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Il 19 marzo e l’onomastico che ti restituisce Peppe Tanzillo

In Copertina: Foto di scena di Antonio La Peruta

Dove sono nato e cresciuto l’onomastico non era da meno del compleanno. I nomi ci rendono unici e irripetibili, ci legano a Dio per sempre e noi gente del Sud lo teniamo sempre a mente. Il 19 marzo, San Giuseppe, mi restituisce intatto il ricordo di Peppe Tanzillo, un amico della periferia di Napoli.

PIACERE, PEPPE

Di quella lunga tavolata di Pasquetta nella primavera del 1988, che guardava in lontananza gli stabilimenti della Montefibre di Acerra e dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco, ero l’unico adolescente in mezzo ai più “grandi”. Giovanni, Tiziana, Umberto e Vittoria mi sedevano accanto, mi svestirono di quell’aria ingessata e mi fecero sentire a mio agio per tutto il pomeriggio. Tiziana, che sapeva della mia passione sfrenata per la lingua inglese, si alzò di botto, mi condusse dall’altra parte della tavolata e mi presentò un trentenne dalla faccia simpatica, allora insegnante di lingua e letteratura inglese in una scuola paritaria.
“Piacere, Peppe”, esordì lui e cominciò a declamare filastrocche in inglese come se fosse un attore girovago del teatro elisabettiano venuto da un tempo lontano. Io gli feci il verso e mi piantai a stonare il paradigma dei verbi irregolari come se fosse una canzone dei Beatles. Sulla fragorosa risata del “professore dal sorriso sornione” riconobbi il fratello maggiore che non avevo mai avuto.

SULLA STRADA DI PERIFERIA

Nonostante la distanza anagrafica e le diversità generazionali Giuseppe Tanzillo, in arte Peppe, è stato una delle persone più vere conosciute sulla strada di periferia, in un tempo extraterrestre in cui i legami si sedimentavano “miezz’a via” senza i filtri amorfi della globalizzazione digitale.
Peppe che correva avanti e indietro con le scartoffie scolastiche nella borsa in pelle; Peppe che mi suggerì il dizionario inglese delle frasi idiomatiche che avrei comprato a Londra anni dopo; Peppe che mi presentò la fidanzata – la mia amica Tania delle messe domenicali – e poi moglie per sempre; Peppe che prese dalla culla un fagottino, mi indicò il figlio Vincenzo e io “Vicienzo come Vincenzo Scarpetta?”; Peppe che mi prestò una moneta da 200 lire per telefonare da una cabina pubblica mamma infuriata che mi dava per disperso, mentre noi eravamo su una panchina a tradurre i sonetti di Shakespeare.

GIOSTRA TRA VITA E PERSONAGGI

Peppe, nella vita Giuseppe Tanzillo, ha custodito, dietro la giostra dei suoi personaggi e del suo trasformismo brillante in palcoscenico, l’autenticità della persona lontana dalla superbia e libera dai compromessi a cui è condannato chi deve apparire per non essere sé stesso.
In questa foto di copertina del 1996 – una sorpresa di Domenico Cantore autore del cortometraggio Blù in concorso al Festival del Cinema di Salerno e alla Rassegna Visioni Italiane della Cineteca di Bologna – mi ritrovo ventenne insieme a Peppe quarantenne. Sullo sfondo della periferia di Napoli da protagonista vestiva i panni, lungo lo scivolo di sogni e solitudini, di un fattorino di una piccola tv locale che consegnava i prodotti delle televendite.

MI SENTI, SONO IO…

Questa vecchia foto è incredibile, ci presenta con quelle “inguardabili canottiere” che restano l’anti-sex symbol di noi ragazzi del Sud di ieri, strafottenti del mito di cartone del latin lover.
Oggi, 19 marzo, guardo lo scatto con profonda commozione e mi sembra che il mio personaggio urli a Giuseppe Tanzillo “Mi senti, sono io, mi senti…” nell’assordante rumore di un’epoca frenetica che tende a spazzare via memoria e ricordi, offendendo il bene profondo.
Quando ho capito quale muro fosse a separarmi da Peppe Tanzillo, vi ho ritrovato scolpite queste parole:

Qui ove il fremito delle umani passioni non giunge ed ove l’insana malvagità degli uomini s’arresta, le lacrime e le preghiere dei defunti confortano e sollevano lo spirito.

Un giorno ci ritroveremo, sulla strada.

Interno giorno. Buon compleanno, Massimo

Mentre aspetto Massimo mi perdo nel labirinto di un archivio tra libri, film, ritagli di giornale. Ecco le foto, quelle che cercavo: all’Arci, a lezione, nelle battaglie civili, in bianco e nero negli anni delle contestazioni studentesche, delle lotte sindacali, in viaggio verso il Sudamerica, con un occhio di riguardo, fisso, verso i più deboli, mano nella mano con la sua donna, papà premuroso con i figli.

INTERNO GIORNO

Ah, eccoti. Sapevo che saresti venuto. Ti stupisce che sia passato a trovarti nel giorno del tuo compleanno? Gli uomini sono stolti quando ribadiscono che i compleanni prima o poi finiscono. No, durano all’infinito perché la nascita di ogni essere umano va ricordata senza remora temporale. E poi le nostre vite, Massimo, sono legate le une alle altre come il filo di un gomitolo di lana. Pensa alla mia se non ti avessi conosciuto? Sarei rimasto intrappolato nei film ingurgitati con la passione da ventenne.
Grazie alla tua amicizia e alle tue lezioni tutte quelle sceneggiature messe in fila sono diventate il grandangolare con cui osservare la vita.

Ti spiace se abbasso la tapparella? Non so perché ma in questo posto mi acceca la luce del sole. Ah, dici che è meglio uscire fuori sul terrazzo?

ESTERNO GIORNO

Avevi ragione, qui si sta bene. Da qui si vede tutta la Laguna, laggiù Malomocco e la casa di Corto Maltese, il Lido di Venezia dove trasformammo il sogno di “Villaggio Globale” in tanti corti. Massimo, da quante persone sei riuscito a farti voler bene. In realtà sembra la cosa più facile del nostro mondo, ma dire “ti voglio bene” è complicato perlopiù. Forse perché temiamo che l’altra persona lo reputi un atto tremendamente infantile o rimandiamo soggiogati dal pudore, puntando a chissà quale momento migliore. Non è una fragilità dirlo, ad alta voce, è una liberazione verso chi ci sta davvero a cuore.

Volevo portarti un regalo di compleanno, ma il portiere al piano terra mi ha detto che non potevo. In realtà mi ha ricordato che il regalo me lo avevi fatto tu indicandomi nel sogno dell’altra notte la strada per venire a trovarti. E’ come se avessi perso il conto del tempo salendo in ascensore. La lunga salita mi ha stordito.

INTERNO NOTTE

Da piccolo avevo paura del buio. Mio padre mi rassicurava e mi indicava il punto luce nel fondo della stanza. Non dovevo arrendermi. Stropicciando gli occhi dal punto luce vedevo la proiezione di un’ombra. Ora capisco, eri tu, sei stato l’ombra di papà. Ecco sono venuto a dirtelo.
Ho avuto la fortuna di avere un papà biologico meraviglioso a cui devo tutto, ma tu sei stato per certi versi la continuazione. Quando quella volta mi mise su un treno regionale Napoli-Roma per venire da te, papà instaurò una congiutura tra lui e te: avevate tante battaglie in comune perché sapevate il prezzo del futuro.

ESTERNO NOTTE

E’ arrivato il momento di spegnare le candeline. Come, qui non ci sono candeline? Ah, capisco qui soffiate sulle stelle. Massimo, ho impiegato 48 anni e ora mi è tutto più chiaro: l’accensione e lo spegnimento delle stelle ad intermittenza non è un effetto ottico, ma l’indicazione che da voi quassù qualcuno stia spegnendo le candeline di compleanno. Non si finisce mai di imparare.
Massimo, Massimo, Massimo. Lo senti il suono del carillon nell’angolo? Quello è un motivetto conosciuto… non mi vengono in mente le parole, qui da te confondo tutto. Ah sì, eccole…

Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole

Mentre il mondo sta girando senza fretta

Lo canticchierò guardado negli occhi la tua nipotina Alice, appena avrò la gioia di conoscerla, e le dirò che sei il nonno più orgoglioso dell’universo. Massimo guarda, nella tasca del jeans c’è finita una candelina…Aspetta l’accendo, perché tu sei stato e sei un punto di riferimento nella vita per tanti di noi.
Ora vado, mi sembra di sentire sulla spalla la tua mano proprio come il giorno in cui sei partito. Aiutami a trovare la strada del ritorno.

Massimo, ho deciso. Verrò a trovarti il 4 settembre di ogni anno e il tuo compleanno sarà un pretesto per dare continuità al nostro dialogo. Ora vado…

Buon compleanno, Massimo.

Ciao Giacomo, compagno di classe per sempre

I banchi del vecchio Liceo Imbriani di Pomigliano D’Arco, alla periferia di Napoli, custodiscono incisi nel legno i nostri nomi, Giacomo. Un compagno di classe resta per sempre e tu lo sai bene.
A quasi 30 anni dalla Maturità della nostra III F, che ci eravamo ripromessi di festeggiare alla grande, non è cambiata una virgola nel nostro legame nato negli anni di scuola.

TRA LA SALSEDINE DEL MARE E LACRIME SALATE

I sogni, le bravate, le lezioni condivise, la vita di allora sono sulla via che portava al liceo perchè come diceva Heinrich Böll “Forse non è a scuola che impariamo per la vita, ma lungo la strada di scuola.
Giacomo, in questa maledetta domenica di fine agosto la salsedine del mare si confonde con il sale delle lacrime. Quando bisognava organizzarsi per rivedersi eri sempre pronto e così mi hai scritto tanti anni fa:

“Rimpatriata? Magari. La voglia di rivedervi tutti è davvero tanta.”

Sbobbino e sbobbino ricordi, si attorcigliano sul nastro del vissuto, sono tanti, sono troppi. Sbucavi con la videocamera, partiva il REC, mi piazzavi a fare l’intervistatore, sei sempre stato un’archivista della memoria e sapevi in anticipo che quei giorni spensierati sarebbero stati una delle tappe più belle in questo viaggio incredibile che è la vita.

UNA RADICE DELL’ALBERO DELLA NOSTRA VITA

Giacomo, se dicessimo “i migliori anni della nostra vita” peccheremmo di fottuta nostalgia , se diciamo invece una radice dell’albero della nostra vita piantiamo la speranza di ritrovarci, da qualche parte, nell’universo.
Singhiozzo e scrivo, ho tirato fuori il disco di Elton John Live in Australia. Fino ad allora ero abituato ai vinili, tu mi hai mostrato per la prima volta un CD. Lo avevi portato dall’America e in quel momento non so perché le canzoni di “Rocket Man” sono entrate con prepotenza nella mia vita, all’alba degli anni ’90.

DON’T LET THE SUN GO DOWN ON ME

Gli Stati Uniti sono stati la tua seconda casa e, quando ci vedevamo al Parco Arcadia a Pomigliano insieme a Valeria, Marina e Sandro, me li facevi vivere a distanza attraverso i tuoi racconti. Il mio viaggio a New York nel ’92, subito dopo la Maturità, non ho potuto fare a meno di condividerlo con te: Giacomo, tu sapevi che per me era stato come sbarcare sulla luna.
Giacomo, mi senti? Ho ancora la vecchia musicassetta registrata da un tuo CD. George Michael e Elton John stanno cantando per te Don’t Let the Sun Go Down on Me, uno dei tuoi brani preferiti. Il volume è altissimo come le voci di tutti i compagni della III F dell’anno scolastico 1991/1992. Non finiremo mai di dedicarti un pensiero. Tu continua a regalarci il tuo sorriso sornione e la voglia di vivere.

Adesso capisco perché stanotte non riuscivo a dormire. Mi mancava il respiro. Era il tuo, era il nostro, compagni di scuola per sempre. Ti voglio bene.

WhatsApp e i legami affettivi tra ruggine e artificialità

Nel mondo oltre 3 miliardi di persone smanettano su app di messaggistica. Il Covid-19 ha contribuito al rialzo pazzesco di piattaforme come WhatsApp che solo in Italia nel 2020 è stata usata da 33 milioni di utenti (Fonte: Audiweb-Nielsen). Quanti utilizzano WhatsApp per tenere in caldo un legame affettivo, un’amicizia, non so una conoscenza?

LEGAMI TRA AUDIO FARFUGLIATI E CATENE DI SANT’ANTONIO

Il distanziamento sociale della pandemia ci ha impoltroniti e, cavalcando l’onda di quella stizzinosa indolenza, ci siamo tirati la zappa sui piedi: ridurre i legami affettivi a uno scambio di messaggi estemporanei, audio farfugliati, catene di sant’antonio che il più delle volte pisciano umorismo insulso, rimbalzi di foto come le noccioline che davamo in pasto agli scimpanzè allo zoo negli anni dell’infanzia.

SCIMMIOTTIAMO LA GENERAZIONE ALPHA DEI NOSTRI FIGLI

Ci siamo impigriti nelle relazioni e pensiamo che il gruppo su WhatsApp ci abbia messi al riparo dal vedere in cocci quei legami su cui pensavamo di campare di rendita. Scimmiottiamo la generazione Alpha dei nostri figli, apprendista stregone di contatti tutto sommato artificiali.
Infatti, le generazioni nate sotto l’ombrello della messaggistica istantanea sono stati svezzati da genitori che comunicavano con gli altri abbrozzandosi con la luce artificiale dello schermo di uno smartphone spiattellato in faccia.

VIA IL BUONISMO CHE ASSECONDA COMPAGNIE DA WHATSAPP

Quelli della mia generazione sono cresciuti sotto un’altra luce, il sorriso illuminante di quando papà e mamma trovavano il tempo per frequentare le persone a cui tenevano, coltivare i legami, affrontare la vita con una condivisione costruttiva che si ripercuoteva anche sulla nostra vita sociale.
Si generalizza dando sempre la colpa ai cambiamenti sociali, alla routine supersonica che ci stritola come sardine, al tempo che non è mai abbastanza, come se poi non fossimo noi i padroni del nostro tempo.  Basta con questo buonismo ipocrita che specula sui sentimenti e riprendiamoci un pizzico di vena polemica per vedere le cose come stanno: le minacce della solitudine dopo l’autoconvincimento che l’intensità delle nostre amicizie via WhatsApp sia direttamente proporzionale alla crescita delle visualizzazioni dei nostri stati.

Nei legami non esistono diritti acquisiti o tramandati. Non era chiaro neanche ai parenti che reclamavano attenzioni e considerazioni sula base di quest’ultimi. Parafrasando Kingsmill che ripeteva “Gli amici sono il modo in cui Dio chiede scusa per i parenti”, potremmo chiudere il cerchio così: I legami arrugginiti via Whatsapp sono il modo in cui siamo ingrati verso Dio per averci donato amici veri.

Torniamo ad essere costruttori di legami autentici.

Diario di viaggio: Neve a Napoli e la spalata di ricordi di Burian

“Chi tene ‘o mare nun tene ‘a neve” non è la rivisitazione di un verso di Pino Daniele quanto la consapevolezza di chi una nevicata l’ha vista di rado nei luoghi in cui è cresciuto. Nel lontano 1985 Napoli e provincia furono totalmente imbiancate ed io, insieme ad alcuni compagni di classe delle scuole medie, rischiai una sospensione per essere scappato in cortile.

I meno audaci tra noi si accontentarono di guardarla dalla finestra, noi no, ci chiedevamo cosa si provasse ad avere quella coltre bianca tra i capelli. Noi quattr’occhi alzammo gli occhi al cielo e ci ritrovammo gli occhiali appannati. L’effetto della neve che si scioglieva sule lenti sembrava una magia bella e pronta. Quel pomeriggio dell’85 volevamo non finisse mai.

Dopo 33 anni esatti Burian, il gelido vento siberiano, fa visita a Napoli nello stesso giorno in cui mi trovo io di passaggio: questa nevicata intensa da una parte seppellisce strade, tetti delle case, o nasconde macchine, dall’altra spala i ricordi. In questo lasso di tempo della mia vita fatta di viaggi e vagabondaggi ne ho vista tanta di neve, ma non è la stessa che si appoggia nei posti in cui sei cresciuto.

La neve non prende forma, piuttosto dà forma ai ricordi e produce quella condensa che non fa rumore e si deposita negli angoli più fitti dell’anima: penso all’ultimo fischio del ferroviere Giovanni che se n’è andato per sempre dopo la bufera o al medico di stamattina che ha condiviso con me un fotogramma della fioccata dell’85, vissuta da neolaureato volontario in ospedale, bloccato in un autobus al Vomero.

La neve si ghiaccia sui marciapiedi e il rischio più grande è la scivolata. Io e Pasquale, amico dai tempi dell’adolescenza, siamo scivolati sul ghiaccio dei ricordi con la matura presa di coscienza che rinchiudersi in sé stessi è uno dei morbi più pericolosi di questo tempo.
Burian ha piegato l’Italia nella morsa del gelo e ha restituito alla mia generazione che visse la nevicata dell’85 a Napoli il ritrovarsi nel nome dei sogni comuni difesi a denti stretti come la scorciatoia per tornare ad ascoltare i passi della vita che qualche volta come la neve non fanno il minimo rumore.

Aveva ragione Giovanni il ferroviere quando disse a me e al figlio Antonio, nel cortile di casa sua, che al di là dell’euforia da ventenni l’amicizia con le radici non evapora. “Chi tene ‘o mare nun tene ‘a neve”, ma chi sa dialogare con la propria memoria senza rimorsi e rinnegamenti saprà incantarsi ancora di fronte alla prossima nevicata, a Napoli, nei posti che ti hanno reso l’uomo che sei.

“Stupendo, mi viene il vomito… Non lo so se sto qui o se ritorno.”

Svolta in quella strada. Rallenta, lo vedi il perimetro in cui ci siamo giocati la partita dell’infanzia, tra casa tua e quella di nonna? Forse questi trentott’anni d’amicizia li abbiamo fatti correre troppo velocemente come degli acrobati accovacciati tra le corde della strafottenza che ci accomunava.
Non era superficialità la nostra, piuttosto la leggerezza ribelle che ci ha fatti crescere sovversivi nella provincia mediocre infangata dal vivere per apparire.

Guardando una fotografia
mi rendo conto che il tempo vola
e che la vita poi è una sola…
E mi ricordo chi voleva
al potere la fantasia…
erano giorni di grandi sogni… sai
erano vere anche le utopie.

Fermati al semaforo anche se è verde, così i clacson delle auto impazzite orchestreranno l’ennesimo concerto del fuje fuje.
Guarda, alla tua sinistra, la panchina di via Diaz dove ti venivo a cercare nelle serate di giugno stiracchiata su quella vespa bianca. I tramonti d’estate, che avevano spettinato la fine dell’anno scolastico, ci facevano galoppare sui nostri sogni, sul futuro difeso a denti stretti, niente ce lo avrebbe scippato, neanche la morte.

Ma non ricordo se chi c’era
aveva queste queste facce qui
non mi dire che è proprio così
non mi dire che son quelli lì!

E ora che del mio domani
non ho più la nostalgia…

Andiamo contromano, non c’è nessuno in quella piazza, ci siamo io, tu ed Elisabetta che cantiamo a squarciagola Stupendo di Vasco, proprio come in quella sera d’autunno in cui la gente ci guardò come se fossimo ammattiti.
Poi sulla via del ritorno, dal sedile anteriore della mia 127 ciondolante, mi sussurrasti: “Ti piace la mia amica?”. Fu allora, sull’onda dei miei vent’anni, che mi convinsi: tu sapevi leggermi dentro, perforavi il mio cuore come solo una ragazza sa fare con un caro amico.

E cosa conta “chi perdeva”
le regole sono così
è la vita ed è ora che cresci!
devi viverla così…

Rallenta pure, guarda gli alberi, le foglie morte, come hanno ridotto il paesaggio della nostra adolescenza.
Li vedi quei faccioni sui cartelloni giganti che elemosinano voti per le prossime elezioni amministrative? Sono figli e nipoti di coloro che svendettero il diritto alla vita e alla salute in cambio di potere, poltrone, incarichi, posti di lavoro. Gli spargimenti di veleno nella nostra terra oggi generano morte senza pietà.

Però ricordo chi voleva
un mondo meglio di così!
ancora tu che ci fai delle storie…(ma dai)…
cosa vuoi tu più di così…

Siamo arrivati. Cosa fai, scendi dall’auto? Non chiedermi di guidare, di tornare indietro da solo nella terra dei fuochi governata da assassini in giacca e cravatta, non ce la faccio, sei la mia vita, sei la mia famiglia.

Mi viene il vomito,
è più forte di me
non lo so
se sto qui
o se ritorno.

Aspetto qui. Non voltarti indietro, Maria Grazia. Che luce abbagliante, allora Dio esiste davvero.

Starsky e Hutch, si può essere amici per sempre?

Mi ha profondamente commosso uno scatto che da qualche giorno circola in Rete: un anziano signore dell’età di mio padre spinge la carrozzella dell’amico. Non sono due persone qualunque Paul Micheal Glaser e David Soul. La loro fama di attori è aver prestato il volto sul piccolo schermo a Starsky e Hutch, protagonisti della famosa serie televisiva dell’ABC che quelli della mia generazione aspettavano con trepidazione per continuare a sognare il primo viaggio negli USA.

Mentre i social network ci vomitano addosso scenette casalinghe di finti legami, pane per i denti del voyeurismo facebookiano, due vecchie glorie del cinema e della televisione americana sanno darci una bella lezione: le amicizie vere e durature possono nascere anche sul posto di lavoro, su un set televisivo dove lo star system fagocita competizione sfrenata, peggio del veleno dei serpenti, mettendo in secondo piano i valori dell’amicizia.

Oggi si può essere ancora amici per sempre? Questo bell’andare di corsa e chissà in quale direzione non è consolante perché abbiamo smesso di guardare negli occhi l’altro.
Ci accontentiamo di scarti, di misuratori virtuali, senza volere ammettere che qualsiasi tipo di legame, un’amicizia in primis, deve seguire le orme e i passi della trasformazione, della crescita e del cambiamento di ciascuno.

Paul, attraverso la spinta di quella carrozzella, ha prestato le gambe a David ricordandogli che, se papà da piccini ci faceva salire sulle spalle per riuscire a guardare il mondo, un amico autentico ti presta volentieri “le sue gambe” per farti percorrere l’ultimo miglio. 

Sì, può essere amici per sempre? Non occorrono trattati o le solite canzoni da masticare come un chewingum. Questo scatto può farci fare qualche considerazione, perché non si tratta né di un vezzo di tenerezza né di un fotogramma di Starsky e Hutch con la mano abile di uno sceneggiatore. Sono Paul e David, due amici cresciuti l’uno sulle orme dell’altro, in un arco di tempo che si chiama vita.

Ciao Antonio, amico e dono della “strada” di periferia

antonio-amico-strada

rosario_pipolo_blog_2Ci ho messo mezza vita per bollare la consapevolezza che la strada mi ha donato la maggior parte delle persone che hanno abitato la mia esistenza. Non ho detto un condominio, un appartamento, il terzo piano di un palazzo. Ho detto la strada, una strada di periferia, punto. L’infanzia ti dona gli amici, ma poi con il passare del tempo te li sottrae.
La strada no, li spinge tra le braccia della quotidianità e li lascia vivere lì, in un angolo, anche quando te ne vai, anche quando sei dall’altra parte del mondo, illudendoti che nei posti in cui sei cresciuto tutto resti immobile e la memoria sia protetta da una forzuta campana di vetro.

Quella con Antonio è stata un’amicizia fiorita per strada, lì alla periferia di Napoli, anche se con suo fratello minore c’eravamo conosciuti tra i banchi dell’asilo. Con il passare degli anni mi divertiva il fatto che io e Antonio avremmo potuto comunicare con i segnali di fumo, perché i nostri balconi erano dirimpettai in linea d’aria.

Il posto dove lo rincorrevo era un polveroso campetto di calcetto, soprannominato da noi ragazzini “campetto dell’Avis”, perché si trovava a pochi passi dall’associazione dei volontari donatori di sangue. Io con il pallone non c’entravo nulla, ero assolutamente imbranato e l’unica scusante era il destino da piccolo occhialuto “quattr’occhi”. Antonio era sempre garbato in occasione di quelle poche partitelle in cui mi tiravano dentro.
Quando anni dopo lo ritrovai con i fratelli a gestire un negozio di noleggio video – lì respiravo l’atmosfera del film indipendente Clerks – me ne uscii con questa battuta per cui mi attribuirono un futuro da pubblicitario: “Altro che Warner Bros, tutt’altro cinema con i Cerbone Bros”.

Antonio prese in sposa una mia adorata compagna delle scuole elementari ed io mi convinsi che “la strada” era capace di cucirti addosso una nuova famiglia, fatta da quelle stesse persone che costellavano la tua quotidianità e soltanto in apparenza erano delle comparse.
Le amicizie da strada,
come quelle tra me e Antonio, non hanno niente a che fare con queste odierne misurate tra i mi piace convulsi di Facebook o le logorroiche chat di WhatsApp. Erano tutt’altra storia, avevano il tanfo dell’asfalto, il rialzo di un lungo marciapiede, il recinto di una panchina dove ritrovarsi a chiacchierare e spingere i sogni di quelli della nostra generazione.

Il dolore e la rabbia ti assalgono quando ripensi all’ultima volta che lo hai incontrato, qualche anno fa, senza immaginare che quella sarebbe stata l’ultima. Nessuno ti avverte quando un’amicizia da strada finisce lassù, perché nessuno immagina quanto conti ancora davvero per te.

Adesso chi glielo dice ad Antonio che non ho mai smesso di volergli bene? Gli ho fatto un bel dispetto per questo doloroso scherzo, ho fregato una sua bella foto. La guardo e me lo ritrovo accanto in una notte milanese. Piango lacrime di marzo. Sono sempre io, l’amico di strada con i capelli brizzolati, occhialuto come allora.

Graph Search: Professione investigatore con il motore #kazziemazzi di Facebook

Rosario PipoloChissà se quelli di Facebook con il nuovo Graph Search ce la faranno fare addosso. Il motorino social, al momento disponibile per pochi eletti in versione beta, sarà l’aggeggio cool per farsi “kazziemazzi” degli altri. E se community come Badoo già lo temono perché potrebbe essere una scorciatoia per mettersi a caccia dell’anima gemella, noi invece ci chiediamo: chi di noi resisterà alla tentazione di violare la privacy per vestire i panni di un segugio vigile?

Beh, con un po’ di astuzia e manualità, non c’è bisogno di Graph Search per mettersi a caccia di notizie. E a dirla tutta non sono tanto gli status, perlopiù protetti, ma gli album fotografici che restano quelli più vulnerabili. Magari tra giri e lunghi raggiri, passando dall’amico dell’amica, ti trovi in mano quella foto e quel commento datato, capaci di metterti la pulce nell’orecchio: verità di mesi prima che diventano improvvisamente bugie surgelate. Adesso con il nuovo motore social messo a punto da Mark e compagni sarà più facile avere una planimetria della popolazione faisbucchese – neologismo troppo kitch? – soprattutto di quella parte di utenti che si sbottona fino alle mutande.

Da una parte ci sono le rassicurazioni in merito alla privacy perché nell’occhio del ciclone ci saranno solo i contenuti pubblici, dall’altra le vecchie volpi social che storcono il naso. Il modo per spostare muri di gomma si trova prima o poi, perché dopotutto nella piazza di Facebook “chi cerca, trova”. Tuttavia, anche quando finiremo per essere vittime dell’autolesionismo investigativo, Graph Search sarà l’ennesimo buco nell’acqua per ciò che riguarda il valore dei legami. Mica la sintonia e il plusvalore di un legame di coppia o d’amicizia si riduce al numero dei “like in comune” o di una manciata di foto condivise, in puro stile esibizionista?
I più miopi sguazzeranno nelle acque torbide del motore #kazziemazzi, illudendosi di riscattare legami scaduti da tempo. Rinunceranno per l’ennesima volta all’unica affinità che solo la realtà può restituirci: quella del tempo che non abbiamo svenduto pur di stare assieme.

Facebook, l’osservatorio “osservato” delle amicizie quaquaraquà

Facebook è la gogna per smantellare le finte amicizie, quelle che sono state allevate con l’abuso del codice del clan: la parità regge la calma apparente. Per riflesso è la bacheca del social network più insidioso a diventare il ring dello scontro. Prima era il baretto lounge del paesotto dove ci si incontrava, sorseggiando drink e ripetendo a pappardella la filosofia buonista di “Eravamo quattro amici al bar”.

Ecco la trappola bella e pronta, quella del social: il fine giustifica il mezzo. Gli status smielosi di un dì, le chattate notturne, le fotine con le facce da bell’inbusti hanno ceduto il posto a frasette acide, inciuci nottambuli e nuovi scatti, che raccontano di nuove alleanze. Non bisogna essere uno strizzacervelli smanettone o un sociologo web-oriented per capire che è Facebook a scrivere le nuove regole del gioco e non gli ambasciatori inviati su commissione, che se ne tornano off-line con la coda tra i tasti del Pc.

Basta un pò di chiacchiericcio dai toni accessi e il branco è spacciato (“gruppo ristretto” secondo il glossario social). Chi se ne va cresce, perché fuori dal gioco della “comunella infantile” diventa osservatore privilegiato della meschinità, sintomo di fragilità e inferiorità degli illusi capoclan, ammazzati dalla vergogna per l’umiliazione da bacheca. Chi rimane isolato nel branco è condannato ad essere l’osservato sconfitto che canticchia “Adesso siamo pochi amici al bar”.

E quando quest’ultimo staccherà la spina dal social network, sarà la lealtà  – l’unica allevatrice delle sane amicizie – ad infastidire l’olfatto con quel puzzo di piscio, che renderà ancora una volta l’osservato sconfitto un servo di plagi, ventriloquo di libri mai letti. E’ arrivata l’ora. I messaggeri di pace si rassegnino: il branco é davvero spacciato. Pardon, “il gruppo ristretto degli ex compagni di merendine da discount”.

 Facebook, dunque sono.

 Amicizie su Facebook…

 Così finisce l’amicizia su Facebook