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Cartolina d’estate: Gina Mastrangelo, capotreno Trenitalia medaglia al valore

Rosario PipoloUna domenica sera caotica sulla linea ferroviaria Ancona-Bologna a causa di un guasto tra Forlì e Bologna. I passeggeri temono che possa ripetersi il tracollo di una settimana prima: passeggeri in ostaggio in treno per tutta la notte a causa di un nubifragio a Firenze.

Questa volta i treni si limitano ad accumulare ritardi tra i 60 e 90 minuti, facendo perdere a tanti viaggiatori le ultime coincidenze per ritornare a casa. Sul Regionale Veloce 1734 in direzione Milano alla stazione di Bologna sale un capotreno occhialuto.
E’ una donna minuta, sulla trentina. A conti fatti a Milano Centrale arriveranno diversi passeggeri, tra cui anche un minorenne, condannati a trascorrere la notte in stazione: addio treni per attraversare la stessa Lombardia, raggiungere il Piemonte o il Veneto.

Gina Mastrangelo – è il nome del capotreno in questione-  va su e giù per i vagoni, telefonando in Centrale a Milano per risolvere la criticità. Trenord, la società costituita da Trenitalia e Ferrovie Nord che gestisce il trasporto ferroviario in Lombardia, rimbalza la patata bollente a Trenitalia. Due società che dividono l’Italia lungo il Po con una carta dei viaggiatori differente, duellando spesso e facendo a scaricabarile.
E’ passata da un pezzo la mezzanotte, la Mastrangelo tiene duro e con un rimbalzo telefonico che va da Bologna a Milano la spunta, fa la voce grossa, ottiene quattro taxi per far riportare i passaggeri a casa.

A Milano, sotto un diluvio universale, il capotreno bolognese si prende la briga di accompagnare ogni viaggiatore al tanto agognato tassì. Su una di quelle auto ci sono io, mi volto indietro, mentre lei scompare sotto la pioggia.
Mi piace raccontare quest’Italia, fatta anche dalle donne capotreno che di sera e di notte attraversano l’Italia, mettendo a repentaglio la vita su linee ferroviare, poco sicure in alcune tratte.

Siamo diventati così piagnucolosi da raccontare solo il peggio del Belpaese. Il meglio è invisibile all’isterismo collettivo, perchè spesso opera all’ombra. Stamattina a Milano Centrale, poco dopo le 7,  hanno sentito un fischio.
Era la Mastrangelo in divisa, impeccabile come sempre, orgoglio del trasporto ferroviario locale.  E forse su quel treno Regionale con destinazione Bologna qualcuno l’avrà riconosciuta, porgendole un fiore come per dire: “Grazie Gina, perchè la passione che ci metti ogni giorno su questo treno rende a piccole dosi l’Italia migliore”.

Cartolina da Rimini: La città di Fellini negli occhi di Ethan

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Rosario PipoloRimini ha smesso da un bel pezzo di essere la Las Vegas italiana, fatta delle luci lampeggianti delle discoteche che fecero furore sulla riviera romagnola negli anni del riflusso. La piadina viene servita in alcuni posti come se fosse cibo da ricchi. I Russi con il peso dei loro rubli si sono impossesati delle cittá di Fellini come fecero a suo tempo sulle coste del Montenegro, dall’altra parte dell’Adriatico.

Basta staccarsi da Marina Centro e rovistare tra le vie del centro cittá per scovare i riminesi, accoglienti e con gli occhi zeppi di dignità come quelli di Tonino Guerra. Gianluca ha le radici piantate qui: i suoi genitori sono riminesi come i nonni e i bisnonni. Gianluca ha un hobby. Mettere a posto vecchie Vespe e farle diventare nuovi gioielli a motore verniciati di vintage che riportano Rimini al bianco e nero di La dolce vita di Federico Fellini. Gianluca mi racconta di aver risistemato un vecchio Ape della Piaggio, il treruote che fece sognare i riminesi a cavallo degli anni del Boom economico. Ed era proprio su uno di questi che una ventina d’anni fa girava l’ambulante che mi fece mangiare la piadina più buona della Romagna.

Nonostante le invasioni barbariche, la Rimini dei miei ricordi vive negli occhi vispi del piccolo Ethan, il cui nome di romagnolo non ha niente. Eppure Ethan si sente riminese quando cammina a piedi scalzi sulla sabbia. In fondo al litorale c’è una ruota panoramica che ha poco a che fare con quelle dei Luna Park. E’ una ruota magica perché ad ogni giro evoca i mondi fellinani di Otto e mezzo, Amarcord e i Vitelloni. Se Rimini imparasse a proiettare i film di Fellini in ogni angolo della città – come già accade nello sguardo vispo del piccolo Ethan – forse saprebbe ritrovare la strada giusta per tornare ad essere più romagnola, più autentica, meno esterofila.

Diario di viaggio: In bici nel parmense con il retrogusto dell’ospitalità

Assieme a Fabio Romani

Rosario PipoloDomenica pomeriggio. Mi perdo nel parmense sotto un sole cocente. 38 gradi e per giunta in bici, alla scoperta di un’altra zolla di terra della regione emiliana. Vengo da Sabbioneta e il traguardo è Parma. Lo stomaco brontola, ma trovare un posto per mangiare sembrava impossibile. E poi mettiamola così. Avendo sforato l’orario del pranzo accademico, chi mi farà mettere qualcosa sotto i denti alle tre del pomeriggio? Mi rassegno a filar diritto verso Parma a stomaco vuoto, quando avvisto un’insegna con una “R” gigante. Sta per Romani, il ristorante di Vicomero di Torrile, e una signora me lo conferma: “Provi lì, hanno la cucina aperta fino a tardi”.

Dopo quindici chilometri sotto il sol leone, me lo merito il pranzetto succulento. Dopo una passerella di affettati e torta fritta (al di là della sponda lombarda del Po è il fratello gemello dello gnocco fritto), ecco che spunta  il gestore. Fabio Romani, mio coetano, è una persona simpatica e a modo. Mi racconta della sua Correggio e di come il papà mise in piedi l’attività. Quando azzanno i miei tortelli alle erbette, Fabio mi guarda con orgoglio, come per dire “ne è valsa la pena arrivare fin qui”. Insiste per farmi assaggiare la punta con patate al forno. Tra una forchettata e l’altra, scopro che il ristoratore di Correggio è un appassionato di dolci. E che dolci! Tira fuori dal cilindro magico il jolly: una torta di mele ricoperta di amaretto.

Dopo tutto quel ben di Dio e senza alcuna delusione dopo l’arrivo del conto (dall’antipasto al caffè, 33€), penso di non farcela a pedalare. Prima di andar via, Fabio mi infila due bottigliette d’acqua in una borsa di cuoio della mia bici. E poi dicono che gli emiliani sono scostanti! Sono i soliti pregiudizi che i viaggiatori dell’ultima ora come me amano smentire. Il gesto di Fabio mi ricorda quello del giorno prima di Ivana di Rivarolo del Re, ai confini tra il mantovano e il cremonese. La signora mi avevo guidato tra le campagne, offrendomi poi una bottiglia d’acqua fredda a casa sua.

Dobbiamo tornare a vivere “il tragitto” e non la “meta” del viaggio, perché solo così notiamo i dettagli che sfuggono al turista distratto che corre con i paraocchi alla velocità della luce. E la mia bici “Tognazzi” – battezzata così a Cremona tre anni fa – mi ha fatto assaggiare il retrogusto dell’ospitalità, lì in un angolo del parmense.

Terremoto in Emilia-Romagna: La sicurezza si paga con il sangue

La prima nozione di geografia appresa alle scuole elementari fu: L’Italia è un paese sismico ed quindi soggetto a terremoti”. Questa pappardella mise la pulce nell’orecchio a tutti gli scolaretti che come me vissero il disastroso sisma dell’Irpinia del 1980. Io fui un bambino fortunato rispetto a tanti coetanei: la mia casa subì soltanto qualche lesione e non ci furono vittime tra i miei familiari.

Vivo in un paese smemorato e di questo ne sono consapevole ogni giorno che passa. Ci piangiamo addosso? All’occorrenza. Non sono bastati i campanelli d’allarme degli ultimi trent’anni – i terremoti in Umbria, Marche, Molise e Abruzzo – a farci prendere coscienza di prevenzione ed intervento.

Nei giorni bui che stanno facendo tremare l’Emilia-Romagna, sarà tornata agli ambientalisti la pappardella fatta inghiottire dalle nostre maestre e continuano a civettare per la messa in sicurezza del suolo italiano. Ci vorranno 15 anni, giusto la metà del tempo che i precedenti governi hanno utilizzato per sperperare soldi e portare avanti opere pubbliche inutili. Senza contare il peso sulle coscienze dei vecchi gendarmi della Prima Repubblica, che misero i terremotati dell’Irpinia per vent’anni tra le mura impietose di una baraccopoli, mentre loro se la spassavano in ville lussuose.

Infine, però lasciamoci con un appunto in merito a “la sicurezza”: il buio era già oltre la siepe quando gli operai sono tornati sul posto di lavoro e hanno trovato la morte. Non era stato fatto alcun controllo sull’agibilità delle strutture dove erano in corso attività produttive. E non raccontiamoci frottole: chi è tornato a lavoro lo ha fatto per scacciare il terrore di restare disoccupato ancora una volta ed essere vittima dell’ennesimo ricatto sociale.
Sembra azzeccata la riflessione di John Lennon: “Lavoro è vita. E senza quello esiste solo paura ed insicurezza”. E questa volta per aiutare i terremotati dell’Emilia-Romagna non basterà un sms da 2 euro o acquistare una forma di Parmigiano che stava andando a male. Gli aquilani ne sanno qualcosa.

Il diario di Mascia del terremoto in Emilia-Romagna:”Pensavo di morire!”

Una foto del municipio di S. Agostino scattata alle 6 di questa mattina

Alle 4.05 una forte scossa di terremoto ha messo in ginocchio l’Emilia-Romagna. Paura anche nelle regioni vicine, inclusa la Lombardia dove la terra ha tremato. Mascia L., educatrice, lascia sul nostro blog un ritaglio di questa notte terribile, vissuta a pochi chilometri da Finale Emilia, l’epicentro. Questa è una foto del municipio di Sant’Agostino scattata alle 6 di questa mattina. Se avete altre testimonianze, lasciatele pure su questo blog.

Abito a Renazzo, una frazione di Cento, in provincia di Ferrara. Sono praticamente a 6 chilometri dall’epicentro. Alle 4 ero a letto che dormivo. La scossa e il boato sono stati fortissimi. Si è mosso il letto, si sono aperte le ante degli armadi, in tre secondi siamo scesi al piano terra e per le scale non tenevo l’equilibrio, sbattevo a destra e sinistra.
Sono caduti i quadri, un lampadario, tutto ciò che c’era sulle mensole. E’ andata via la luce qualche secondo. Ci siamo riversati in strada, ma la terra continuava a tremare. Saranno stati quasi 20 secondi.
Dopo una mezzoretta ci sono state altre piccole scosse. Nel giardino dei miei vicini c’è una crepa che va da parte all’altra. L’hanno vista crearsi sotto i loro piedi. Mi sono sentita completamente impotente. Sembrava che la terra si volesse sollevare.
Una paura del genere non l’ho mai provata in tutta la mia vita. I telefoni non funzionavano, per cui sono corsa a Cento dai miei genitori. Stavano bene e li ho trovati per strada. Abbiamo fatto un giro intorno. La chiesa qui di fianco è mezza crollata. Due aziende ad una manciata di chilometri da casa mia si sono accartocciate. E pare che ci siano tre morti in una delle due.
Per fortuna la mia casa è antisismica e non ci sono danni. La paura è tanta ancora. Continuiamo a stare per strada ”.
   (Mascia L.)                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

Facebook e le Over 20: Quello che le donne (non) dicono

Dimmi che bacheca hai e ti dirò chi sei. Sappiamo bene quanto Facebook sia abitata da tanti alter-ego virtuali che non corrispondono alla realtà, ma forse ci sono rare eccezioni. E se fare lo spione da bacheca è un peccato veniale, allo stesso tempo può essere anche un modo originale per attraversare l’Italia, dalla Sicilia alla Lombardia, e guardare la quotidianità con lo sguardo delle over 20.
Marika DM. si presente con l’aforisma “Il cinismo è l’anestetico più economico che sono riuscita a procurarmi”, ma poi in bacheca sprizza la sua solarità non lontana dalle falde dell’Etna. Non è una facebookiana cronica – pochi aggiornamenti e rari cambi di foto profilo – ma questo perché a volte i suoi impegni da studentessa glielo impediscono. Patrizia C. sa raccontare con scatti fotografici e tanti link la sua terra, la Puglia, a cui non rinuncerebbe mai per niente al mondo, nonostante in lei ci sia l’istinto da fotografa giramondo. Alessandra G. è la facebookiana col megafono e assomiglia un po’ ad una di quelle manifestanti, tipo Barbara Streisand nel film “Come Eravamo” di Sidney Pollack, che nei tempi dei social network protesta attraverso una selezione di notizie interessanti, che rischieremmo di perderci. Alla falde del Vesuvio c’è Luisa A.,facebookiana sporadica, quella che nasconde bene in bacheca i suoi stati d’animo. Spesso cambia la foto del profilo e trasmette dal suo l’album la sua solarità. Sbirciando il suo album fotografico, traspare il bisogno di stare assieme alle persone a cui è legata davvero. “L’amore non vive di parole né può essere spiegato a parole.” è il biglietto da visita di Luisa, che spesso condivide in bacheca i video musicali del suo Biagio (Antonacci), di cui è una fan sfegatata.
Giusy L. sa come movimentare la bacheca e la sua spigliatezza da blogger raggomitola molte frasi in argute riflessioni; Katia M., a detta sua “la gioia fatta persona”, condivide il profilo tra il marito, la dolcissima figlia e le persone care, la ciliegina sulla torta della vita di questa varesina emigrata in “terronia”; Amanda S., “scrive, guarda e ascolta” e si lascia andare ad innocenti evasioni che fanno della musica il suo pane quotidiano. Perchè non far evaporare i suoi sogni brianzoli verso gli spazi indefiniti metropolitani?
A pochi passi dal Po c’è Laura C., che sul terreno scivoloso dei social network grida ad alta voce: “Nella vita ci si innamora due volte: la prima pensando che sia l’ultima e la seconda sapendo che è la prima”. La sua bacheca assomiglia ad un diario work in progress sopra le righe e le foto del profilo non sono mai casuali, perché connotano gli interni dell’anima e i passaggi, dall’infanzia alla gioventù. Infine, le immagini prendono con prepotenza il sopravvento sulle parole sulla bacheca di Alice D.F., iphonista doc, in cui il mondo di questa milanese atipica viene circoscritto da scatti deformanti. Le foto sembrano un singhiozzante flusso di coscienza joyciano e lasciano i segni di un mondo interiore in continua evoluzione, come se Alice fosse uscita da un cartone animato – sottolinea attraverso la voce della scrittrice Ann Marie MacDonald “Sono perdutamente innamorata della mia vita” – o dall’omonima canzone di De Gregori.
Cosa hanno in comune tutte loro? Essere nate sotto lo stesso cielo, quello degli anni ’80 e adesso con la solarità dei loro vent’anni sono lì che lottano per realizzare piccoli sogni e dare concretezza al loro mondo interiore. Forse non si incroceranno mai, ma esistono nella realtà. Questa volta sono entrate a far parte di un piccolo racconto, cucito inconsapevolmente sul filo di quello che le donne (non) dicono!