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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Diario di viaggio: Berlino e la memoria sfilacciata

Rosario PipoloDopo sette anni di assenza da Berlino, pare che la capitale tedesca si sia rassegnata all’affermazione di Scheffler per cui “é una città condannata per sempre a diventare mai ad essere”. 

Proprio questa ansia del divenire costantemente si lascia alle spalle il peso di chi non vuole essere ricordata più come “la città del Muro”, ma come il territorio che sfreccia verso il futuro.
Le gru che accerchiamo la vecchia Berlino Ovest sbranano le prospettive sopravvissute fino all’alba del nuovo millennio e Alexander Platz, crocevia di Berlino Est, è stata trasformata in un circo commerciale.

I vezzi delll’architettura contemporanea riescono sempre a sorprenderti, dall’armonia di Potsdamer Platz alla spavalderia della stazione centrale che si apre su Europaplatz. La crisi c’è e si sente: la sera i 3.000 metri di Rossmann, il mega store sulla Friedrichstrasse, contornano un vascello fantasma tra scaffali di libri, musica, oggettistica.

Lo scandalo delle emissioni della Volksvagen, icona di tutto il Paese, sembra così distante ai berlinesi che una coppia alla fermata dell’autobus mi dice senza esitazione: “L’onestà non è né da tutti né per tutti”.
Kreuzberg, tana dei Turchi a Berlino, da una parte è “il quartiere dei balocchi” della bella gioventù, sommersa dalla notte dei bagordi; dall’altra, lungo la Bergmanstrasse, è l’arcipelago dei localini dove ritrovarsi a bere o a mangiar un boccone.

Le briciole della Cortina di Ferro sono finite intrappolate nel sigillo del souvenir, perché in fin dei conti soltanto in minuscole oasi come il museo del Check Point Charlie riusciamo a fare i conti con la storia.

La bellezza della musica ci salverà? Sì, perché sull’altare della Philharmonie, casa della Filarmonica di Berlino, il tempo sembra sospeso. Ed è proprio questo stadio di sospensione che ricongiunge la memoria sfilacciata della capitale tedesca agli angeli custodi della memoria, ormai lontani dal cielo sopra Berlino.

E’ notte fonda. Vago nel buio. L’ultima luce è quella della Philharmonie lungo la Herbert-von-Karajan-Straße. Ich bin ein Berliner, ma restituitemi la Berlino dell’essere.

Ritorno a scuola: memorie ritrovate alle elementari di viale Bodio 22 a Milano

Rosario PipoloE’ ritornata a suonare la campanella nel bel mezzo delle polemiche, giocando al tiro alla fune tra buona e cattiva scuola. Parlano tutti di domani, dopo domani ancora, sgualcendo la memoria. Voglio riappropriarmi del ricordo dell’elementari – oggi non si chiamano neanche più così – fermandomi nella scuola al numero 22 di viale Bodio a Milano.

Non sono certo io il Ragazzo della Bovisa, specchio riflesso di Ermanno Olmi. Cosa c’entra un napoletano come me, che nel ’79 imparò a scarabocchiare il proprio nome in prima elementare con fuori il sottofondo della guerriglia della Nuova Camorra Organizzata, con una scuola della Bovisa?

C’entra perchè ogni scuola disegna la memoria a Milano come a Napoli, a Bolzano come a Palermo. Lo ricordate il treno che portò nel capoluogo lombardo i protagonisti di Rocco e i suoi fratelli? Forse in uno di quei vagoni c’era anche il medico Natale Giudice, ex allievo della scuola di viale Bodio, sbarcato a Milano dalla Sicilia negli anni ’30.

La cerco disperatamente la maestra occhialuta Enrica Galimberti, che prese servizio qui il 1 ottobre del 1945. La cerco perchè , attraverso i suoi occhiali, ha visto crescere la generazione di mio padre.
La scuola di viale Bodio ha scrutato l’Italia alienata dal Fascismo, i sogni luccicanti del secondo dopoguerra, le speranze in bianco e nero del Boom, l’irrequietezza sessantottina, la Milano ferita dagli anni di Piombo. Da quei banchi insegnanti e alunni hanno visto crescere il Belpaese.

Ha ragione Ornella Sberna quando scrive a proposito del quartiere Bovisa: “La luce è sempre la stessa, quella che la sua gente ha continuato a vedere negli anni bui, trattenuta nell’anima, tessuta sulla pelle”.
Oggi ritorno a scuola, partendo dai sotterranei di questo edificio scolastico, che è stato anche il Rifugio n.87, mettendo in salvo tanti milanesi dai bombardamenti.

Guardiamo al futuro della scuola senza perdere le tracce del futuro della memoria.

La Germania vergognosa svende il Muro di Berlino per case di lusso

The Berlin Wall

Rosario Pipolo“State alla larga da quel muro!”, esclamavano i soldati intorno alla Cortina di Ferro nel tempo furioso della Guerra Fredda che lacerava la Germania in Ovest ed Est. Quel monito militare era rivolto ai tanti che tentavano di scavalcare il “muro mostruoso”, rischiando la vita, per riabbracciare chi stava dall’altra parte.
Oggi ci risiamo. E l’avvertimento non viene dallo strascico di quel dramma in bianco e nero ma da coloro che stanno rimuovendo pezzi del Muro di Berlino per rispettare gli accordi con un palazzinaro: si fa a pezzetti la memoria dell’Est side Gallery, il museo a cielo aperto di un flagello della storia del ‘900, per costruire case di lusso.

Berlino è stata sempre attenta alle invasioni urbanistiche che mettevano a repentaglio il tragitto che, dagli agglomerati di stampo sovietico di Alexander Platz agli slanci moderni della Potsdamer Platz, tracciava il passaggio dall’Est all’Ovest. Oggi sembra pura follia la rimozione di parte del Muro, nonostante le proteste di berlinesi e diverse personalità che si sono esposte contro questa offesa alla memoria civile non solo tedesca.
Il Muro di Berlino non è solo il simbolo della Germania o il santuario del turista invadente che lo fotografa come reliquie folcloristiche. E’ l’ombra spettrale delle cortine di ferro che tutti i santi giorni si alzano in ogni angolo del pianeta, mortificando la ricchezza della diversità e l’essenza di un dialogo costruttore di pace.

“State alla larga da quel muro!” lo urla la mia generazione che ha cominciato a studiare geografia con quel segno divisorio sulla cartina e ha attraversato il liceo, vedendolo scomparire dagli atlanti geografici.
“State alla larga da quel muro!” dovrebbero gridarlo i politici e i governatori di una Germania che vuole essere “europeista” solo quando le fa comodo, perché in questo preciso istante sta svendendo un pezzo del Nobel per la Pace assegnato al Vecchio Continente.
“State alla larga da quel muro!” dovrebbe urlarlo con il megafono l’aspirante cancelliere Peer Steinbrueck, che un mese fa definì l’Italia “un Paese governato da politici clown”. Meglio scimmiottare le gesta circensi e custodire la memoria storica. Da questo punto di vista l’Italia può dare ancora una bella lezione a qualcuno.

  Demolita parte del Muro di Berlino

Diario di viaggio: Il tesoro di Sabbioneta nello sguardo di Carolina

Volevo portarmi un souvenir speciale da questo mio ritorno a Sabbioneta, la bomboniera segreta, patrimonio UNESCO, ai confini tra il mantovano, il reggiano e il cremonese. E questa volta il pretesto per tornarci non erano solo lo gnocco fritto e la spalla cotta di Ciano, un buon bicchiere di lambrusco, la rassegna musicale all’interno del magnifico teatro o l’arte che si respira in ogni angolo di strada. La scusa erano alcuni legami che vi avevo lasciato, sospesi come quelli dei viandanti di una volta e che racchiudono il vero significato degli spostamenti di un viaggiatore.

Ho ritrovato la memoria impavida della comunità sabbionetana nel viso beato di Carolina, 85 anni portati splendidamente. Ero faccia a faccia con lei, poco prima di partire, ad un tavolo del bar Ducale. Mentre l’anziana signora voleva convincermi che i movimenti lentissimi degli arti la rendevano una figurante di una pellicola sbiadita del secolo scorso, io invece pensavo esattamente il contrario.
La sua lucidità, che scivolava in quel filino di voce, mi ha riportato ai tempi in cui noi giovani trascorrevamo più tempo con gli anziani, prima che l’invasione delle “badanti” li rendesse apparentemente rottami da museo. Sabbioneta non è “un paese per vecchi”, ma ha un tesoro che va oltre l’arte e le pagine di storia lasciate da Vespasiano Gonzaga: sono gli anziani, colonna portante di una comunità, perché se non fosse stato per il loro coraggio, noi oggi non staremmo qui a parlarne.

La gioventù dovrebbe trasformare la fretta dello sciupare il presente nella disponibilità a scambiare quattro chiacchiere con loro, a sedimentare nei racconti dei nonni la memoria civile che rende qualsiasi paese davvero libero. Negli occhi luminosi di Carolina ho scoperto l’ultimo segreto della Sabbioneta del secolo scorso, quello in cui bastavano i legami affettivi a rendere gli uomini felici.
Stringendole la mano, prima di partire, mi sono ricordato dell’ultima volta in cui lo ha fatto mia nonna Lucia. Da allora non mi sono più voltato indietro, perché sapevo che non l’avrei più trovata.
Eppure, nei miei vagabondaggi, mi capita sempre l’occasione di rivederla accanto a me, come è accaduto a Sabbioneta dopo l’incontro con Carolina, 85 anni portati splendidamente bene, protagonista del film più bello che sia stato girato nella cittadella della provincia di Mantova: la visione lucida della dignità di chi ha vissuto la vita per la famiglia.

 Sabbioneta

Nonno, il dolore che spezza i vent’anni

La condivisione del dolore unisce, stritola le distanze, riporta a galla la parte bella di noi. Quando quel dolore spezzò i miei vent’anni, lei girovagava ancora nel passeggino. Appena ho saputo che lo stesso dolore aveva spezzato i suoi, l’ho telefonata. Era all’università, è uscita dall’aula. Si trovava ad Ingegneria, a Fuorigrotta, negli stessi luoghi che mi appartenevano. Il dolore ha una propria geografia dei posti, che amplifica il ricordo delle persone che se ne sono andate per sempre. E i nostri sono esattamente gli stessi, lì nei Campi Flegrei, tra l’ospedale San Paolo e via Docleziano, tra Cavalleggeri d’Aosta e Bagnoli. Man mano che condividevamo certe sensazioni amare del distacco, della perdita, ritrovavamo le nostre domeniche speciali lì, che ci strappavano alla periferia per catapultarci nell’anonimato della città, dove ogni istante condiviso con loro aggiungeva un tassello alla nostra esistenza. Avrei voluto accompagnarla da sua nonna, il cui volto mi avrebbe ricordato quello della mia, in una buia notte d’autunno in cui le dissero che l’uomo amato per una vita intera se n’era andato. Avrei voluto accompagnarla per tornare ad essere nipote per un istante e nascondermi tra i capelli imbiancati di quest’anziana signora.
Riguardando lo scatto fotografico fatto assieme ad Annalisa, è come se questo identico dolore la avesse trasformata improvvisamente da ragazzina in una donna, l’unica con cui ho potuto condividere fino in fondo l’intensità di questo dolore. E adesso voglio prendere Annalisa per mano e camminare a lungo, fino a stancarci, lungo la spiaggia di Coroglio, con lo sguardo rivolto verso Nisida. Scomparirà l’odore di catrame del fantasma dell’Italsider di Bagnoli; la sabbia tornerà ad essere viva come quella sotto gli ombrelloni del Lido Pola negli anni ’60; le palme della Domenica Santa torneranno a benedire le famiglie come facevano loro; l’amaro del cioccolato fondente delle uova pasquali si scioglierà nella dolcezza di nonno Antonio e nonno Pasquale, che si sono conosciuti lassù e sono diventati inseparabili come due vecchi amici. Remeranno su una barchetta in mezzo al mare della loro Napoli, verranno verso me e Annalisa per sussurrarci che l’amore intenso procura dolore, ma anche la consapevolezza che i rapporti speciali si tuffano nell’eternità, per farci tornare ad essere autentici. E il mio sorriso e quello di Annalisa in questa foto è lo stesso che oggi hanno Antonio e Pasquale, i nostri nonni, che il mare ci restituirà tutte le volte che lo guarderemo.

Diario di Viaggio: Interno Notte/ Esterno Giorno

Ci sono viaggi lampo, improvvisati, lunghi quanto la licenza breve di un soldato. Non sempre il viaggio ti porta alla destinazione con lo stato d’animo giusto. E’ come naufragare  tra le pagine di una sceneggiatura cinematografica, nel contrasto tra l’Interno notte e l’Esterno giorno di un miscuglio di scene.
Eppure, guardando mio padre invecchiato nell’ennesimo viaggio verso casa, mi sono chiesto quando riuscirà mai un figlio ad essere grato ad un genitore. All’improvviso mi ha indicato un albero e mi ha detto: “Quel tronco già c’era quando sono nato. E’ cresciuto con me. Sono passati più di settant’anni e guarda come è alto”. Ho alzato lo sguardo e mi è sembrato che quell’albero altissimo prendesse le stelle con i suoi rami. Da bambino, quando papà mi raccontava del suo lavoro e di come illuminasse case e strade, mi ero convinto che le stelle si potessero acciuffare per davvero. Oggi, salendo sulle sue spalle, potrebbe accadere. Non è la presenza costante di un genitore in ogni angolo della vita di un figlio a renderlo possibile?
Continuando la nostra camminata a passo lento, è come se all’improvviso avessi avuto un abbaglio. Mi ero accorto che poche persone avevano colto il significato del mio viaggio, apparentemente inutile, ma profondamente ricco di quella prospettiva: distinguere ciò che è  “sostanza” dall’“apparenza”. E così mi sono tornati alla mente i fiumi di parole e gli scarabocchi degli ultimi mesi, rivolti a chi non esisteva nella realtà. E’ il pericolo di chi fa il mio lavoro, di chi scrive, di chi immagina. I fantasmi sono esistiti prima di diventarlo, le ombre no perché non vivono mai di luce propria. Sarò pure un giocoliere di parole, ma il Vesuvio osservato qualche tempo fa si era ridotto ad essere una cartolina adombrata. Nell’ultimo tratto della camminata con mio padre, ho ritrovato un Vesuvio folgorante come quello dipinto da Andy Warhol. Ho restituito il giusto peso alle persone che mi circondavano, a coloro che avevo trascurato, a coloro che mi ero semplicemente inventato.
Spero di passeggiare tanto tempo ancora al fianco di mio padre, se questa preziosa compagnia può aiutarmi a distinguere e non a etichettare, a vivere i sentimenti nell’intimità e non nel pettegolezzo virtuale, ad allontanarmi dalle ombre per inciampare nella consistenza, che abita altrove e mi restituirà il cambio di scena dall’interno notte in esterno giorno proprio in questo lunedì speciale: inizierò la settimana svegliandomi nel letto dove sono cresciuto. Noi blogger saremo pure dei giocolieri di parole, perchè ci ostiniamo a dare un senso alle nostre sensazioni.

Diario di viaggio: Primavera sull’A1 su e giù per l’Italia…

Io e Antonio non ci vedevamo da anni. Ci siamo ritrovati nella stessa auto per attraversare l’Italia dal basso all’alto. Io ero un ragazzino, ma lui già era adolescente e mi ricordo di quando si beccava le ramanzine dai genitori perché studiava poco per correre a giocare a pallone. Dovrebbero sentirlo parlare oggi, papà Gennaro e mamma Clara sarebbero così fieri di lui per come è diventato.
Siamo sull’A1 all’altezza di Caianiello, è quasi l’alba, Antonio va alla guida spedito e mi racconta con orgoglio dei figli, di quanto sia importante il ruolo della famiglia, degli spostamenti per lavoro, di quei pezzi della vita che mi sono perso. Siamo all’altezza di Roma e il condominio Stella Maris, dove abbiamo vissuto, diventa un dolcissimo avanzo della nostra memoria: la ragazza dai capelli lunghi della scala A, la signora del secondo piano, la ciurma dei bambini del quinto piano, l’amministratore baffuto, il nostro vocio nel cortile del palazzo, le litigate dei più grandi e la magia che noi più piccoli creavamo quando rincorrevamo il cielo, quello che ci sovrastava alla fine degli anni Settanta.
Siamo all’altezza di Firenze Sud, c’è traffico e restiamo in silenzio sulle note di una canzone. E’ lì che lascio ad Antonio la mia confessione: la scomparsa prematura della mamma, a cui ero legato particolarmente, ha marcato il passaggio dalla mia infanzia all’adolescenza, perché allora pensavo che gli angeli prima di diventare tali dovessero invecchiare. Siamo all’altezza di Bologna e ci sembra che l’energia della memoria ci abbia fatto ritrovare il significato dei legami, e la certezza che quelli che nascono nella prima parte della vita non si dileguino mai.
Arriviamo ad un Autogrill a Parma. Cambio auto, sono in ritardo, mi aspettano per un’intervista. Io e Antonio ci salutiamo con un caloroso abbraccio, ma appena lui va via avverto la stessa sensazione di quando lascio il mio Sud: quell’indolenzimento che provavo da bambino appena sua mamma mi faceva la puntura. Questa volta però non ci sono le carezze della signora Clara a tranquillizzarmi e neanche una telefonata per sapere come sia andato il viaggio.
E’ Primavera, e me lo ricorda stranamente Milano appena arrivo nel tardo pomeriggio. La partenza di qualche giorno fa è tornata ad essere arrivo. Eppure una milanese atipica cancella quel piccolo livido con un messaggio casuale: “Tutto bene il viaggio?”. Qualcuno è tornato a preoccuparsi di me e quel gesto è stato uno scossone, un pizzicotto che mi ha finalmente risvegliato, forse grazie ad un’Alice, che ha percepito la stanchezza di questo mio viaggio, lei l’unica sopravvissuta “nel paese delle meraviglie”.

L’altro 8 marzo: Per la Festa della Donna la mia mimosa alle vittime della Fabbrica Triangle di New York

Rosario PipoloLizzie Adler, 24 anni, contava i minuti perché finisse il turno. Forse fuori l’aspettavano le carezze del suo fidanzato. Ida Brodsky, 15 anni, non pensava di finire a fare l’operaia, perché alla sua età sognava di avere penna e calamaio e scrivere un tema sul libro che avrebbe potuto leggere la sera prima. Laura Brunetti, 17 anni, singhiozzava ogni volta che le passava davanti l’immagine d’oltreoceano della nonna che la cullava dolcemente, nell’Italia che i genitori avevano lasciato. Dora Welfowitz, 21 anni, aveva ricevuto una proposta di matrimonio e l’aveva presa seriamente in considerazione. Sarebbe uscita da quella maledetta fabbrica una volta per tutte, per fare la moglie e chissà la mamma a tempo pieno.

Julie Oberstein, 19 anni, e le due sorelle Lena e Mary Goldstein, 22 e 18 anni, si ritrovavano ogni volta davanti la solita vetrina newyorkese, sognando di avere abbastanza spiccioli per comprare quel cappello di chiffon. A Provindenza Panno, 43 anni, avevano regalato una piantina e le avevano assicurato: “Tutte le volte che ti mancherà, innaffiala e vedrai che prima o poi tornerà”. Suo marito si era imbarcato come marinaio su una nave e non era tornato più. Teresa Schmidt, 32 anni, aspettava impaziente la chiamata di un albergo per fare l’addetta alle pulizie. Così avrebbe potuto incantarsi ad osservare signori e dame che sbarcavano dalla sua Europa.

I nomi di queste donne sono veri, le storie appiccicate addosso sono frutto della mia immaginazione, che ha tentato invano di addolcire il ricordo crudele della loro scomparsa prematura. Fanno parte della lista delle 146 vittime riconosciute che persero la vita il 25 marzo 1911, nell’incendio della fabbrica Triangle a New York. A che serve ricordare queste operaie proprio l’8 marzo, nel giorno della Festa della Donna?

Perché il Giorno della Mimosa resti soprattutto il Giorno della Memoria ed è questo uno dei motivi per cui è stata istituita la Giornata Internazionale della Donna. Noi forse lo dimentichiamo quando tutto si frantuma nel becero business, nella mortificazione del significato autentico di quel fiore, nell’euforia di una notte che dà un calcio in culo alla memoria per uno streap tease mascolino, in cui il kitsch di un corpo nudo soppianta l’anima dell’essere umano.

No, c’è un altro 8 marzo e non vogliamo dimenticarlo. Perciò, quando offrirete un ramoscello di mimose alla vostra donna, accompagnatelo con un abbraccio intenso e prolungato. Restituite alla vostra fidanzata, a vostra moglie, alla vostra compagna, quel sogno che è stato strappato via a tutte le vittime della fabbrica Triangle.

Il mio 8 marzo sarà diverso dal solito: sosterò fuori una fabbrica e aspetterò all’uscita tutte le donne operaie. E sarà lì mezzo, che giusto un secolo dopo, cercherò il tuo volto. Cara Lizzie Adler, adesso sei una stella che brilla in cielo, ma io ti attenderò come un secolo fa ha fatto il tuo fidanzato. Ti restituirò i tuoi 24 anni perduti, attraverso quella carezza che mai ti arrivò, sperando che le mie mimose riscattino la memoria dalla banalità, senza farmi sentire escluso dal diritto di riflettere.

New York 8/12/2010 h.22.50 – Milano 9/12/2010 h.4.50, In memoria di John Lennon

Mother, Hold On, I Found Out, Working Class Hero, Isolation, Remember, Love, Well Well Well, Look At Me, God, My Mummy’s Dead,Imagine, Crippled Inside, Jealous Guy, It’s So Hard, I Don’t Want to Be a Soldier, Gimme Some Truth, Oh My Love, How Do You Sleep?, How?, Oh Yoko! , Woman is the Nigger of the World, Sisters O Sisters, Attica State, Born in a Prison, New York City, Sunday bloody Sunday, The Luck of the irish, John Sinclair, Angela, We are all Water, Cold Turkey, Don’t Worry Kyoko,Mind Games, Tight A$, Aisumasen (I’m Sorry), One Day (at a Time), Bring on the Lucie, Nutopian International Anthem, Intuition, Out the Blue, Only People, I Know (I Know), You Are Here, Meat Cit, Going Down on Love, Whatever Gets You Thru the Night, Old Dirt Road – (John Lennon/Harry Nilsson), What You Got, Bless You, Scared, #9 Dream,Surprise, Surprise (Sweet Bird of Paradox),Steel and Glass, Beef Jerky, Nobody Loves You (When You’re Down and Out), Ya Ya, Power to the People, Give Peace a Chance, Istant Karma, Happy Xmas (War is over), (Just Like) Starting Over,Cleanup Time,I’m Losing You, Beautiful Boy (Darling Boy), Watching the Wheels, Woman, Dear Yoko.

La tua musica ha solcato la mia adolescenza, i tuoi versi sono diventati la voce della mia coscienza. Allora come adesso ogni tua canzone resta la colonna sonora della mia vita, perchè nelle tue contraddizioni c’è l’affannosa ricerca dell’uomo di un mondo più giusto. Immagino che… Ed io voglio crederci ancora.
A John W. Lennon (1940-1980)

 

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Una sconfinata giovinezza, dal film di Avati agli occhi di Olga

Io e Pupi Avati abbiamo qualcosa che ci accomuna: il ricordo come capostipite della vita. E se affilassimo la punta del glossario di Foursquare, azzardiamo pure che “la memoria avatiana” ha una sua precisa geolocalizzazione, che vive nell’Emilia-Romagna del regista di Una sconfinata giovinezza. Convivere con una malattia come l’Alzheimer? Mica è roba da poco e poi, quando si tratta di cinema, affrontare certi temi diventa pericolosissimo. Avati ci ha provato, si è fidato (e ha fatto bene!) di un fuoriclasse come Fabrizio Bentivoglio e ha sfornato un bel film, a tratti un pugno nello stomaco, a tratti emozionante come nel finale poetico che a scanso di equivoci accartoccia tutto nella memoria. Da spettatore, durante il primo tempo, ho vissuto il terrore di trovarmi nei panni del degente, con cui condivido se non altro la stessa professione. Nel secondo tempo, mi sono interrogato su quale fosse la giusta via per sostenere un malato di Alzheimer.
Cinque anni fa, dopo aver attraversato in autobus gli USA per seimila chilometri, sono finito alla ricerca di una anziana prozia. Olga era la sorella di nonno Pasquale, aveva lasciato Napoli quando mamma era nata, e da allora in famiglia viveva tra le foto d’oltreoceano e la calligrafia delle lettere che ogni Natale ci inviava da Houston. Dopo aver bussato alla porta, mi sono trovato una signora ottantenne affetta da Alzheimer. Continuamente dovevo ripeterle che non ero il figlio del fratello Pasqualino, ma il nipote. Io e Olga abbiamo trascorso assieme 36 ore, mentre lei vagabondava nella sua “sconfinata giovinezza”, facente capo alla storia della mia famiglia. Lei era felice perché era tornata a preoccuparsi di qualcuno, cioè di me; io mi chiedevo come la condivisione della memoria avesse fatto germogliare un legame così in fretta. Le ho lasciata una foto fatta assieme con la vana speranza che non si scordasse di quel giorno e mezzo. Quando il volto di zia Olga è scomparso dietro  la finestra sapevo che non l’avrei rivista più. Qualche settimana dopo mi è arrivata un’email in cui mi scrivevano che, tutti i pomeriggi all’ora del tè, Olga poggiava lo sguardo sulla nostra foto e sorrideva.
Per la prima volta nella vita mi ero scrollato di dosso quel senso di inutilità che ti assale quando sei accanto ad un malato, che per gli altri magari è un rimbambito. Zia Olga aveva bisogno soltanto di amore, come il protagonista del nuovo film di Pupi Avati.