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In Alaska sulle spalle di Dio al Circolo Polare Artico in memoria di mio padre

Quando mamma mi regalò nel 1981 il mappamondo sul quale avrei annotato tutte le tappe del mio giro del mondo, aggiunsi il Circolo Polare Artico in Alaska: ero convinto che “l’ultima frontiera” era fatta dalle spalle di Dio e, salendoci sopra, avrei visto tutto ciò invisibile agli occhi.

Da Fairbanks ci vogliono 16 ore andata e ritorno per percorrere la mitica Dalton Highway, ovvero l’Alaska Route 11, che porta tutta diritto al Circolo Polare Artico. Il mio driver mi anticipa che il viaggio è lungo, ma ne vale la pena. A bordo siamo equipaggiati con le radio trasmittenti perché lungo il percorso non c’è corrente elettrica e segnale telefonico.
Basta uscire da Fairbanks per rendersi conto che stiamo per vivere l’impagabile sensazione di essere finiti su  un altro pianeta.

Di tanto in tanto facciamo delle soste per respirare l’atmosfera e trattenere sulla pelle quelle punte di gelo che preannunciano la meta, la più lontana verso il Nord del mondo. Un camionista ci avverte attraverso la radio di aver avvistato un paio di lupi poco lontano dalla Dalton, li rincorriamo, ma ormai sono due minuscule sagome per fare una bella foto.

A far da colonna sonora non ci sono canzoni ma il silenzio spirituale del paesaggio.  Quando ci fermiamo sul fiume Yukon, ormai una lastra di ghiaccio, il sussurro dell’acqua tocca l’anima e ti prepara al momento più emozionante. Prima però una rifocillata allo Yukon River Camp prima di proseguire. Questo è l’unico luogo in questo recinto di deserto del Nord del mondo in cui c’è vita umana.

Non mi ero sbagliato, non era stata una svista infantile quella di credere che il Circolo Polare Articolo si trovasse sulle spalle di Dio. Alle 17.50 ci sono, il sole è ancora alto, mi sembra di vedere la fessura della porta che collega il mondo dei vivi a quello dei morti. Il soffio del silenzio della spiritualità mi fa guardare il mondo dall’alto ed è come se le spalle di Dio fossero improvvisamente diventate quelle di mio padre. Non sento più quel freddo fatto di disperazione dell’istante in cui vidi con i miei occhi che non respirava più.

Una parte di me è rimasta lassù insieme al ricordo di mio padre. Da qualche parte sulla neve ho scritto:Tra la neve del Circolo Polare Artico, il punto più alto della mia vita da vaggiatore, ti ho lasciato la sua foto perché questa meta è a lui dedicata. Custodisci qui, nella preghiera del silenzio e per sempre, il ricordo di mio padre. Ciao Alaska e grazie di tutto. Non ti dimenticherò.”

Mio padre mi ha fatto il più bel regalo che qualcuno poteva fare a un’altra persona: ha creduto in me. (Jim Valvano)

Alaska on the road: Cartolina da Fairbanks

La mia mattinata a Fairbanks comincia con una colazione insieme a Jerry che, oltre ad essere il Public Relation Manager di Explore Fairbanks, è anche un appassionato di teatro.  Davanti a caffè americano, uova e bacon, mi racconta del suo documentario in fase di ultimazione sugli attori e la nuova drammaturgia in Alaska. Jerry mi fa da cicerone, è di buona compaagnia, mi porta a zonzo alla scoperta di quelle città che per tanti è  soltanto di passaggio.

Fairbanks è una tappa obbligatoria per chi vuole entrare nel vivo della vita della comunità alaskina. Non è una città che abbonda di attrazioni, ma è il modo per osservarla nella sua quotidianità con quelle abitudini che, nel raggio di pochi chilometri, ci rendono diversi gli uni dagli altri.
La buona birra artigianale, servita alla birreria HooDoo, è un buon pretesto per conrinuare a parlare con Jerry della vita di tutti i giorni, della famiglia, dei progetti futuri, del figlio che gli sta dando tante soddisfazioni.

Fairbanks ti sorprende proprio per la sua sobrietà, in questo centro che nel tardo pomeriggio assomiglia ad un set da film del vecchio Western, anche se poi assaggiando la cucina locale ammetti che sono tutte impressioni gettonate.

Il salmone ben cucinato da Lavelle’s bistrot resta uno dei piatti rappresentativi di questa zolla staccata d’America, l’ultima frontiera di nome e di fatto. Fairbanks sa esaudire i tuoi desideri in un periodo  dell’anno in cui intravedere l’aurora boreale è quasi impossibile, perché le ore di luce sono di più rispetto a quelle notturne.

Intorno alle 2 del mattino eccola spuntare nella sua raggiante bellezza: io vi attacco sulla coda un bottone, che assomiglia al legittimo desiderio di rivedere un dì mio padre.

Lettera dall’Alaska a Mary Shields, prima donna americana a partecipare ad una gara con i cani da slitta

Cara Mary Shields, in un ritaglio di un giornale americano lessi la tua incredibile  storia. Non avevo terminato ancora il liceo. Dissi a me stesso: “Un giorno voglio andare in Alaska ed intervistarla.” Per me non eri soltanto la prima donna americana ad aver partecipato e concluso una gara con i cani da slitta. Eri il simbolo femminile di chi aveva schiaffeggiato il becero maschilismo d’oltreoceano nelle mille miglia del percorso da Anchorage a Nome.

Quando sono passato a casa tua a Fairbanks, mi è sembrato di entrare in un luogo fatato e non perché la tua tana scodinzoli gnomi e fatine. E’ magica perché c’è l’anima appassionata e determinata di chi, a mio modesto parere, è diventata senza saperlo uno dei simboli dell’emancipazione femminile americana. Nella tua valigia di cartone di ragazza di provincia venuta in Alaska nel 1965 c’erano i sogni di una donna qualsiasi, pronta a difenderli a denti stretti.

Mentre sorseggiavo il caffè americano guardandoti diritta negli occhi, pensavo che quando sei arrivata in mezzo ai cani da slitta, l’American Dream era già evaporato con i proiettili conficcati a John F. Kennedy e che di lì a poco, dentro il pantano della sanguinosa guerra del Vietnam, sarebbero state confiscate persino le utopie agli americani che avevano riposto fede nelle urla antirazziali di Martin Luther King.

Cara Mary, non è che i tuoi bellissimi cani hanno segreti poteri da “stregoni”? Sono riusciti a farmi vedere davanti agli occhi i momenti cruciali di quella gara, la tua conquista di aver liberato i cani da slitta dal pregiudizio della schiavitù, rendendoli copratogonisti della tua vittoria per la libertà.
La nostra chiacchierata mi ha fatto ritrovare la bellezza di tutte le donne libere come te, libere di pensare e sognare, libere di essere sé stesse, anche quando temi di essere finita tra una banda di bifolchi.

Cara Mary, mi hai fatto felice e quando me ne sono andato, senza fartene accorgere, ho inghiottito il magone della prima e ultima volta insieme alla signora che dall’Alaska schiaffeggiò il becero maschilsmo americano.

Ti voglio bene.

Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita. (William Shakespeare)

Cartolina dall’Alaska: Paws for Adventure con Leslie, Chase e i cani da slitta

Leslie era arrivata in Alaska per fare l’insegnante, ma poi col tempo si era resa conto che la sua vera passione i famosi cani da slitta che hanno imposto l’ultima frontiera nell’immaginario collettivo. Oggi la Paws School For Adventure è uno dei centri più noti di Fairbanks e dintorni per chi vuole avvicinarsi a questo mondo affascinante.

I cambiamenti climatici non sono di certo dalla mia parte e non c’è abbastanza neve. Leslie e Chase mi mettono nelle condizioni di vivere al meglio l’esperienza, rendendo questa tappa uno dei momenti più emozionanti del viaggio in Alaska.
Il workshop di Chase mi porta alla scoperta di un emisfero per me nuovo, catapultandomi tra le pagine di il Richiamo della Foresta di Jack London: la preparazione della slitta, il nutrimento dei cani, la fase delicata dell’addestramento, le gare e tutto ciò che c’è dietro la vita di un musher, ovvero chi conduce la muta dei cani da slitta.

 Chase me li presenta uno ad uno, raccontandomi le storie che danno al cane la peculiarità di essere l’amico più fedele dell’uomo. Poi si parte, i cani da slitta della Paws for Adventure School sono furie, inizia un mini viaggio in un paesaggio fatto di misteri e segreti, sembra una contorsione temporale nell’antropologia dell’Alaska quando i cani da slitta facilitavano gli spostamenti, permettendo ai agli alaskini di sopravvivere ovunque.

Leslie e Chase, in questa mattinata speciale alla Paws School for Adventure, mi hanno ricordato che i pregiudizi offendono le opportunità di esplorare mondi lontanissimi che non ci appartengono, ma abbiamo sognato leggendo un libro o guardando un bel film. Da quella slitta ho vissuto in prima persona una nuova prospettiva, quella che fa di un cane e di un uomo la contaminazione del creato perché dopotutto se non ci fossero i nostri amici a quattro zampe saremmo così infelici da rimproverare il Padreterno per averci negato un amico fedele.

In Paradiso si entra per favoritismo. Se si entrasse per merito, tu resteresti fuori ed il tuo cane entrerebbe al posto tuo.
(Mark Twain)

Alaska on the road: Cartolina da Talkeetna

Talkeetna era finita sulla bocca del mondo per aver avuto un gatto buffo come sindaco (la protesta degli alaskini può smuovere le corde della surrealtà). I primi due giorni in Alaska si concentrano in questo villaggio da pagina del romanzo Little House on the Prairie di Laura Ingalls.

Alloggio in una dimora storica, Talkeetna Roadhouse, e me lo conferma il libro ad essa dedicata pubblicato da un editore locale. Si tratta di una costruzione dei primi del ‘900, che mantiene le atmosfere dei tempi. Melissa, uno dei gestori, mi fa sentire a mio agio, qui si respira familiarità, sul pianoforte in un angolo del soggiorno ci sono ammassati degli spartiti che stuzzicano la voglia di suonare.

A Talkeetna si conoscono tutti o quasi e chi si sosta qui è in viaggio verso il Parco del Denali, la vetta più alta del Nordamerica. Fa freddo ma non troppo, il cielo è limpidissimo e il sole colora tutte le foglie degli alberi. Mi dicono che sono un vagabondo fortunato, perché solo pochi eletti riescono ad avvistare da qui il mitico Denali. L’acqua dei ruscelli, il ghiaccio che si scioglie, la neve superstite mi ricordano che il mio viaggio nell’ultima frontiera è la grande opportunità per esplorare “il mondo fuori dal mondo.”

Cammino a lungo, attraverso un ponte, avvisto i binari della ferrovia: ripenso alle mattine in cui nonno Pasquale mi accompagnava da bimbo ad aspettare i treni, li adoravo nel loro andamento di beffeggiare l’infinito. Mi affaccio nel Nagley’s store, il classico negozio americo dell’alba del secolo scorso in cui trovi tutto, anche le cianfrusaglie più improbabili.

A Talkeetna non ci sono muri separatori, avverto un senso di libertà che un territorio come questo sa darti senza pregiudizio. Mangio un piatto di carne con delle patate bollite, bevo una pinta i birra locale, il sole è calato. Mi tuffo a letto, mi addormento, smaltisco la stanchezza., fuori c’è un cielo stellato che non ha precedenti. Ripenso a mio padre, che mi guarda da lassù e mi ricorda le notti stellate condivise insieme.

L’indomani mi sveglio all’alba, fuori fa un freddo cade, mi infilo un cappello e la sciarpa. Dormono tutti, il villaggio è semideserto, mi godo le prime luci del sole mentre raccolgo ogni dettaglio in direzione della cima del Denali. Il vocio del fiume e il silenzio orchestrano un concertino di strumenti naturali che fanno bene all’anima e allo spirito.

Resterei ancora a Talkeetna, ma il viaggio mi chiama. Mentre mi allontano, mi ronza in mente un passaggio di On the Road di Kerouac:

“Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e disperdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio. Ma intanto ci si proietta in avanti verso una nuova folle avventura sotto il cielo.”

Alaska on the road: L’ultima frontiera

L’Alaska è stato uno dei sogni da viaggiatori fin dai tempi dell’infanzia. Negli Stati Uniti sono di casa ormai – dopo l’estate del 1992, l’on the road di un mese del 2005 dalla California alla Louisiana, il Ringraziamento del 2015 tra New York e Tennessee – e “l’ultima frontiera” resta la tappa speciale insieme al Tibet del mio giro del mondo. Otto ore di volo da Toronto e poi il batticuore dopo l’arrivo all’aeroporto di Anchorage.

Aspetto l’alba, fuori ci sono una manciata di gradi. Avvisto finalmente il van con cui percorrerò 1.200 chilometri andata e ritorno nel giro di una settimana tra Anchorage e Fairbanks. I miei compagni di viaggio sono alcuni ragazzi provenienti dalla Louisiana, Missouri e North Carolina che trascorreranno i prossimi mesi a lavorare come stagionali nel Parco del Denali.
La simpatica Shandricka di New Orleans mi riporta laggiù sul Mississippi dove coronai il sogno di incontrare B. B. King e Allen Toussaint.

Paul, il driver, è sbarcato in Alaska quando era piccolo per seguire insieme alla famiglia suo padre militare dell’aviazione americana: ha visto nascere il primo McDonald’s, il primo Hard Rock Cafe. Gli Alaskiani possono risultare scontrosi e scorbutici al primo impatto, ma quando si aprono diventano delle persone delizione.
Man mano che i chilometri aumentano, mi sembra di conoscere Paul da sempre, lui che per una vita ha lavorato anche come pescatore nel Golfo di Alaska. Ha una voce radiofonica e mi racconta di quando aveva lavorato in una piccola radio locale.

A guidarmi per 300 chilometri c’è Valery, arzilla driver di 70 anni che nel 1989 aveva creato insieme al defunto marito  questa piccola società, grazie alla quale tutti i giorni auto e mini van si spostano lungo una parte dell’Alaska per trasportare persone. Mi sembra di essere finito su un altro pianeta, il paesaggio cambia sfumature e contorni e tutte queste storie raccolte mi preparano ad affrontare una delle tappe più avvincenti del mio giro del mondo.

I racconti di Valery al volante mi fanno compagnia in questa lungo giro e, quando attraversiamo il piccolo villaggio di Nenana, mi sembra di essere finito in una zolla del vecchio West. L’immaginazione non avrebbe potuto raccontare ciò che ho vissuto e visto con i miei occhi. Il mio viaggio è appena cominciato, qui dove c’è l’ultima frontiera del Nordamerica.

Per l’amante della natura selvaggia, l’Alaska è uno dei più bei paesi al mondo. (John Muir)

Cartolina dal Canada: Anne of Green Gables, compagna di viaggio

La mia traversata del Canada, tra Ontario e Québec, ha avuto una compagna di viaggio immaginaria: la scrittrice canadese Lucy Maud Montgomery. Non so a quanti questo nome dica qualcosa, ma alla mia generazione il suo ciclo di romanzi “Anna dei tetti verdi” arrivò per vie traverse grazie “Anna dai Capelli Rossi”, anime giapponese che aveva lo zampino di Miyazaki.

In realtà il mio itinerario iniziale prevedeva la tappa finale a CharlotteTown, nell’isola del Principe Edoardo, per mettermi sulle tracce dei luoghi natali e consultare documenti ingialliti della famosa scrittrice. Green Gables, la casa dove visse Lucy Maud ed è ambientato il ciclo di romanzi, è stato il luogo mai raggiunto, la cui fisionomia geografica custodisce la memoria letteraria di un personaggio e della sua autrice.

Ho scritto all’inizio che Lucy Maud è stata  mia “compagna di viaggio” perché non c’è stato tappa in Canada dove non mi fossi fiondato in una libreria dell’usato alla ricerca di una vecchia edizione di “Anne of Green Gables” per il mio archivio.
In realtà la caccia non poteva andare a buon fine, perché la Montgomery riuscì a pubblicare il primo romanzo fuori dai confini canadesi, a Boston nel 1908. A Toronto ho trovato una ristampa locale di una trentina d’anni fa, anche se la cronologia bibliografica  è molto contorta, ho consultato diverse edizioni in Ontario e Québec in lingua inglese e francese.

Pensavo che in Canada il personaggio di Anna Shirley si fosse imposto come una mascotte nazionale, ma accade troppo spesso che la rincorsa al futuro sbiadisca anche la memoria collettiva di un Paese. Alcuni giocattolai mi hanno ripetuto che le “doll di porcellana” di Anne sono roba di altri tempi e i pargoli canadesi non la hanno più incrociata in un programma televisivo per affezionarsene. E pensare che mia nonna Lucia mi fece appassionare alle storie di Il Pentamerone di Basile attraverso la tradizione orale, senza bisogno di un tubo catodico.

George Campbell, parente e nipote della scrittrice di “Anne of Green Gable”, ha pubblicato la prima edizione del romanzo edita nell’isola del Principe Edoardo.  Lo ringrazio pubblicamente per questa copia autografata e questa meravigliosa bambola che custodirò nel mio archivio. Non sono riuscito a conoscerlo personalmente. Questo dono è partito dall’isola del Principe Edoardo mentre ero in volo da Toronto.

Questa special edition del romanzo, edito per la prima volta nell’isola natale della Montgomery, è un’azione concreta per preservare la memoria letteraria della sua prozia e di quel personaggio che tutt’oggi ci fa esclamare con riconoscenza: vogliamo ripetere per l’ennesima volta che l’immaginazione è un talento grazie al quale non siamo costretti a barattare crudelmente l’essenza della nostra esistenza.

 

Nothing is ever really lost to us as long as we remember it.
(Lucy Maud Montgomery)

Canada on the road: Cartolina da Québec City

Quando arrivo a Québec City sento il peso degli 800 chilometri di distanza da Toronto. Dopo l’immersione cosmopolita della “capitale multiculturale del Nordamerica” finisco nel cuore del Canada francese, anzi per dirla alla loro maniera: “Qui non siamo in Canada, ma nel Québec”.

Gli spiriti bollenti del separatismo politico aleggiano nell’aria, mentre il cuore della città vecchia è così europea nell’architettura e nelle atmosfere da farmi ricercare le orme del Vecchio Continente.
A Québec City ci sono studenti assiepati ovunque, pare sia una destinazione molto gettonata da gita scolastica. Sarà perché è la città più antica del Nordamerica, il capoluogo dell’omonima provincia è preso da assalto. Cosa c’è di meglio che perdersi su e giù per le stradine di questa collina, guardarsi intorno, gettare la coda dell’occhio sui dettagli che fanno di Québec City la zolla europea più autentica del Canada?

Qui incontro Harry e We, due universitari dalla Cina, con cui condividere storie dell’ultimo viaggio nel loro Paese, antiche memorie, le censure, il mio weekend di studio con Bernardo Bertollucci, sequenze del film “L’ultimo imperatore”, il coraggio di quello studente in piazza Tienanmen… Dopo tutte queste chiacchiere mi chiedono una foto ricordo insieme, salutandomi con un bel complimento: “Sei un grande viaggiatore, perché sono le tue ispirazioni di vita e studi a portati in giro per il mondo.”

Comincio ad avvertire la stanchezza delle distanze del viaggio. Nel primo pomeriggio la cattedrale è semivuota, intravedo un prete in angolo a sistemare delle candele. Il Castello di Frontenac, uno dei simboli dell’intera provincia, è forse oggi l’albergo più fotografato al mondo. I turisti lo invadono, fanno sogni proibiti, non è alla portata di tutti e una notte qui costa un occhio della testa.

I palazzi pittoreschi della Haute-Ville guardano verso i musicisti da strada che animano la piazza mentre una carozza e un cavallo mi distrae con affetto e intravedo Parigi in lontananza. Bisogna farsi una lunga scarpinata oltre la Citadelle per entrare in contatto con la gente del posto. C’è chi fa jogging a prima mattina, chi scappa a lavoro, chi apre e chiude l’ombrello perché anche qui si passa con disinvoltura dal sole alla pioggia.

Il Museo Nazionale delle Belle Arti è una fantastica sorpresa e le sue provocazioni di arte contemporanea azzerano il pregiudizio che certe visioni non possano farci ritrovare la prospettiva di futuro che abbracci sostanza ed esistenza. Passeggio a lungo e mi fermo sulla rue Saint Jean nella piccola libreria Nelligan, che vende una marea di libri usati in lingua francese. Mi fermo a parlare volentieri con François, il vecchio librario nella foto della copertina di questo articolo, che negli scafalli trova per me un’edizione stampata in Québec e tradotta in lingua francese del romanzo canadese Anne of Green Gables.

Dalla rue Saint Jean passo a prendere due insoliti souvenir che a detta del negoziante mi faranno un vero “quebecchiano”: il pupazzo di Carnaval, mascotte di Québec City, e due statuine dei protagonisti del famoso programma televisivo di Tele-Québec “Passpartout”. Quale modo alternativo per ricordare attraverso cimeli locali questi due giorni sulla collina di Québec City?

Canada on the road: Cartolina da Montréal sotto gli occhi di Leonard Cohen

Certe canzoni hanno accompagnato le curve della mia vita, facendomi evitare gli sbandamenti esistenziali. Il mio viaggio a Montréal, comincia al numero 28 di rue Vallières, sull’uscio di casa del cantautore Leonard Cohen (1934-2016).

 

Il rumore sottile della pioggia sbuccia le fatiche della settimana lavorativa, osservo la gente comune, i mendicanti accovacciati, l’acqua che scivola via dagli ombrelli vorrebbe diventare neve, ritrovo gli acquerelli in musica di ogni suo verso. I turisti si precipitano nella Vieux Montréal, i viaggiatori come me fanno di tutto per localizzare un’area periferica.
Le Plateau-Mont-Royal mi conquista subito tra i murales che scrivono vecchie storie mai annebbiate, le piccole librerie dove vado a spulciare rimasugli letterari del Quebec, i localini alternativi in cui ritrovo la socialità. Qui una pinta di birra locale è ancora una salubre calamita per ritrovare amici e fare quattro chiacchiere.

Mi scappa la pipì e mi trovo per fortuna da Steve’s Music Store, uno dei negozi di strumenti musicali più importanti del Quebec.  Vale la pena chiedere la chiave del bagno, la più originale che mi sia capitata in 31 anni di viaggi: il portachiavi è una vera chitarra.

Dopo aver camminato ore e ore a piedi come un pellegrino, finisco con stupore a Place des Arts che rende la “New York parigina del Nord America” un crocevia d’arte e spettacolo. Questa è anche la casa della Montréal Symphony Orchestra che mi ospita al concerto del pianista francese Jean-Philippe Collard. È una serata speciale alla Symphony house, la magia del palco e la sensibilità del pubblico ad un tiro di schioppo da una piccola consapevolezza che non dovremmo mettere mai in soffitta: la bellezza infinita della musica classica ci salverà.

Perdersi nella città sotterranea, chilometri sotto i tuoi piedi che danno particolarità a questa metropoli canadese, che non ha smesso mai di sentirsi francese. Poi sbuco tra i grattacieli del dowtown, in lontananza si intravede il vecchio porto.
Come su uno scivolo mi trovo dinanzi a Notre Dame, il simbolo che sigla il gemellaggio con Parigi. L’altare della cattedrale è meravigioso, il più bello visto in America.

La vecchia Montréal è una miniatura parigina nell’architettura, nei ristoranti, nelle gallerie d’arte che profumano di Montmartre. Il mercato di Bonsecours è un covo di artigianato locale, ogni stradina di questa zona tinteggia le atmosfere rilassanti della Parigi, ormai vecchia cartolina dopo le ferite degli attentati terroristici.

Al vecchio porto, area completamente riqualificata, ti viene voglia di salire su una barca e navigare il fiume San Lorenzo, le cui acque pluviali collegano i grandi laghi americani all’oceano Atlantico.

 

Gira e rigira  il pensiero è sempre lì, come un chiodo fisso, al numero 28 di rue Vallières, sull’uscio di casa di Leonard Cohen, come se il mio viaggio a Montréal fosse circolare e si chiudesse con una dedicata sussurrata:

Ci pensi quanta strada? Grazie per non essere mai stato divo. Questa tappa per te, Leonard Cohen.

Canada on the road: Cartolina dalla capitale Ottawa

Percorro 500 km on the road per raggiungere Ottawa, la capitale del Canada, prima che spunti l’alba. Il paesaggio nottambulo dell’Ontario striscia nel buio per poi alzarsi con la luce del sole.
Non sono ancora le sei e mezzo del mattino, mi fiondo in una caffetteria, ordino una bagel con uova e bacon e l’immancabile mezzo litro di caffè americano. In Canada te lo servono di un bollente insopportabile e, se non fosse per qualche dito di latte freddo, daresti la lingua in pasto agli ustionati. In Italia le lancette dell’orologio sono molto più avanti.

Faccio una videochiamata a mia madre, dopo averla alfabetizzata con whatsapp, è il primo viaggio in cui la tengo al corrente in diretta con le nuove tecnologie.
E pensare che alla fine di giugno del 1988, da una cabina telefonica di’ Westminster a Londra, feci la prima chiamata, “a carico del destinatario”, per trasmetterle l’emozione di aver messo piede nella capitale della mia vita, neanche fossi stato il primo uomo sulla luna.

Dallo schermo dello smartphone sbuca la faccia della mia nipotina Eleonora, pare che ogni volta avvisti un aereo, pronunci il mio nome: si è convinta che lo zio abiti tra le nuvole, spostandosi da un volo ad un altro.

Ottawa è quasi vuota a prima mattina, è il lunedì di Pasquetta. C’è un bel sole, raro di questi tempi in un Canada che miete le atmosfere del nostro novembre. Fuori al Senato siamo quattro gatti. Del resto vale la pena fare una puntatina qui: in quale capitale del mondo riuscireste ad organizzare un batter baleno una doppia visita a Camera e Senato? Un viaggio storico e politico, avvincente e persino divertente, grazie alla guida di Isabelle.

Ottawa tutto sommato sa sorprenderti attraverso l’architettura della Nation Gallery of Canada, di quei giochi ultramoderni che fondono gli ambienti e fanno dello spazio il luogo meticcio in cui l’arte di un Gauguin incontra il nostro stile di immaginazione.

Gli hamburger di King Eddy sono saporiti e restano una buona scusa per conoscere persone, scambiare punti di vista sulle rispettive storie dei Paesi di provenienza, interloquire  sul futuro che desideriamo. Il sole picchia forte, mi stendo sull’erba, questi 18 gradi sono una manna dal cielo dopo il tempo uggioso di Toronto e Niagara.

Quest’altra zolla di terra dell’Ontario, attraversata dal canale di Ridaeu, racconta sottovoce il Canada, la sua gente, i sogni e le delusioni, di chi sa che ci sono sempe più strade per ritornare a casa.
Cammino a piedi a lungo, spingendomi fino alla periferia dove c’è lo stazionamento degli autobus. Sorseggio un caffè, sbircio un giornale locale, mi accorgo che l’autobus arriverà a destinazione con un’ora di ritardo. Ottawa diventa un puntino, dal finestrino vedo una donna anziana che tiene per mano un bambino disabile, fatico a tenere gli occhi aperti per la stanchezza, mi addormento.