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Paul McCartney all’Arena di Verona: Quando le canzoni cambiano il finale di Romeo e Giulietta

Rosario PipoloUn concerto può fare quello che il tempo non ha saputo fare, forse per pigrizia interiore o mancanza di coraggio. Uno sciame di canzoni dei Beatles, eternamente in volo, è diventato una massa di fili di perle grazie a Paul McCartney all’Arena di Verona. I fan all’occorrenza si perdono sempre il più grande spettacolo emozionale. Lo hanno avvistato coloro che sono cresciuti con i concerti di Macca in Italia, come chi vi ha depositato negli ultimi 25 anni i sogni, le speranze, gli schiaffi del passato e le carezze del futuro.

Ci vuole costanza e determinazione per trasformare una passione musicale in sacrosanta verità: Let It Be sfila l’anello dell’anulare e mette in ginocchio la promessa; Hey Jude squarcia il velo del tempio nel coro che esplode e taglia le distanze; The Long and Winding Road ferma il dondolo del tempo nell’istante preciso che dà voce al silenzio; Live and Let Die è una scusa bella e buona per uno spettacolo pirotecnico; Yesterday non è il manifesto della nostalgia, ma la presa di coscienza della determinazione della memoria futura; Maybe I’m Amazed è lo stupore di fronte alla magia di come l’amore possa dare una svolta alla vita; The End è l’iniezione della fine nel principio di un solco verso l’eternità con l’epitaffio “l’amore che dai è uguale all’amore che ricevi”.

Vallo a dire alla luna che Paul McCartney a 70 anni suonati ha sbeffeggiato la Big Moon di domenica scorsa. La luna è esplosa martedì sera su Verona, non era un effetto ottico e la hanno vista tutti coloro che c’erano. Lo sciame di canzoni dei Beatles ha rimesso mano alle pagine shakespeariane di Romeo e Giulietta, cambiando il finale. McCartney sussurrava al piano My Valentine e Giuletta, che tutti credevano morta, volava come un angelo sull’arena di Verona. Sapeva che Romeo era lì, vagabondo su quelle note musicali, a scacciare i demoni della vita che vorrebbero irridere il potere miracoloso della musica.

Nella sera dei miracoli di Macca gli dei si sono dovuti ricredere su quell’accusa di chi vorrebbe che la musica fosse l’oppio dei sognatori. Se pure fosse, lasciateci sognare. Lasciateci ricordare gli amici di gioventù come John e George in nome di quelle schitarrate tra il tanfo del porto di Liverpool. Lasciateci continuare a credere che, in un misto di laicità e religiosità, queste canzoni cambieranno il nostro destino, senza essere più vittime o carnefici di rimorsi e nostalgie.
Nel coro finale di Hey Jude ognuno ci ha infilato la sua smisurata preghiera, come l’urlo più esteso per arrivare alle orecchie di Dio. Da qualche parte c’era l’adolescente che scappò di casa per ascoltare Macca nell’89 al PalaEur di Roma. Romeo e Giulietta lo hanno riconosciuto e lo hanno fatto alzare in volo sull’Arena di Verona, appendendolo ai fili invisibili dei suoi sogni per trasformarlo in un uomo dai capelli brizzolati. Quello ero io.

Addio “Cuore matto”. L’Italia di Little Tony non abita più qui

Rosario PipoloAntonio Ciacci sognava l’America, affacciato dalla finestra dell’Italia paesana e di periferia della fine degli anni ’50. Sognava un ciuffo cotonato alla Elvis Presley al posto della capigliatura sottomessa alle forbici dei barbieri del Belpaese degli anni del Boom. Gli affibbiarono un nome per scimmiottare il Little Richard d’oltreoceano, senza pensare che tradotto all’italiana rischiava di essere buffo e provinciale: Toniuzzo, Tonino, piccolo Tonio, fate voi. Senza lo scempio della traduzione suonava meglio perchè sembrava venuto da lontano: Little Tony, appunto. Agli inizi i suoi movimenti non ancheggiavano alla maniera spudorata dell’Elvis di Hound Dog – l’Italia democristiana bigotta e clericale non lo permetteva – ma fecero pensare a qualcuno che l’Elvis italiano sarebbe sopravvissuto nell’iconografia pacchiana e folcloristica dell’Italia da balera, risucchiato dal cinema dei musicarelli a cui prese parte.

Non fu così, perché “Cuore matto”, “24000 baci” e “Riderà” fecero di Little Tony il paladino del rock all’italiana, quello che mischiato al pop melodico fece sognare e innamorare le ragazze Yeah Yeah, tra cui mia madre. Molte di quelle ragazze qualche decennio dopo si diedero a nuove frequentazioni, dietro i movimenti femministi. E dentro quell’urlo da megafono non potevano esserci più le canzoni di Little Tony, ma quelle impegnate dei nuovi cantautori. Alcune lo rinnegarono, in tante lo tennero stretto al cuore, proprio come mia madre che la sua rivoluzione la fece tra quattro mura domestiche. Come mamma, moglie e casalinga agguantò le note della melodia di “Riderà” e le trasformò nello striscione su cui era scritta una parte della sua vita.

L’Italia di Little Tony è morta almeno tre decenni fa, forse negli stessi anni in cui la voce di Antonio Ciacci intonava “Profumo di mare”, la sigla del famoso telefilm Love Boat. Ci resta però in questa galassia di canzoni orecchiabili e disimpegnate il poster gigante di una generazione che non tradì mai le proprie origini, perchè sapeva da dove veniva e dove voleva andare. Proprio come Little Tony, con cui trascorsi un intero pomeriggio a Bologna venti anni fa. Poi scomparve sfrecciando su un’auto sportiva prima che calasse il sole, come ora viene meno una promessa che non posso più mantenere. La dedica in sospeso ad una fedele fan delle mie parti, a cui avrebbe dovuto scrivere: “A zia Angelina. Un bacio, Little Tony”.

Addio Fnac Italia! Via Torino a Milano non sarà più la stessa…

Rosario PipoloAddio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. Uno come me divoratore di musica, film e libri non può che essere affezionato ai tuoi scaffali. Perché? Perché una parte del mio cuore è francese, essendosi trasferita nel Sud della Francia un pezzetto della famiglia di papà. Nel 1996 mia cugina Gabrielle mi portò per la prima volta in una Fnac, era quella di Tolone. Mi regalò alcuni libri di grammatica francese, che mi hanno giovato all’università. E poi era lì che, durante le estate francesi, andavo a rovistare per cercare a prezzi modici la musica di Serge Gainsbourg.

I miei primi dieci anni a Milano sono stati decisamente uno per uno “fnaciani”. Ricordo nel gennaio del 2003, appena sbarcato a Milano, mi precipitai a via Torino per scoprire la sede milanese – era la prima che visitavo in Italia – e cogliere al volo i cd con il bollino “Affare FNAC”. Pure con pochi soldi in tasca, riuscivo ad uscire con qualcosa di buono.

Addio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. I rumor ormai sono certezza e uno di questi giorni troveremo Trony al tuo posto. Via Torino a Milano non sarà più la stessa senza Fnac. Per me è come dire Parigi senza i Magazzini LaFayette. Mi mancheranno le chiacchierate con gli addetti del reparto musica, grandi conoscitori della materia, le mie incursioni in compagnia di mio cugino Massimiliano,  i sorrisi delle cassiere da cui ogni volta portavo via una piccola storia per il mio diario.

Lo so, Fnac Italia, che non bisogna essere sentimentali al giorno d’oggi. Mi toccherà espatriare in Francia, perché senza Fnac io non posso stare. Il motivo è uno solo: sulle tue scale mobili ho fatto salire e scendere un mucchio dei miei sogni. Alcuni li ho riposti nei tuoi scaffali, tra libri, dvd e cd. Un giorno tornerò a riprendermeli.

Perché racconterò la Milano City Marathon 2013 con la T-shirt “El purtava i scarp del tennis”

Rosario PipoloNon sarò mai un maratoneta. Questo lo so. Da qualche anno a questa parte però mi capita di raccontare la Milano City Marathon attraverso i social network. Ripesco così le mie origini di cronista d’assalto per i quotidiani e le mescolo a tutte quelle diavolerie tecnologiche, che poi sono gli attrezzi del mio mestiere. Nella mia “social marathon” di domenica 7 aprile indosserò la maglietta degli staffettisti in una versione unica e speciale, con la scritta sul retro “El purtava i scarp del tennis”.
È buffo pensare ad un napoletano che se ne va in giro per Milano con il titolo di una canzone milanese. Quando gli organizzatori dell’evento sportivo hanno presentato un prototipo di t-shirt per omaggiare Enzo Jannacci, scomparso la settimana scorsa, ne ho chiesta una tutta per me.

Sono stato esaudito. E non l’ho fatto per il legame privilegiato avuto con le canzoni del cantautore milanese e per gli incontri condivisi con lo stesso Jannacci nella Milano degli ultimi dieci anni. L’ho fatto perchè nella sportività della Relay Marathon, che fraziona il percorso della Milano City Marathon in più tappe, si intravede la generosità artistica di Enzo Jannacci. Le sue canzoni hanno attraversato Milano per mezzo secolo lasciando nei punti di cambio una staffetta per la generazione successiva: il valore del pensiero e della riflessione aggiunti all’ironia, alla surrealtà, all’ilarità. La staffetta si vince se c’è il team, proprio come il canzoniere di Jannacci, che continua a fare gioco di squadra con gli stati d’animo del nostro tempo.

“El purtava i scarp del tennis” non è solo il titolo del famoso brano che riascolterò puntualmente ad ogni punto di cambio della Relay Marathon. È soprattutto il titolo assegnato ad “un pretesto”, quello di “correre” con la fierezza di un podista ma che ha nel cuore le poesie musicate di Enzo Jannacci.

Roma e l’addio al suo Califfo: “Tutto il resto è noia.”

Rosario Pipolo“Ciao, Franco. Ora senza te, tutto il resto è noia” non ha l’aria del solito striscione di un concerto allo stadio. E’ l’epigrafe che la borgata romana dedica al suo cantore, Franco Califano, con un vezzo da balera che mischia l’esistenzialismo di un Moravia agli eroi della borgata pasoliniana.

Franco Califano è stato la controindicazione della voce nazional-popolare degli anni ‘70 o l’anti-divo della discografia italiana d’autore, con la spavalderia di un teddy boy della Fontana di Trevi. Dicevano che nella vita privata il Califfo ancheggiava tra la fama di sciupafemmine e quella di legami con brutti ceffi, per giunta dalla “sniffata” facile. Sul palco, dietro gli occhiali scuri, diventava il neomelodico da fotoromanzi popolari con la romanità sotto la lingua, capace di sciogliere il cuore di chi popolava il quartiere.

Nonostante ciò, senza falsi moralismi né intellettualismi sofisticati, il Califfo aveva preferito legare la sua storia privata e pubblica a quella dei farabutti da borgata, i quali nell’urlo “maledetta noia” si erano fatti traduttori dell’esistenzialismo. “Tutto il resto è noia” non è un vecchio brano dimenticato in cantina ma il manifesto di uno stato d’animo che può far sprofondare la vittima negli abissi.

Esistere vuol dire anche osare per rincorrere le vittorie e le sconfitte dei giorni fugaci. Franco Califano intraprese più di quaranta anni fa una crociata contro quella “maledetta noia”. Si è dovuto ricredere chi lo accusava di nascondersi dentro un paio di occhiali scuri. La borgata romana però è andata oltre l’irrisoria apparenza. Il Califfo li metteva per capire di che forma fosse fatto il cuore del suo pubblico, che non lo hai mai lasciato solo, neanche quando la solitudine ha tentato di divorarlo e farlo a pezzetti.

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Quelli che…il sabato prima di Pasqua si svegliano senza Enzo Jannacci

Rosario PipoloOgni volta che sbucavo in camerino, mi ripeteva con il suo tono ironico e scanzonato che ero “una persecuzione”. Che cosa ci avrei fatto mai con quelle firme di Enzo Jannacci spiaccicate su vecchi 45giri e cd? Niente, mi sarei messo ad osservare la traiettoria dell’inchiostro, le curve, le microscopiche sbavature della penna che filtravano la consistenza del suo essere artista.

Enzo Jannacci è morto ieri in tarda sera, all’ombra di un Venerdì Santo. Milano resta davvero sola. Si sentiranno più soli quelli che come me sono venuti a cercar fortuna nella città che lo ha allevato ed ha fatto da sfondo alle sue storie. Jannacci, il medico chirurgo che sotto il camice aveva l’estro di un giullare, il cuore di un jazzista, l’anima del cantautore, ha cantato gli ultimi e i dimenticati, i poveri ed emarginati Lo ha fatto senza prendersi mai troppo sul serio. Quelli che come “Vincenzina” andavano in fabbrica, quelli che portavano “le scarp da tennis”. Jannacci le aveva sfilate zitto zitto alla borghesia invaghita che aveva rinchiuso la terra ambrosiana nel sogno fasullo della Milano da bere.

Le canzoni di Enzo Jannacci, da “Quelli che…” a “Vengo anch’io. No, tu no”, hanno investito la nostra anima della tipica teatralità che non puoi condividere con una persona qualunque. Devi sottrarla al torpore della massa e ficcarla nell’immaginario di chi continuerà a sognare da solo, attraverso le storie di Milano, diluite nel suo repertorio che recupera anche la bellezza e la magia del dialetto. Grazie ai fotoromanzi musicati di Jannacci abbiamo abbattuto gli stereotipi e avvistato lo stupore in certi angoli nascosti di questi luoghi, i suoi. E persino Rogoredo, sfinita nel tanfo della periferia, resta l’angolo popolare che dalla crudele realtà metropolitana gioca a nascondino nei versi dell’omonima canzone.

Se dobbiamo dire addio a Enzo Jannacci, facciamolo pure con una certezza: da oggi, ad un passo dalla Pasqua, assieme a Giorgio Gaber canterà le storie di noi umani al popolo di angeli, che forse ha perso da un pezzo le contraddizioni strampalate dell’umanità. Per fortuna, non siamo tutti uguali e pochi di noi hanno la fortuna di potersi incontrare nei versi di quella canzone: “Son s’cioppaa… son scoppiato dal ridere ma che pena vederti, fare finta di piangere. Son s’cioppaa, tu che neghi le Marlboro, tu che adesso hai capito come nascono i comici”. Abbiamo imparato la lezione di “come nascono i comici”, proprio quando ci ostinavamo a stare lontano dai nostri simili.

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#DarkSide40: Perché il lato oscuro della luna dei Pink Floyd resiste al voyeurismo degli anniversari

Rosario PipoloHo scampato l’anniversario e me ne sono volutamente dimenticato. Gli americani sulla luna ci avevano messo piede quattro anni prima. L’Inghilterra si mise di traverso tra le navicelle di russi e americani quando il 24 marzo del 1973 uscì The Dark Side of the Moon. Questa volta ad andare nello spazio era la musica, in un groviglio di sonorità ultramoderne, che bilanciavano le intuizioni sperimentali dei Pink Floyd con i presagi del futuro.

Roger Waters e compagni, dopo la separazione traumatica dal pargolo visionario Syd Barrett, calpestarono ciò che l’astronauta Neil Armstrong non vide: Il lato oscuro della luna. Al ritorno da quella missione onirica, che mise in crisi musicologi e musicanti di tutte le razze, i Pink Floyd avevano ricalcato le orme antropologiche del film “2001 Odissea nello Spazio” di Kubrick e catapultato i sogni ingannevoli della generazione post-sessantottina tra le pagine della fantascienza musicale. Il concept album dei Pink Floyd liberò finalmente la luna dalla prigionia del mood romantico, mettendo in castigo evergreen come “Fly me to the Moon” e “Blue Moon” e stritolando i conflitti interiori dell’umanità in loop, ticchettii, scoccare di orologi e nel resto dei rumori che assordano la routine.

Dopo quarant’anni The Dark Side of the Moon resiste al tempo e al voyeurismo degli anniversari, perché è ancora sospeso nello spazio. Quel “disco volante”, una sorta di UFO della discografia contemporanea, ha respinto le minacce retrograde e consumistiche della musica usa e getta, raccontando qualcosa che non è accaduto. E’ l’elastico di un divenire ancora troppo lontano per finire in soffitta assieme ad altro vinile impolverato. Il rebus è tutto lì, nel prisma triangolare in copertina, nel luccichio rifrangente che anticipa quello nell’occhio di Jack Nicholson in “Shining”, perché l’alienazione mentale è vittima anche dell’isolamento sociale.

Su Twitter, con l’hashtag #DarkSide40, sono partiti per altre galassie migliaia di pensieri che hanno trasformato una ricorrenza in una presa di coscienza: il lato oscuro della luna è l’unica terra straniera meritevole di ulteriori esplorazioni filosofiche e peotiche. E forse non sarebbe stata un’idea bizzarra tweettare qualche verso di “Alla luna” di Giacomo Leopardi, perché più di un secolo prima lo sguardo dell’anima di un poeta italiano aveva dato il via a questa missione esplorativa. Chi ama stare alla larga dagli anniversari, che come le parole lasciano il tempo che trovano, può sempre farlo senza il ricatto del calendario.

Vieni-via-con-Sanremo-2013: Il peggiore Marco Mengoni vince il festival televisivo di Fazio

Rosario PipoloPoteva tornare ad essere il festival della canzone italiana, invece si è riconfermato il “festival della canzone in televisione sotto il ricatto del televoto”. Marco Mengoni ha vinto il 63° Festival di Sanremo. Niente giacobinismo musicale come avvenne all’Ariston negli anni Settanta, ma riverberi del baudismo televisivo che imposero Sanremo ad evento mediatico, allungato a cinque serate, oggi a metà strada tra Che tempo che fa e Vieniviaconme.

Maurizio Crozza, che non ha preso lezioni di satira politica dal compianto Oreste Lionello, non ha la stoffa di Roberto Benigni, giullare che non si clona mai, e scambia il palco dell’Ariston per lo sgabuzzino di Ballarò. A compensarlo c’è Claudio Bisio con la sua classe, quella che appartiene ai comici veri, coloro che nascono dal legno del palcoscenico di un teatro. Tra i due litiganti gode la Littizzetto che, con il monologo a favore delle “donne maltrattate”, ci restituisce da reginetta un angolo di televisione intelligente. Il pallottoliere dell’auditel resta l’unica misurazione di autocompiacimento, mentre bisognerebbe interrogarsi su quanto una canzone durerà nel tempo, senza l’assillo dell’essere “radiofonica” o no. La doppia canzone è un sussidio da prima serata, niente a che fare con gli anni d’oro del Festival, quando più brani cantati dalla stessa voce sgomitavano fino all’ultima nota e l’ispirazione del televoto era brutalità da incubo di fantascienza.

La generazione social si precipita su Twitter e Facebook a movimentare la telecronaca di un evento che deve un merito al pifferaio progressista Fabio Fazio: sbattere fuori dalla porta le vecchie glorie, che oramai appartengono al vezzo retrò della nostalgia canaglia. Purtroppo sul palco c’è Albano o Raphael Gualazzi, Anna Oxa o Simona Molinari, si inciampa nel solito ed imperdonabile errore: la gioia e l’orgoglio di vedere il proprio beniamino all’Ariston distoglie l’attenzione dal valore di ogni singola canzone, indipendentemente dall’interprete.

Il talent vince l’ennesima scommessa perché il pezzo dai canoni sanremesi è “Il futuro che sarà” di Chiara, gran bella voce, con uno stile musicale che rievoca quello della dimenticata Lena Biolcati. L’olimpo è per pochi, con impasti musicali di matrice diversa: “A bocca chiusa” di Daniele Silvestri, “Vorrei” di Marta sui Tubi, “Sai” di Raphael Gualazzi, “Scintille” di Annalisa, “Sotto casa” di Max Gazzè e “Mamma non lo sa” degli Almamegretta. La suite strumentale con appigli e citazioni zappiane valorizzata in corner è “La canzone mononota” di Elio e le storie tese e la rivelazione sanremese si chiama Maria Nazionale che, lasciando a casa il cliché dei neomelidici all’ombra del Vesuvio, sprigiona dalla gola lapilli di fado portoghese.
Infine, i Giovani, esiliati a ridosso della mezzanotte, ci hanno fatto sbadigliare (avrei tenuto la Porcheddu al posto del vincitore Antonio Maggio) o stizzire come lo sbuffo ruffiano della “la(sa)gna” di Rubino “Amami uomo”.

Dimenticheremo tutto in fretta e furia e, nel giro di pochi mesi ,queste canzoni annegheranno nel marasma del jukebox digitale. “Perché Sanremo è Sanremo”, il gingle inventato da Caruso e Bardotti, è finito tra le cianfrusaglie messe in soffitta, a parte la soddisfazione di aver visto alcune facce che mai avremmo immaginato all’Ariston.

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#Sanremo2013: Il vittimismo dei vecchi BIG e la nociva “sanremosità”

La polemica della Oxa su Twitter

Rosario PipoloIn giro dicono che Twitter sia diventata la nuova guida tv. Commentare via social la televisione confusa dei giorni digitali vale forse più degli stessi programmi che la affollano. E a questo non si sottrae neanche il Festival di Sanremo, asservito dall’era baudiana ai canoni dello zapping, che oggi riscuote interesse nella landa dei cinguettii attraverso l’hashtag frequentatissimo #sanremo2013.

Vogliamo parlare di ciò che accadrà all’Ariston in alternativa al miserabile teatrino politico da campagna elettorale? Facciamolo pure, ma tenendo presente che Sanremo è musica. Fabio Fazio ce lo ricorda, facendo un passo in avanti proprio verso la generazione musicale “social” con una scelta di BIG che non hanno niente a che vedere con il solito dejà vu. Qualche anno fa volevano farci credere che il Festival lacrimogeno del Belpaese dovesse spingere l’acceleratore sul talent show per guardare al futuro. I talent non hanno avuto sempre fiuto, imponendo delle stellette divenute dalla notte al giorno delle meteorine.

Dicevamo che Sanremo è il festival della musica, anzi no delle canzoni. Al tempo dei nostri nonni era così: quando a cantare c’erano nomi che non vi dicono niente, da Nilla Pizzi a Gino Latilla, più canzoni in gara passavano per il timbro della stessa voce. Con l’avanzare dell’età, il festivalone ha imposto l’egocentrismo dell’interprete sul brano e l’imperialismo televisivo, a partire dai primi anni ottanta, ci ha messo il resto, creando una scuderia di cantanti sanremesi. Come se poi certi nomi vivessero discograficamente dentro il contenitore dell’Ariston. E se Anna Oxa facesse parte di questa scuderia, la sua polemica di vittimismo da grande esclusa sarebbe fuori luogo. La sua “sanremosità” – pardon per questo orribile neologismo – non la mette su nessuna corsia preferenziale. L’indimenticabile “Un’emozione da poco” e la trasgressiva performance della Oxa, alla fine degli anni di Piombo, nel piccolo televisore in bianco e nero della cucina di casa sembra ormai una polaroid in stile retrò.

Questo è un altro tempo. Il tempo in cui queste benedette o maledette canzoni tornino a resistere ed esistere fuori dall’Ariston. Per far tornare a vivere i nostri sogni di gente comune, un brano deve meritarsi una vita più lunga di un’abbuffata canzonettara in stile Belpaese, bloccata dal colpo della strega nostalgica che ci fa apparire il canzoniere di oggi inferiore a quello di ieri.

Diario di viaggio: Quando un musicista “da pianobar” ride

Gabriele Bartoli visto da Oliviero Toscani

Rosario PipoloNon è un eufemismo. Il pianobar non esiste più. Tanti si illudono di farlo perché appoggiano le mani su una tastiera, ma alla fine si tratta di un fantomatico gioco di prestigio. Basta uno di quegli aggeggi tecnologici, qualche cianfrusaglia musicale che traduce basi ed effetti musicali in mp3 ed ecco come un rito quasi magico si trasforma in pacchiano karaoke.

Per fortuna capita l’eccezione, che si intrufola nel bel mezzo di un viaggio, in una sera a ridosso della mezzanotte: aperitivo di classe, atmosfera elegante, luci soffuse, in un rifugio lontano dai bagordi del weekend. Accade che Gabriele, il pianista in questione, ti guarda diritto negli occhi, estrae fuori un pezzetto di te e ti dedica il brano giusto. Sì, perché il talento di chi fa questo mestiere non è banalmente amalgamare canzoni ed atmosfera, ma capire con un’occhiata chi ti sta di fronte. Me lo fece notare tanti anni fa anche Eduardo De Crescenzo, dopo una splendida live session, perché i suoi esordi erano legati al pianobar, per l’appunto.

Tornando a Gabriele, la canzone in questione è “My Way” e così lui te l’allunga con vezzi da Elvis, senza rinunciare al monito indiscutibile del “date a Frank quel che è di Sinatra”. Fuori c’è foschia, silenzio, un paesaggio dormiente; dentro c’è quel non so che in più. E ti chiedi: Perché il pubblico non dovrebbe sforzarsi di andare oltre l’apparenza del musicista?. “Quando un musicista ride è perché dentro sente una strana gioia vera e scopre che la sua angoscia è buona perché è la sua tristezza che suona”, cantava Enzo Jannacci. Gabriele imparò questa lezione, quando nell’ ’89 si fece tutto d’un pezzo Roma-Milano per festeggiare allo Smeraldo trent’anni di canzoni del cantautore milanese.
La “strana gioia” a cui fa rifermento Jannacci è forse proprio quella che tiene testa alla memoria: Gabriele che canta una canzone, tenendo per mano per l’ultima volta sua madre; Gabriele che sgattaiola tra le note musicali, facendo le fusa ai giorni ritrovati con suo padre; Gabriele che girovaga per la sua Roma, ripensando a tutti viaggi fatti per mettersi alla ricerca della felicità.

Non è un eufemismo. Il pianobar non esiste più, ma torna ad esistere ogni qualvolta un viaggiatore qualunque trova nel suo vagabondaggio “un musicista che ride e la sua angoscia che suona”.

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