista alla Livraria Cultura fino a tarda sera.

I Brasiliani sono espressione di generosità, proprio come Vergueiro che dona la sua storia cantautoriale ai passanti: ripenso al cassiere di Starbucks che mi offre il dolcetto e il cappuccino perché la mia carta non va; l’agente di viaggio Mauro che, dopo avermi procurato autista e auto per tornare in aeroporto, mi saluta con quel “Dio ti benedica”, una manna dal cielo per chi vagabonda in giro per il mondo; chi si prodiga per darmi una mano a ritrovare la strada persa alla faccia di chi pensa che Google Maps sia l’unica bussola se perdi la rotta.

Daniel è il simpatico autista che mi riporta in aeroporto. Mi racconta della storia d’amore con la moglie nata sui banchi di scuola, dei figli, del suo lavoro che gli porta a conoscere tante persone. Tra una chiacchiera e l’altra mette come colonna sonora del nostro tragitto Agua Viva, la famosa telenovela che io dall’Italia e lui dal Brasile guardavamo in tv con le nostre mamme.
Io e Daniel ci sentiamo due minuscoli puntini attraversando San Paolo, la città più popolosa del Paese e del Sudamerica, tenendo stretta alle nostre vita una sola speranza, quella che ogni uomo dovrebbe imparare a ritrovare alla fine di ogni viaggio.

Cartolina dalle cascate dell’Iguazù con un piede in Argentina e uno in Brasile

Quale migliore scusa per rimettere piede nell’adorata Argentina se non godendo di una delle sette bellezze naturali del mondo?
Entrando nel Parco delle Cascate dell’Iguazù a Misiones ho la sensazione che da lì a poco avrei vissuto un’esperienza naturalistica al di sopra di ogni previsione. Nonostante il tempo non fosse  dalla mia parte, accetto la sfida di salire su una barca e farmi inebriare sotto litri e litri d’acqua, sotto il tetto  delle cascate più famose del pianeta, spartite da Brasile e Argentina.

Sono letteralmente inzuppato, mi sembra di essere tornato all’estate in cui pensai di affogare a mare ed essere risucchiato dalle onde. Il peso dell’acqua delle cascate più belle  – secondo un americano al mio fianco sono mezzo punto anche sopra le Victoria Falls in Africa – nasconde un messaggio sopra ad ogni altro: la Natura si esprime attraverso un coro di voci e noi uomini, accecati dall’avidità del progresso, ci ostiniamo a non riconoscerne il valore e salvaguardarlo.

Dopo qualche ora di cammino arrivo alla Gola del Diavolo che, con il suo gettito d’acqua giù per 150 metri, è la regina della cascate dell’Iguazù. E’ qui che si manifesta la forza della Natura, il rigurgito del nostro pianeta Terra nella fluidità dell’esistenza umana e nel racconto naturalistico che fa della vita stessa la più grande avventura di cui dovremmo essere orgogliosi protagonisti.

Dopo un’intera giornata in Argentina, eccomi di nuovo in Brasile per ammirare questo spettacolo dall’altra prospettiva, senza sconfinare  nell’odiosa smania sondaggista di chi ti mette spalle al muro con il quesito: “Preferisci il lato argentino o quello brasiliano?”.

Lo show naturalistico è sicuramente in Argentina, ma un’altra giornata nel parco brasiliano è indispensabile per avere una visione super partes. Poi arriva la pioggia – qui bisogna metterlo sempre in conto – ed ecco che mi rintano nel lussuoso Hotel Belmond das Cataratas, scoperta incantevole accanto alle cascate brasiliane dell’Iguazù. E’ possibile visitarlo a qualsiasi ora del giorno, aggirarsi tra gli ambienti pubblici e godersi le atmosfere raffinate e altempo stesso familiari.

All’uscita finisco per sbaglio alle porte dell’antico accesso del Parco. Quattro chiacchiere con uno dei custodi, un caffè e la condivisione di quest’altra grande avventura fatta da una miscela di suggestioni tra la natura e la bellezza del creato, spartite tra Brasile e Argentina.  A malincuore mi tocca dire “Ciao, Iguazù”.

Cartolina dalla favela Rocinha: il cerchio della vita

Non ero convinto se mettere piede nella favela Rocinha, una delle più temute di Rio De Janeiro. Il dubbio principale, oltre alla questione sicurezza, era finire imbrigliato nell’odioso voyeurismo circense.
Mi era tornata in mente la stizza di quando nel ’92, prima che il polso di ferro di Giuliani rivoltasse come un calzino New York, per andare ad Harlem dovevi per forza fiondarti su un van e tirar fuori quasi 100$. I tour locali ci sguazzavano e facevamo quattrini, trasformando la zolla nera di Manhattan in uno show. Mi rifiutai, ci sarei tornato ventitré anni dopo in autonomia.

Tornando a Rio De Jaineiro, non sono leggende metropolitane le app che ti indicano in tempo reale le sparatorie di una delle metropoli brasiliane più pericolose. Se ne contano decine e decine, una dietro l’altra come i counter dei bimbi morti nel mondo per malnutrizione e la favela Rocinha resta uno dei territori da Mezzogiorno di Fuoco.
Andarci guidato da Be a Local non era soddisfare le curiosità del turista che voleva finire su un set cinematografico come fanno i tanti in visita nella mia Napoli, la cui massima aspirazione è vedere con i propri occhi le ambientazioni della serie televisiva di Gomorra.

Il lungo pomeriggio nella favela Rocinha è stato lo sforzo di guardare oltre la colata di fogna che scorre da su a giù come il potere gerarchizzato dei narcotrafficanti e le loro faide criminali. E’ stata una discesa, anche geografica, di quattro ore di “trekking sociale” dall’altro verso il basso a passo svelto in quelle strettoie, accompagnato dal rumore di una pioggia sottile e tagliente, alla ricerca disperata di quotidianità, di vita normale, di uomini, donne e bambini che sfidano il tutto per tutto per difendere a denti stretti la dignità di essere umani.

Qui dove il sole sembra non arrivare mai, le case si restringono in cunicoli in un contorsionismo di cemento che si rinchiude e si isola dal resto del Brasile, ho vissuto una delle esperienze più toccanti del mio arrembaggio da viaggiatore. L’incontro con artisti della favela, la danza con i bambini, i dolci fatti in casa da Maria hanno alleviato il dolore per i morti prematuri di tubercolosi, per le nefandezze di chi si mette di traverso allo Stato, per le armi da fuoco che ci passavano davanti agli occhi.

Prendendo per mano i bambini che ci venivano incontro e ci abbracciavano, ho toccato il cerchio della vita, è scolata ogni paura, i grattacieli di lusso tra Ipanema e Copacabana si sono improvvisamente sbiaditi e gli abitacoli della favela Rocinha hanno invaso l’impermeabilità del pregiudizio: il Brasile era tutto qui, come i calci magici ad un pallone dei Pelè, figli di un dio minore nelle favelas e molla del riscatto sociale sudamericano. La visita agli asili e le scuole per l’infanzia, supportati da organizzazioni umanitaria, mi ha fatto guardare in faccia gli educatori e i volontari che tutti i santi giorni danno qui il loro contributo.

 

Uscito dalla Rocinha, avevo gli occhiali appannati. Pensavo fosse il residuo della pioggia, invece no dovevo imparare a riconoscere le mie lacrime, in un misto di dolore e rabbia, sciolte in un pensiero che mi ero portato al ritorno dal mio viaggio in Cina:

La speranza è come una strada nei campi: non c’è mai stata una strada, ma quando molte persone vi camminano, la strada prende forma.
(Yutang Lin)