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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

I viaggi mattutini in metropolitana mi infastidiscono per la frenesia delle persone, prigioniere della routine tra spintoni e rincorse di quel tempo di cui non siamo padroni.
Stamattina, seduta accanto a me sulla linea rossa di Milano, c’era una donna che parlava a telefono. Ho capito dopo qualche battuta che il suo interlocutore era la figlioletta.

“Amore, non piangere perchè la mamma va a lavoro…”

Queste sono state le ultime parole di una conversazione andata avanti parecchi minuti senza una risoluzione.  Di sbieco mi sono soffermato sul viso sgomento di questa mamma che, dopo aver concluso la telefonata, è scoppiata in lacrime affondando nello sciarpone intorno al collo.
La gente distratta continuava a salire e scendere con indifferenza, mentre io mi sentivo impotente di fronte a questo urlo sibillino di immenso dolore.

Ho ripensato a quelli della mia generazione che avevano soltanto il papà da spartire con il lavoro. Mia mamma di professione ha fatto la casalinga e mi sono risparmiato la paura e l’angoscia infantile del distacco quotidiano, se non nelle ore dei tempi della scuola materna, in cui non si andava mai oltre l’ora di pranzo.

Non bisogna essere un sociologo per cucire i cambiamenti nella nostra società degli ultimi quarant’anni così come non occorre un pediatra o uno psicologo per rendersi conto del dolore e della frustrazione che scatta da entrambi le parte, figli e mamma.

Un lettore ha commentato così il mio tweet del buongiorno:

A proposito del giudizio mi è tornato in mente Platone:

“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.”

Il viaggio in metropolitana di questa mattina è dedicato a tutte le mamme che ogni mattina combattono questa battaglia dentro e fuori il cuore.

Cartolina da Napoli: Epifania senza ‘a Maronna e ‘o bambiniello

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    Foto di Ivana Pipolo

Rosario PipoloQuest’anno i Magi non hanno trovato ‘a Maronna e ‘o bambiniello nel giorno dell’Epifania. Nella Napoli troppo distratta dal torpore della fine delle festività – la Befana tutte le feste porta via – e dagli affannosi auguri porta a porta in vista delle prossime elezioni comunali, neanche i turisti si sono accorti della fuga premeditata della ragazza madre e del suo bambino.

Scampato il pericolo dell’aborto, dovrà vedersela con gli assistenti sociali che prima o poi tenteranno di scipparle il pargolo, proprio come fece Erode più di duemila anni fa. La riterranno incapace di ricoprire il ruolo di madre, senza chiedersi semmai ci fosse stato qualcuno a metterla in condizione di svolgere il mestiere più utile e complicato nella società.

Mentre tutti erano incantati ad osservare il presepe, ‘a Maronna e ‘o bambiniello se le davano a gambe lungo via Cabonara, via Duomo per poi arrampicarsi, dopo la rincorsa di Spaccanapoli, sui Quartieri Spagnoli.
Per fortuna che a documentare questa natività dei giorni nostri c’era l’occhio fotografico di Ivana Pipolo, scivolando su quello stadio interiore della sospensione, lontano dalla nostra inguaribile frenesia.

Osservando questa foto mi sono tornati in mente gli assistenti sociali prevenuti e con i paraocchi dell’Inghilterra thatcherista, denunciati da Ken Loach nel commovente film Ladybird, Ladybird. Napoli non è Londra, ma questa Maronna cela sotto il velo l’emerginazione galleggiante che spodesta la sicurezza di essere guidati da una coscienza civile.

Oro, incenso e mirra, i doni di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, p’a Maronna e ‘o bambiniello, ragazza madre sedotta e abbandonata nella Napoli dei giorni nostri.

La Festa della Mamma che verrà

Rosario PipoloOsservando diversi “pancioni” intorno a me, mi vien da pensare che questo 10 maggio annuncia la Festa della Mamma che verrà, quella dell’anno prossimo, quando il bimbo o la bimba saranno tra le braccia della neo mamma.

Tutto sommato si potrebbe condividere già un accenno visto che, nel grosso marsupio naturale, c’è il nascituro che scalpita per affacciarsi alla vita.
Prospettiva apparentemente diversa è quella del figlio, soprattutto quando accade che la mamma non c’è più e, ripensando alla Festa della Mamma dell’anno precedente, mai avremmo immaginato che sarebbe stata l’ultima condivisa insieme.

Da una parte scatta lo sgomento di non trovarla più al posto suo per farle gli auguri, darle un bacio, lasciarle sulla credenza del soggiorno il mazzo di fiori profumato che le piaceva tanto. Dall’altra fiorisce una rabbia istintiva,  perché non poter festeggiare la mamma è un’ingiustizia per noi figli.

Ecco che germoglia la festa della mamma che verrà. Non si tratta di un abusivismo nel giorno dedicato a tutte le mamme, piuttosto di un ampliamento di visuale ciclica che abbraccia passato e futuro.
Restiamo figli per sempre, anche quando abbiamo un nuovo nucleo familiare, anche quando ci ritroviamo randagi solitari dall’altra parte del mondo.

La Festa della Mamma che verrà non è recintata nella claustrofobia emotiva di una domenica, ma va al di là di ciò che è stato il nostro legame con lei nella quotidianità della vita. E’ ritrovare un rapporto unico e continuativo che galleggia nell’universo, un amore scritto all’alba della vita. Perciò la Festa della Mamma che verrà non è dedicata solo alle “mamme in dolce attesa”, ma anche a tutti i figli testardi e convinti che lei verrà.

Social Media Week e #trend2013: La “spiona” di mammà trasloca su i social network!

Io e mammà, in attesa che diventi la regina dei social media!

Rosario PipoloSi chiude la Social Media Week a Milano e a questo punto lo scrivo io di punto in bianco il trend 2013: Darmi da fare per aumentare il numero degli over 60 su i social network. Voglio provare anche io a far traslocare quella “poltronaia” di mammà sui social network e allontanarla dallo zapping sfrenato tra fiction televisive e la jella di Vespa.

A mettermi la pulce nell’orecchio è stato Paolo Valenti, evangelist di WordPress, che ci ha raccontato quanto la passione possa essere un punto di forza per far avvenire l’agognato trasloco sui social media di un over 60 ed essere “smart a tutte le età”. Il papà di Paolo, appassionato sfegatato di fotografie e vecchi rullini, è diventato “digital” e photoshopparo senza conoscere un’acca di diavolerie informatiche o social.

Tornando a mammà, quella mia, napoletana verace, potrebbe sbarcare su Facebook e ritrovarsi, come è accaduto alla mamma di Valenti, con più contatti del figlio che sguazza per lavoro nei social network. Cosa potrebbe spingerla a diventare social tutta di un pezzo? la passione per la musica degli anni ’60 e le canzoni di Morandi o Don Backy; le letture dei romanzi di Liala o dei fotoromanzi di Grand Hotel; il legame cinematografico ai polpettoni romantici americani.

Sta di fatto che mammà mia, sebbene indirettamente, sui social network è già sbarcata da un bel pezzo e, qualche tempo fa, ho scoperto perché non mi assillava più con le telefonate per capire dove fossi finito. Si serve di mia sorella, un’insegnante elementare svilita da una ciurma di marmocchi, per spiarmi, attraverso gli status e i checkin della mia pagina Facebook. Insomma, mammà ha trovato il modo diplomatico per controllare a distanza il figlio cresciutello, ma non ha capito bene ancora il mio mestiere, a parte il fatto che di mezzo ci sia la scrittura.

Spero che con un bel teletrasporto social capisca una volta e per tutte chi sia il figlio e che magari l’anno prossimo una mammà napoletana, proprio la mia, diventi la regina della Social Media Week. E non solo perchè sa fare un ragù con i fiocchi!

  Social Media Week Milan 2013

Diario di viaggio: ancora una ninna nanna per Miriam

A San Colombano a Lambro ci sono finito per caso. Il solito vagabondaggio a seguito di quell’innata malattia che è in me: scendere e salire da un posto senza spiegarti come ci sei capitato. E lì non c’ero andato per braccare Gianluca Grignani – tutti pensano che chi faccia il mio mestiere sia sempre alla ricerca di storie – ma per il tipico fuori programma, che trasforma ogni mia tappa in una sorpresa. Non mi ero soffermato né sulle bancarelle del paesotto ai confini del milanese né sulle mura suggestive del castello. Osservavo lei che sorseggiava il suo drink, con le sue unghie smaltate di verde, con una ciliegia rossa che danzava tra le sue dita.
Puoi impiegare una vita a dimenticare, ma un attimo a ritrovare un ricordo: quella sera di quasi venti anni fa restai a cena dal mio migliore amico. Arrivò la notizia che un brutto male aveva strappato la cugina dalla giovinezza. Io e lui eravamo convinti che la vita non potesse sbatterti la porta in faccia nel bel mezzo dei vent’anni. Un grido di dolore e rabbia arrivò così in fretta dalle montagne di Domodossola che noi non smettemmo di chiederci: “Cosa ne sarebbe stata di quella bimba che sgattaiolava per casa? Come glielo avrebbero spiegato che la mamma non sarebbe tornata più?”.
Prima che il sole calasse a San Colombano, guardandola negli occhi ho capito che la ragazza di fronte a me era la stessa bimba a cui avevano strappato la mamma. Mentre attraversavamo in auto il lodigiano, ho avvertito quanto la bassa padana le avesse restituito a mano a mano  la maternità smarrita, attraverso un legame speciale con la terra in cui è cresciuta.
Lei si faceva chiamare scherzosamente “magotta”, ovvero con quella parola che accentua il campanilismo tra lodigiani e piacentini. Sul suo collo era tatuato un verso di una vecchia canzone dei Platters che faceva più o meno così: “I’m wearing my heart like a crown pretending that you’re still around”.
In quel verso era conservata la sua vita. La mia magotta era tutta sua madre, in quel suo modo di rivestire l’anima, in quella sua smisurata dolcezza e combattività che avevano trasformato una domenica qualunque nel giorno in cui mi sono convinto una volta e per sempre: prima o poi qualcuno tornerà a cantare con amore una ninna nanna per Miriam.

‘E figlie so’ figlie, ma io mi sono innamorato di tua mamma!

“’E figlie so’ figlie e so’ tutt’eguale!” è una sacrosanta verità così lapidaria che poteva uscire soltanto dalla bocca di una madre coraggio del secolo scorso. Parlo di Filumena Marturano, la prostituta nata nei vicoli di Napoli prima che sul palcoscenico di Eduardo De Filippo. Dopo aver nascosto per una vita i suoi tre figli al compagno Domenico Soriano, Filumena gli rivela che uno è suo. La scena di quest’uomo che cerca a tutti i costi di capire chi fosse, mi fa riflettere nei tempi in cui vanno di moda le famiglie allargate: coppie separate, figli sbattuti un po’ qui e un po’ lì, uomini e donne che si rifanno una vita assieme, mettendo in conto il figlio avuto da una storia precedente.
E qui vengo al punto: si può accettare senza remore un bambino che la tua compagna ha avuto da un altro? C’è chi vive con serenità questo status, ma c’è anche chi si crogiola sulla calma apparente, opponendo una latente resistenza pericolosa e dolorosa. Il personaggio edoardiano Domenico Soriano non li accetta “quelli non suoi” finché si sente chiamare spontaneamente in coro “Papà”. E come se all’improvviso il figlio della tua compagna, che fino al giorno prima ti chiamava per nome e ti trattava con distacco, usasse questa parola magica, pur con la consapevolezza che tu non sei e non potrai mai sostituirti al padre vero. In giro sento raramente: “Mi sono innamorato di una mamma”. Non di una separata, divorziata o peggio ancora di una donna sposata. Di una donna che per professione fa la mamma a tempo pieno.
I bambini ci guardano non è solo il titolo di un bel film in bianco e nero di Vittorio De Sica, ma la consapevolezza che da un bimbo puoi aspettarti la disarmante saggezza che non appartiene più all’età adulta: “Mamma, ho capito perché piangevi ieri sera quando mi hai messo a letto. Ti sei innamorata di un altro”. Chi vuole intraprendere questa strada complicata dovrebbe prima di tutto andare da quel bimbo e spiegargli con la dolcezza come stanno le cose:”Io e te non ci conosciamo, ma siamo legati perchè condividiamo l’amore per la stessa donna. Tu, da monello che sei, le chiedi tutti i santi giorni di sistemare i giocattoli che hai lasciato sparsi per casa; io, da disordinato che sono, mi sono innamorato di tua mamma  perchè lei con un bacio mi ha trasformato in un principe azzurro, quello protagonista delle fiabe che ti racconta”.

Federico e la Cicogna, in viaggio verso la vita

La cicogna uscì di buon mattino quella domenica di giugno. Venne giù dalle Dolomiti e il tempo era poco propizio. Il suo viaggio iniziò tra fulmini, temporali e acquazzoni. Appena il bambino le starnutì in faccia, lei sorrise: “Non preoccuparti Federico, entro le nove di domani mattina sarai tra le braccia di tua mamma”. Fino alla Toscana tutto filò liscio, ma il primo contrattempo spuntò ad Orvieto dove fu fermata dai carabinieri per aver bevuto un bicchierino di troppo. E la mamma da Napoli replicò: “Azz !!! Alza pure il gomito ‘sta cicogna! Speriamo che non arrivi tutta ‘mbriaca”. Alle porte del Lazio, la cicogna e il bimbo dovettero fare un atterraggio di emergenza perché pioveva a dirotto. E la mamma tirò un sospiro di sollievo: “Meno male, va’! Così mi dà il tempo di organizzare le ultime cosette”.
Dopo aver ripreso la sua missione, nei paraggi del raccordo anulare di Roma, la cicogna fu multata per eccessi di velocità. E il papà di Federico urlò, facendosi sentire da tutto il palazzo: “Non mi mandate le multe, che io non le pago!”. Arrivata in Campania, cambiò direzione improvvisamente, dirigendosi verso Mondragone. Si fece afferrare per pazza: “Prima della consegna, una mozzarella di bufala non me la toglie nessuno”. Pochi istanti dopo, si fece consigliare dalla ragione, facendo un’inversione verso Sessa Aurunca: “E se mi viene il cagotto dopo tutta ‘sta burrata che ho mangiato stamattina prima di partire? – disse tra sé e sé – Rinuncio alla mozzarella”.
Dopo una luna sosta al passaggio a livello di Villa Literno – era incazzata nera perché il treno locale Roma-Napoli l’aveva superata – sorvolò il litorale domitio e svolazzò beata tra Cuma e Pozzuoli. Anzi, per fargliela pagare a quel maledetto autista indisciplinato, lasciò che il bimbo gli facesse addosso una piccola “cacatella”.
Giunta sul Vesuvio, dopo esserci incantata planando sul Golfo di Napoli, trascorse  lì l’ultima notte assieme a Federico. Poi gli sussurrò: “Ricorda che non sarà il posto dove nascerai a fare la tua persona. Al di là dell’amore delle persone vere che ti saranno accanto, sarai sommerso da tante ipocrisie. Ti sbaciucchieranno in tanti che si credono poeti e invece sono dei miserabili; o quelli che si fanno chiamare Maestro e invece sono dei sepolcri imbiancati; quelli che avranno la presunzione di dirti cosa devi fare. Tu ascolta solo la voce del tuo cuore, della tua coscienza. Viaggia e conosci. E spero che questo viaggio condiviso ti resti addosso, anche quando ti affaccerai alla vita. Caro Federico, questo è il mio ultimo viaggio, vado in pensione. Sono invecchiata anche’io. Non ti dimenticherò mai. E spero che quando un giorno diventerai papà e la tua amata aspetterà la cicogna, ti ricorderai della tua Rosilde. Sì, io mi chiamo Rosilde ed ho portato a destinazione centinaia di bimbi”.
Dicendo queste bellissime parole, la cicogna fece il passaggio di consegna, affidando il bimbo a Martin, il suo angelo custode. Poi, alzand0 lo sguardo al cielo, disse: “Signore, il mio ultimo viaggio è stato compiuto. Dona alla mamma di questo bimbo la forza per allevarlo, consegna nella mani del papà la costanza di sostenerlo in qualsiasi momento. E a me,cicogna da una vita, fammi ritrovare sulla via del ritorno tutti quei bimbi che in questi 32 anni ho consegnato”. La cicogna ripartì e il buon Dio ordinò all’angelo custode: “Vai Martin, è giunta l’ora. Spingilo verso la vita e fallo diventare un bambino vero. E’ lui Federico!”. Martin Rispose: “Signore, l’anestesista è in ritardo. Cosa faccio?”. E il Signore irritato replicò: “A Napoli mi fanno sempre diventare furibondo. Negli ospedali è sempre la stessa storia”. Federico è nato il 21 giugno poco dopo le 10 e sul viso aveva il sorriso dell’estate. Mentre la cicogna Rosilde era in fila all’Inps per verificare i suoi contributi, il buon Dio la fermò: “Non puoi andare in pensione, cara Rosilde. Ho scoperto che sei la stessa cicogna che il 12 aprile di tanti anni fa consegnò Ada, la mamma di Federico, ai suoi genitori. C’è un incantesimo in atto che passa di generazione in generazione. E deve continuare”*.

(*) La fiaba è stata scritta da R. Pipolo in maniera estemporanea e pubblicata a puntate sulla bacheca di Facebook della mamma di Federico Luigi dalle 19.43 del 18 giugno alle 10.15 del 21 giugno 2010.