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Ognissanti: I morti non mi fanno paura, le streghe non le digerisco, i vivi mi lasciano indifferente

Da piccolo la vigilia di Ognissanti significava prepararmi ai due giorni che in famiglia avremmo dedicato alla visita dei nonni al cimitero. Non ricordo maschere, dolcetti o scherzetti, ma un’insolita compostezza che noi piccoli percepivamo: la morte è una cosa seria. Lo ribadiva pure Antonio De Curtis – in arte Totò – nella splendida poesia ‘A livella.

Mano a mano che crescevo, vivevo il doloroso distacco da alcune persone che avevano attraversato o sfiorato la mia vita. Il 1 e il 2 novembre me ne andavo da solo a visitare le loro tombe e condividevo i miei pensieri con ciascuno, sperando che non si riducesse tutto ad una lapide, ma che altrove ci fosse uno spazio che accogliesse lo spirito dei miei cari.

Mi importava poco di ciò che dicevano ai miei genitori: “Un ragazzetto non dovrebbe andarsene a zonzo in un cimitero”. Qualcuno sospettò che mi mettessi a caccia di fantasmi. Una volta, il 2 novembre  ritardai l’uscita, perché capitai in un lato del camposanto a me ignoto. Non c’era più luce del sole, neanche le lapidi si distinguevano. Per un attimo ebbi paura. Lo sguardo si posò sull’immagine di un mio coetano, scomparso prematuramente.
La paura scemò appena notai che non vedevo più gli ornamenti sfarzosi dei sepolcri o le cappelle bunker, che evocavano stupidamente l’atteggiamento classista dinanzi alla morte.

Ad illuminare la strada verso l’uscita furono tutti quei lumini, che mi restituirono la sobrietà della morte, calpestando la volgarità e il folclore umano. Da allora i morti non mi fanno più paura e mi lasciano indifferente i vivi che strascicano l’arte dell’apparire oltre la soglia del camposanto.

 Totò recita ‘A livella

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte

Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Non tocca più solo ai personaggi famosi – criticano noi giornalisti e blogger perché tiriamo fuori dal cassetto “il coccodrillo” su misura – e alle vittime dei fatti di cronaca, ma a chiunque se ne vada all’altro mondo. Mi sembra di essere tornato nei piccoli paesi. Tutti mormoravano nella lettura del manifesto del defunto per capire chi fosse, a chi appartenesse (guai se il tipografo ometteva il soprannome per cui era conosciuta la famiglia), e se poi era un giovane strappato alla vita cominciava la litania collettiva. Eppure non si capiva bene se questa ostinata partecipazione comunitaria al dolore fosse la sindrome paesana dell’appartenere tutti alla stessa razza o si riducesse a una curiosità folcloristica che ci mette poco a diventare cialtroneria inviperita.
Torno a ripeterlo: le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Appresa la triste notizia, la morte diventa “social”: trovi un messaggio che ti invita ad andare su una tale bacheca per guardare la foto taggata, accertarti chi fosse il malcapitato e lasciare il tuo messagino di cordoglio o uno degli aforismi mielosi e preconfezionati che circolano nei social network. A questo punto mi permetto di suggerire alle pompe funebri la vendita di un nuovo servizio: una fan page-lapide o la gestione post-mortem del profilo della persona scomparsa secondo i canoni dell’animazione del villaggio turistico “facebookiano”, anzi pacchiano (fa pure rima!).
Il dolore è troppo serio per finire spiaccicato nella piazza rumorosa della rete; il dolore è privato e tale deve restare, e non può essere vissuto come un passaparola, ma con le persone a cui ci sentiamo davvero vicini. E i legami non si costruiscono sul quantitativo di pseudo-amici che abbiamo in rete, ma nella realtà che ci porta a condividere le emozioni e ci mormora l’amaro “fujetevenne” eduardiano da queste visioni grezze e meschine, a cui mi ribello da quando scalpitavo nel pancione di mia mamma.

Cartolina da Napoli senza francobollo per Enzo Cannavale

L’ultima cartolina da Napoli arriva in ritardo di proposito. E lui, Enzo Cannavale, mi può capire perché negli anni ’50 del secolo scorso faceva l’impiegato alle Poste. L’ho spedita senza francobollo perché volevo che arrivasse dopo la notizia, il clamore, gli elogi funebri, il chiasso che facciamo quando qualcuno ci lascia, con il rischio che il tempo ci metta del suo e ne cancelli le tracce. Non esistono attori di serie A e serie B, non esistono attori comici o attori tragici, esistono gli attori: coloro che ogni sera indossano una maschera per far capire a noi comuni mortali che nella comicità della quotidianità si insidia una profonda tragicità.
Durante la mia irrequieta adolescenza, dedita completamente al teatro, Enzo Cannavale mi ha insegnato che a rendere professionista un attore non è soltanto la padronanza tecnica e la presenza scenica, ma l’umiltà che genera l’istinto dell’arte. Me lo faceva capire come se fosse una litania tutte le volte che mi nascondevo dentro il suo camerino, azionavo il mangianastri per registrare le nostre chiacchierate. E lui, dopo un pizzicotto bonario sulle guance, mi ripeteva: “Guagliò, stai ancora cca’ a perdere tiempo con me?”. Fu proprio allora che me ne scappai dal divismo ridicolo delle piccole compagnie di periferia, che dietro il sipario del teatro amatoriale, si pavoneggiavano nell’arroganza di fasulli capocomici che erano tutt’altro.  
Crescendo però ho assorbito l’amarezza: Cannavale di schiaffi in faccia ne ha presi e forse pure tanti, perché una volta chi faceva l’istrione per mestiere doveva lottare con la prepotenza di tanti capocomici. Una sera, al termine di uno spettacolo a fianco di donna Luisa (Conte) al Teatro Sannazzaro di Napoli, gli proposi di mangiare una bomba calda alla Nutella a piazza San Pasquale. E lui, uomo dalla battuta sempre pronta, mi rispose: “Guagliò, potrei capire un caffè, e tu cu na’ cos ‘e chella tanta me vuo’ fa’ saglì ‘o colesterolo ‘a mille!”.
L’ultima volta ci siamo incontrati prima che mi trasferissi a Milano, in occasione della Cantata dei Pastori, e mi rimproverò con una carezza: “Mmo’ pure tu te ne vai, e chi resta cca’?”. Caro Enzo, io me ne sarò pure andato, ma tu a Napoli ci sei rimasto per sempre, anche adesso che gli altri pensano che tu stia fermo al camposanto. Io lo so dove sei: lì sul terrazzino di casa tua, a goderti il tuo caffè caldo e a sbirciare il giornale, tra le coccole di tua moglie e i baci dei tuoi figli, mentre il golfo di Napoli si acquieta nei tuoi occhi.

Io sto bene senza Halloween!

La notte di Halloween

Rosario PipoloAl di là delle tendenze o dei capricci modaioli, non mi sono mai affezionato ad Halloween. A dire il vero quella volta che papà mi regalò una zucca con occhi, naso e bocca, non pensavo fosse il simbolo di questa festività, che continua a fare impazzire gli americani.  E ora che gli italiani ci vanno dietro, dalle prime settimane di ottobre dobbiamo sorbirci le vetrine allestite per accogliere nel migliore dei modi la notte delle streghe. Dolcetto, scherzetto o business folcloristico?

A casa mia, appena sbucava la vigilia di Ognissanti, ci preparavamo a condividire i giorni successivi con i nostri defunti: il 1 e il 2 novembre dalle mie parti si andava al camposanto. Le streghe e gli zombi mi fanno ancora paura  – e tanti anni fa ne ho dibattuto simpaticamente con il regista George Romero – ma i morti no.

Loro sono da tutt’altra parte, lontani dalla viltà e dalla fragilità umana. Quest’anno volevo andare controtendenza e far baldoria la notte di Halloween. Ho cambiato idea perchè in fondo non me ne frega niente. Non voglio rinunciare a fare un po’ di silenzio attorno a me e trovare il tempo di raccogliere un crisantemo.

Non voglio privarmi della speranza che il profumo di quel fiore raggiunga tutti coloro che oggi mi mancano profondamente. E loro non sono “zombi”, ma “vivi più che mai” sulla giostra della memoria. E pensare che il ricordo dei momenti speciali condivisi con i miei defunti trasforma ancora le mie notti buie in giorni soleggiati!

Napoli, Totò e l’oltraggio al cimitero cittadino

tomba150Ha destato scalpore la notizia di alcuni giorni fa del furto dello stemma nobiliare sulla tomba di Totò. Nessuno si sarebbe mai aspettato che i napoletani oltraggiassero il luogo dove riposa il Principe del sorriso. Per fortuna l’oggeto è stato ritrovato, ma Liliana De Curtis picchia duro e minaccia di chiudere il sepolcro. Comprendo l’indignazione e la rabbia, ma privarci di porgere il nostro omaggio a questo grande artista sarebbe un grave errore. Piuttosto bisognerebbe mettere in discussione la pessima gestione del cimitero da parte del comune di Napoli.  E non mi riferisco soltanto all’area del monumentale, ma anche a quella del “cimitero vecchio” tra Poggioreale e la Doganella. Ci sono passato alcuni giorni fa a visitare i miei nonni e ho ritrovato alcune zone totalmente abbandonate. A questo punto mi chiedo: non è forse più “oltraggioso” il totale disinteresse da parte delle istituzioni locali e la strafottenza di alcuni dipendenti a tutelare lo storico cimitero cittadino? Eduardo De Filippo aveva ragione a sostenere che “i vivi fanno più paura dei morti”. In questo caso, aggiungerei infangando la memoria dei nostri cari defunti!

Terremoto in Abruzzo, tutta colpa di una vignetta di Vauro?

vauro150La scomunica del vignettista Vauro Senesi dalla trasmissione Annozero non servirà né a lenire ferite né ad aiutare chi è rimasto senza tetto. Sono deluso dal questo teatrino televisivo all’italiana, da un professionista come Michele Santoro che continua a fare la vittima di una “dittatura persistente”. La libertà di satira è un sacrosanto diritto, ma per me quella caricatura sull’aumento delle cubature dei cimiteri si poteva evitare. Il terremoto dell’Abruzzo ha riunito l’Italia per pochi giorni, ma adesso ognuno è tornato al suo destino: o sei di Destra o sei di Sinistra, e non c’è via di scampo. Appena esprimi un’opinione finisci nel calderone. Che lo spettatore torni ad avere il diritto di contestare perché c’è anche chi quella vignetta non l’ha mandata giù. Il problema è un altro: è necessaro trasformare tutto in un caso politico? Vauro è comunque un artista e un creativo che merita rispetto per il suo lavoro. A me sono piaciute due caricature: “Gli sciaccalli si aggirano tra le macerie, i lupi invece aspettano gli appalti delle ricostruzioni!” e “Si poteva prevenire? Pare fossero troppo impegnati a prevenire quello della Borsa”.  Censurare non è una soluzione spicciola e approssimata? Al di là della “vignetta offensiva”, qui quello da censurare è Bruno Vespa con il suo piagnucolio da chierichetto: il patron di Porta a Porta dovrebbe rileggere la sua scheda nella Garzantina della Televisione curata da Aldo Grasso!

‘A livella e gli eccessi del 2 novembre

“Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll’adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero.” Per chi non li avesse riconosciuti, questi sono i primi versi di ‘A livella, meravigliosa poesia scritta da Antonio De Curtis, in arte Totò. Il Principe del sorriso ci ha donato una suprema riflessione in versi: volendo o non, dinanzi alla morte torniamo ad essere tutti uguali. Per me il 1 e il 2 novembre sono giorni particolari. Nella mia famiglia li dedicavamo ai nostri defunti, non tanto per fare “lo struscio” al cimitero, ma per pensare ai nostri cari che non c’erano più. Nei cimiteri del Sud vivevo quasi un’aria di festa, vedendo fin da piccolo migliaia di persone assiepate ovunque. Peccato però che poi durante l’anno c’era il deserto. Non sono qui per discutere sulla scelta di visitare un defunto al cimitero, piuttosto sulle lotte inutili per acquistare la cappella di famiglia, per avere la lapide più bella o svuotarsi il portafogli a tutti i costi per il sovraccarico di fiori. Questo atteggiamento tra folclore e mania di protagonismo – per non parlare dei titoli ed appellativi che notavo sulle lapidi- mi ha sempre stizzito, anche oggi che vivo lontano da Napoli. De Curtis concludeva così: “Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie… appartenimmo â morte!”. Nel piccolo cimitero della provincia di Napoli, dove sono sepolti i miei nonni paterni, ho osservato anno dopo anno gente che voleva affermare il suo ruolo sociale anche al di là di quel cancello. Alla faccia di quella mentalità feudale e delle famiglie borghesotte e provinciali, io preferisco ancora un petalo di rosa e un crisantemo per ricordare che la morte è una cosa troppo seria. Smettiamola di trasformare il 2 novembre in una farsa carnevalesca!