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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Facebook e lo stupore di ritrovarsi sui social network

Rosario PipoloIn principio Facebook era “il libro delle facce” che fece ritrovare vecchi compagni di scuola e di università. Oggi è una macchina complessa tra business e voglia di “apparire” a tutti i costi, riuscendo anche a condizionare le nostre vite. Nonostante tutto, gli algoritmi del social network più amato e odiato del pianeta non hanno rinnegato le origini e così capita raramente di incappare in quell’insostenibile leggerezza dell’essere “social”: lo stupore di ritrovarsi.

Qualche tempo fa è sbucato dal mio archivio un biglietto su cui era scritto: “Grazie per questa bella esperienza che ci hai fatto vivere. Continua a rincorrere i tuoi sogni”. Risaliva ai giorni sepolti in cui racimolavo qualche soldo lavorando come animatore. La firma in fondo era della più timida del gruppo. Il mio occhio era caduto proprio lì, ripensando a dove fosse finita quella bambina che periodicamente la mamma accompagnava alle prove.

Ci sarà stato un corto circuito di natura “social” e così Facebook mi ha suggerito un contatto. Interessi in comune? Forse lo studio delle Lingue straniere. Stessa generazione? Assolutamente, no. Amici in comune? Qualcuno forse sì. La foto è un incanto e sembra un remake della natività. Una donna, con il profilo e il sorriso identici a quell della piccola Paola dei tempi che furono, sorride ad un neonato. Lo scatto condensa la gioia di una zia che sta dando il benvenuto al suo nipotino. E’ il futuro che vuole farsi coccolare dal presente? Forse sì.

Lo stupore di ritrovarsi ci rende tutti più autentici, persino quando un algoritmo si veste di umanità, molla il virtuale dei social network, allarga lo sguardo su un vecchio bigliettino ingiallito e ti restituisce un soffio tra i capelli della tua vita.

Storie di casa mia: 50 anni di assistenza a ritmo di Rap

Rosario PipoloIn una sera del 1963, mentre dalla radio i Beatles cantavano Please Please me, papà mi raccontò di aver illuminato un intero quartiere di un paesotto alla periferia di Napoli. Aveva fornito assistenza ai sogni di tutti coloro che mai avrebbero immaginato di vedere illuminata una strada con l’energia elettrica.

La notte tra il 16 e il 17 luglio 1973, mentre in un jukebox girava Dark Side of the Moon dei Pink Floyd, mamma fu portata in fretta e furia in clinica perché io scalpitavo nel suo pancione. “Accipicchia!”, le disse la zia Carmelina che le prestò assistenza. E aggiunse: “Margherita, con tutto il ben di Dio che stasera hai mangiato per il mio onomastico, tuo figlio nascerà a stomaco pieno!”.

In una mattina di ottobre del 1983, mentre Micheal Jackson si arrampicava nella hit parade con Billie Jean, fui punito e spedito dalla classe direttamente dal direttore. La segretaria mi offrì una caramella, segnale di un conforto o assistenza. Ed io sfacciato risposi: “Sono fiero di essere qui. Finalmente una volta che non viene lui in classe, ma io vengo a trovare il direttore. Mi sta simpatico. E poi si chiama Domenico come mio zio”.

In un pomeriggio d’inverno del 1993, sul nastro dell’audioradio Terence Trent d’Araby cantava Do you love me like you say. A quasi un anno dalla patente, si bucò la ruota dell’auto. Mi vergognavo: non ero capace di cambiarla. Chiesi alla ragazza che era con me di fornirmi assistenza in maniera bizzarra. “Chiedi aiuto a qualcuno, fingendo di essere da sola in macchina. Esisteranno ancora i cavalieri?”, le dissi. Il piano funzionò. Un tizio si fermò e tolse di mezzo la ruota bucata, mentre io finsi di arrivare in ritardo sul posto.

In una sera d’estate del 2003, i Muse se la davano a gambe con Hysteria. Durante una delle mie prime affacciate nel Sud della Francia, chiesi delle indicazioni ad un carroattrezzi. Il logo non mi era per niente familiare. Eppure mi dissero che oltre il confine, se ti fermavi con l’auto non potevi che chiamare quelli con il logo rosso e blu. Quello era il simbolo dell’assistenza.

Oggi 4 novembre 2013, io ci lavoro in un brand che fornisce assistenza e che per giunta spegne 50 candeline. Meno male che i miei capi non leggono mai ciò che scrivo! Non sanno che volevo fare il dj rap. Allora mi sono detto: quasi quasi mi invento disc-jokey, fingendo di aver composto la colonna sonora di questo video a cartoni animati. Perchè? Per ritrovare qualche faccia familiare che ha girato intorno alla vita mia.

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Addio Funky Professor Marco Zamperini, resti tu il mio Doc di “Ritorno al Futuro”!

Rosario PipoloHo sognato per una vita intera di conoscere di persona Emmet “Doc” Brown, lo scienziato visionario del film “Ritorno al futuro”. Al liceo mi sfottevano perché dicevano che era una delle tante facce immaginate del regista Robert Zemeckis. Sono stato testardo. Sapevo che Doc esisteva da qualche parte. Il mio Emmet Brown era Marco Zamperini, il funky professor della Rete scomparso improvvisamente la scorsa notte.

Prima dello scatto che ci ritrae assieme all’ultima BlogFest 2013, glielo avevo twittato. E Funky Surfer – così lo conosceva il popolo di Twitter – aveva gradito il paragone. Accanto a Marco Zamperini mi sentivo come Martin di Ritorno al Futuro e in un certo senso gli incontri con lui avevano esaudito un mio grande desiderio: capire come fosse fatto un evangelist dell’Innovation.

Marco Zamperini se ne andava a zonzo con i suoi GoogleGlass, ma “il futuro” era nel suo sguardo, in quella sua visione che allargava l’orizzonte del domani alle nuove tecnlogie per contribuire a migliorare la nostra vita. Attraverso il suo stile scanzonato l’amato Funky Professor filava come la lana umanità e sensibilità, due poli che rendono un genio smanettone e tecnologico anche grande viaggiatore del tempo. Il tempo scandito da Internet – Marco ha messo le fondamenta della Rete in Italia – e dai social network batteva allo stesso ritmo del cuore di Funky Surfer, i cui palpiti condensavano la sfrenata passione che diventa mestiere, a metà strada tra l’operosità di un artigiano e la pignoleria di uno scienziato.

Oggi appeso al filo della Rete c’è tanta rabbia per l’uscita prematura di Marco Zamperini ed io senza di lui non riesco più a sentirmi Martin di Ritorno al Futuro. Mi resta il ricordo di momenti intensi alla BlogFest di Rimini e di una cena seduto tra lui e la moglie Paola Sucato. Caro Marco, prima o poi salirò anche io a bordo della DeLorean DMC-12 e con la mia macchina del tempo ritroverò il “mio Doc Emmet Brown” su un pianeta lontano, che da oggi in un angolo dell’universo porta il tuo nome: Funky Surfer.

Tiscali.it – Internet piange Marco Zamperini, papà della cultura digitale in Italia

Perché non faccio più gli auguri di compleanno via Facebook

Rosario PipoloDa qualche mese appena apro la mia pagina Facebook ecco che spunta il solito promemoria: ti sei ricordato di fare gli auguri di compleanno ai tuoi amici? Devo ammettere che fino all’estate scorsa ero divenuto così abitudinario a farli a destra e a sinistra, che ci pensavo a prima mattina. Mi sono però sempre rifiutato di usare quel tipo di diavolerie a forma di app che inviano gli “Happy Birthday” al tuo posto.

Al ritorno dalle vacanze, mi sono soffermato ad osservare migliaia di auguri in formato social che rimbalzavano da una bacheca all’altra e mi sono detto: quanto tempo è che non sento più a telefono le persone a cui tengo davvero per gli auguri? Mi sono ricordato addirittura che, negli anni dell’adolescenza, scarabocchiavo auguri personalizzati su biglietti preparati da me, saltavo sulla mia vespa rossa e li andavo ad imbucare personalmente.

Insomma, il calendario di Facebook mi ha fatto da promemoria per evitare figuracce con la community a cui appartengo, ma allo stesso tempo ha svuotato un gesto significativo della mia quotidianità. I guru dei social network sostengono che augurare buon compleanno su Facebook migliori la propria reputazione social nella centrifuga infernale del virtuale. Aggiungerei però che deteriora anche l’essenziale e mischia in un unico calderone alcuni legami che ci circondano.
Me lo ha confermato una telefonata recente del mio amico di infanzia Antonio. Ci siamo sentiti per gli auguri, ma poi parlottando a telefono siamo finiti a condividere memoria e quotidianità, l’essenziale agli occhi di un augurio speciale. Torno a riprendermeli, spalancando la finestra e alzando la cornetta del telefono: “Pronto, sono Rosario. Buon compleanno…”

Milano e le suggestioni del sottomarino #L1F3: da Yellow Submarine a Capitan Harlock

Rosario PipoloUn primo di ottobre che Milano non scorderà perché, aprendo gli occhi, si è ritrovata un sottomarino in via dei Mercanti. Che sia stato un colpo di genio pubblicitario o un bel capriccio di qualche bravo creativo, resta il fatto che il sottomarino #L1F3 abbia movimentato il capoluogo lombardo in un grigio martedì autunnale.

Nonostante fosse un’operazione di marketing, destinata ad innescare la viralità dei social network, a me ha solleticato minuscole suggestioni, al di là del ruolo di addetto ai lavori. Si è trattato di godersi lo stupore, la curiosità e l’entusiasmo dei passanti che si sono visti sbucare dal sottosuolo milanese un sottomarino vero, il primo che aveva impresso un hashtag social. E così quello che per me appariva come un meraviglioso set cinematografico, per molti altri era l’interrogativo legittimo della serie “Vero? Puoi mai essere?”.

Quando si è diffusa la voce che si trattava di una trovata pubblicitaria, il sottomarino #L1F3 ha continuato a destare curiosità, perché dopo tutto era diventato un vero simbolo per tutti i milanesi che sognano una Milano in stile Amsterdam e con i Navigli di nuovo navigabili. Torno a ripetere: la magia del cinema riesce a vestire di poesia anche i manichini o un totem da business. Per me fino all’altro ieri il sottomarino per eccellenza era Yellow Submarine dei Beatles, con lo strascico psichedelico tra musica e cinema della fine degli anni ’60.

Dopo aver incrociato #L1F3, mi è tornata in mente una stravaganza della mia infanzia: far volare nello spazio i sottomarini. Osservando il sottomarino di sera, nella penombra, ripensavo all’Arcadia di Capitan Harlock, ovvero l’astronave del personaggio di Matsumoto. Sognavo che Harlock passasse a prendermi e mi portasse con lui nello spazio a saltellare da una stella all’altra. E forse questa è la volta buona che il mio sottomarino prenda la piega di volare. Dopotutto #L1F3 si porta dietro l’immaginazione, l’unica ascia che può fare a pezzetti persino il pregiudizio che oltre lo steccato di un’operazione pubblicitaria non ci possa essere un batuffolo imbevuto di emozioni.

Il videomessaggio di Berlusconi come su un vecchio nastro VHS

Rosario PipoloNella landa dei social network e della viralità il videomessaggio di Silvio Berlusconi sembra venuto fuori da un vecchio nastro in VHS, sepolto in chissà quale soffitta impolverata della Prima Repubblica. Assomiglia ad un fuori onda montato sulle ceneri del primo video che vent’anni fa alzò il sipario sul berlusconismo in Italia. Tra gli sfottò in formato social, le analisi degli intellettuali, gli editoriali dei giornalisti e le opinioni degli avversari politici, il Cavaliere e i suoi cortigiani, che non si sono sentiti mai a proprio agio su Internet, hanno puntato ancora sulla scatola magica televisiva, quella che fece la fortuna di Forza Italia.

Tanto rumore per nulla, urlerebbe in sordina la vecchia canaglia di Shakespeare, per una sequenza di immagini che inciampano su contenuti prevedibili – il solito attacco ai giudici – scivolando sulla buccia di banana nel finale nazionalista. Un bollito di rancido populismo, con quella mano sul petto dedicata ai fedelissimi nostalgici che hanno associato erroneamente in questi lunghi anni il liberalismo al berlusconismo.

Quando nel 1990, grazie alla legge Mammì fatta su misura per il Cavaliere, i Socialisti craxiani si preparavano ad occupare il suolo dei nascenti notiziari della tv privata, chissà se avevano imparato a pappardella la predizione di Nostradamus: il monarca assoluto della Seconda Repubblica sarebbe stato un ometto, deus ex machina dell’invasione delle antenne nel Belpaese del Pentapartito che giocava a nascondino dietro le tette e i culi di “Drive in…”.

Nostradamus non si era lasciato scappare il finale della profezia. L’Italia, traghettata verso il berlusconismo, sarebbe stata abitata da una classe politica incapace di sconfiggere l’avversario alle urne elettorali e con proposte di legge in grado di rendere questo Paese vivibile e civile. E tra coloro che oggi sezionano il videomessaggio di Berlusconi come un cadavere ci sono anche i parolai di quella Sinistra pantofolaia a cui il berlusconismo ha fatto comodo su diversi fronti.

Il voltafaccia ai tempi di Facebook

Rosario PipoloIl voltafaccia su Facebook è una ricorrenza di questi tempi. Una volta accadeva in strada, oggi nei vicoli dei social network. Quello più subdolo non riguarda la persona con cui abbiamo tagliato i ponti, ma il contorno. Si tratta di coloro che si intrattenevano a parlare con noi, sull’amaca dei sorrisi compiaciuti, delle pacche sulla spalla, della battuta facile, del “vediamoci più spesso”.

Poi ecco che arriva il primo taglio. Una volta lo notavamo per strada, perché il voltafaccia avveniva con gradualità: prima facevano finta di non vederci, poi fingevano di parlare al cellullare guardando avanti e, infine, passavano alla scelta più drastica, come a dire “chi ti hai mai visto prima”. Con l’avvento dei social network, Facebook ha dettato le nuove regole del voltafaccia, che corrispondono all’ eliminazione dagli amici.
Quelli più “quaquaraquà” però ci arrivano gradualmente con delle fasi intermedie. Basta giocherellare con i tasti della privacy e oscurare la bacheca a pezzetti. La maggior parte anticipa la censura di status e foto con un’altra azione: rendere invisibile la lista degli amici. Insomma, al massimo ci sarà concesso di capire quali siano quelli rimasti in comune.

Quale miglior pretesto per dare una bella sforbiciata alla nostra lista di contatti facebookiani? A parte il gusto di far numero, è inutile avere tanti nomi appesi, di cui magari non ricordiamo neanche il viso. Del resto, come accade in ambito culinario”, il “contorno” non è un piatto indispensabile e se ne può fare a meno, a qualsiasi pietanza appartengano le verdure grigliate.
Le azioni sui social network non fanno rumore, perchè abitano nello spazio invisibile della nullità. Ha valore il rumore dei passi che sentiamo dietro la porta, prima che si riapra, restituendo ad ogni legame il proprio ruolo e significato.

La prima vibrazione del telefonino: Quando gli sms scandiscono il tempo dei sentimenti

Rosario PipoloQuando acquistai il primo telefonino nel gennaio del ’97, gli sms cominciavano l’ascesa per troneggiare la comunicazione in 160 caratteri durante l’exploit della rete GSM. Nel boom di WhatsApp e di app simili, il destino dei Short Message Service sembra avviarsi verso il viale del tramonto. Secondo dati recenti, nel 2012 il numero di messaggi inviati attraverso una chat è stato superiore a quelli tradizionali e, entro l’anno prossimo, il divario potrebbe essere di 50 contro 25 miliardi di invio.

Mentre in versione online questi fiumi di parole sguazzano chissà in quali server, i messaggini finiscono nella nostra sim o smartphone. Alcuni li cancelliamo, altri li teniamo in archivio, senza renderci conto che, ricucendoli, potrebbero scrivere un diario di bordo. Qualche volta sono sgrammaticati, spesso sono frettolosi, il più delle volte così incisivi da scatenare fraintendimenti, soprattuto se ne riceviamo uno non destinato a noi.
Sì è vero gli sms non hanno il calore, sono così freddi che sembrano arrivati dallo spazio, ma sequestrano un lato di un’umanità quando, sbirciando data e orario, li associamo all’evento a cui appartengono.

Accade soprattutto per i sentimenti e riguarda ogni fascia di età.  Non abbiamo scuse. Tutti almeno una volta  nella vita telefonica abbiamo digitato “TVB” o “Mi manki”. Finiamola di dire che gli affari di cuore via SMS sono robetta da adolescenti o studentelli dal cuore traballante.  Gli sms hanno scandito il tempo della nostra vita sentimentale, accompagnando il corso della giornata, nella naturale trasformazione da appuntamento “inaspettato” nella fase di corteggiamento a quello “fisso” della quotidianità, dal buongiorno alla buonanotte.

Abbiamo impiegato anni per capire che la vibrazione di un sms della nostra lei o lui coincideva con quella del battito del cuore. L’iPhone e l’ultima generezione di smartphone hanno sbiadito questo pizzo di romanticheria, uniformando i vecchi sms allo stile di quelli online, dove a farla da padrone sono i touchscreen e il tempo istantaneo della chat di Facebook. I messaggini a cui faccio riferimento sono quelli digitati con la tastiera, generati da uno schermo grezzo di un telefonino, in cui la classidra del tempo batte l’invio della bustina.
Custodire gli sms in una vecchia sim significa ripetere il gesto dei nostri nonni, che tenevano nel primo cassetto del comò le loro lettere d’amore. Tutte le coppie che si separano dovrebbero rimetterli assieme perchè, persino sul filo di 160 caratteri, può restare sospesa la più bella storia d’amore. Imperdibile resta l’sms del primo apputamento: “Dove sei, non ti vedo?”. E lei: “Girati, sono accanto a te. Non mi sono mai mossa”.

“L’ultima neve alla masseria” a Roma, analisi tra autobiografia, psicologia e immaginazione

Assieme a Massimo Calanca alla presentazione del libro


Ospito sul blog il testo integrale dell’intervento di Massimo Calanca, in occasione della presentazione a Roma del mio libro “L’ultima neve alla masseria” presso la sede dell’Associazione Centro Internazionale CinemAvvenire.

Mi fa piacere presentare il libro “L’ultima neve alla masseria”, perché Rosario Pipolo è stato uno dei primi partecipanti alle iniziative di CinemAvvenire alla Mostra del Cinema di Venezia. La nostra iniziativa veneziana ha avuto fin dall’inizio l’obiettivo di trasmettere ai giovani, attraverso l’arte cinematografica, non solo la conoscenza e l’amore per un cinema “che aiuta a capire la vita ed a viverla meglio”, come diceva Gillo Pontecorvo, il maestro che ha fondato insieme a noi l’associazione; ma anche il desiderio e il piacere della creatività, applicata sia all’arte vera e propria, sia alla propria esistenza individuale, “per fare della propria vita un’opera d’arte”, come ha detto Antonio Mercurio, il maestro a cui si è ispirato gran parte del nostro lavoro di psicoterapeuti.

Il libro di Rosario è un misto tra l’autobiografia e il romanzo. Lo potrei definire una ricerca autobiografica di fantasia. A ben vedere, ogni opera d’arte è in qualche misura autobiografica, anche se parla di mondi lontani dall’esperienza di vita dell’autore, perché questi non può fare a meno da un lato di mettere dentro l’opera se stesso e la propria esperienza di vita, e dall’altro di ricercare un senso alla propria vita addentrandosi nei pensieri e nelle vicende dei personaggi di finzione. Ha scritto Luigi Pareyson: “L’arte è l’attività formativa per eccellenza….. La persona dell’artista è al tempo stesso “contenuto” e soggetto formante; mentre, nell’interpretazione, la persona del fruitore “si fa organo di accesso all’opera e, rivelando l’opera nella sua natura, esprime nel contempo se stessa”. E poiché la vita umana è tutta invenzione, produzione di forme, “l’arte modifica la nostra capacità formativa e quindi lo stesso nostro modo di vedere e formare la realtà e la vita.” (L. Pareyson, Teoria delle formatività”).

Ma, se ogni opera è in qualche modo autobiografia, esistono tuttavia opere, come questa di Pipolo, più chiaramente e direttamente figlie del pensiero autobiografico. Capita a tutti, prima o poi, di sentire il bisogno di ripensare alla propria vita passata e di raccontarsela e raccontare se stessi a se stessi (e qualche volta agli altri) in modo diverso dal solito. E’ quello che viene chiamato “pensiero autobiografico” (Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore). “Il momento in cui sentiamo il desiderio di raccontarci è segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità. Poco importa se ciò accada a vent’anni piuttosto che a ottanta. E’ l’evento che conta, che sancisce la transizione a un altro modo di essere e di pensare.” (Ivi.) Il pensiero autobiografico è quell’insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e che si è fatto, che ripercorriamo in cerca di un nuovo senso. Anche quando tale pensiero si rivolge verso un passato doloroso, di errori o occasioni perdute, è un’occasione di un “ripatteggiamento”, di una riconciliazione, a volte con sentimenti di maliconia o di compassione, ma comunque di rappacificazione con se stessi. “Ciò che è stato poteva forse compiersi altrimenti, la storia potrebbe aver avuto altri finali, ma, comunque sia, ora quella storia è ciò che è. E si tratta di cercare di amarla, poiché la nostra storia di vita è il primo ed ultimo amore che ci è dato in sorte” (Duccio Demetrio, op. cit.).

Paradossalmente questo non ci porta alla chiusura individualista o egocentrica, ma al contrario ci aiuta a sentire che condividiamo l’essere al mondo di tutti gli altri. Il pensiero autobiografico in qualche modo ci cura. Mentre ci rivediamo alla moviola (“sviluppiamo i negativi della nostra vita”, come ha detto Marcel Proust), ci riprendiamo tra le mani, “ci prendiamo in carico (in cura) e ci assumiamo la responsabilità di tutto ciò che siamo stati o abbiamo fatto e, a questo punto, non possiamo che accettare” (D: Demetrio). Ma questo non significa rassegnazione. Da un lato significa accettazione, cioè amore per noi stessi. Dall’altro può significare decisione di cambiare o di lasciare andare qualche parte di noi, proprio alla luce dell’esperienza passata rivisitata, meglio compresa e “metabolizzata”. Cioè è un’occasione di trasformazione esistenziale che guarda al futuro.

Infatti il ricordo non è mai soltanto un semplice rivivere il passato. Da un lato, certo, è una riedizione, cioè ci fa rivivere, mentalmente ed emozionalmente, situazioni già vissute, che ci richiamano e ci legano in qualche modo al passato, e a volte rischiano di farci rimanere dentro il circolo vizioso della “coazione a ripetere”. Dall’altro, poiché noi non siamo più quelli di un tempo ed inoltre il nostro Sé ci spinge ad evolvere e a crescere, il ricordo è sempre qualcosa di rivisitato, di nuovo, di diverso, di inventato, che già contiene in parte quello che siamo diventati oggi e quello che vogliamo diventare domani.

L’autobiografia non va intesa come una specie di farmaco che ci aiuta a liberarci dal nostro passato prendendone le distanze. Questo può valere in parte per le situazioni traumatiche che abbiamo rimosso o dimenticato, di cui fatichiamo a prendere coscienza, e che quindi ci condizionano senza che ne siamo consapevoli. Allora, rivisitarle con il ricordo e oggettivarle con l’autobiografia, può servire non a liberarsi di loro, ma a liberarsi del conflitto inconscio che continuano a generare, per integrarle armoniosamente nella nostra personalità. “L’autobiografia non è soltanto un tornare a vivere: è un tornare a crescere per se stessi e per gli altri…è un viaggio formativo e non un chiudere i conti” (D. Demetrio). “Io pongo il mio passato come mio avvenire, mi sottraggo alla minaccia della dispersione e stabilisco l’unità e la coscienza del mio io” (Nicola Abbagnano, “Introduzione all’esistenzialismo”, Mondadori).

“E’ vero che scruto nel mio passato per trovare chi sono, da dove vengo, chi mi ha aiutato ad essere ciò che poi sono divenuto; però è pure vero che, già con quest’opera di scavo, mi apro al mondo, ad altre possibilità” (D. Demetrio). “Entrare in autobiografia” (come la definisce Vincenzo Masini) è superare la paura del tempo, perché l’atto autobiografico è sempre al presente. S. Agostino, nel suo interrogarsi sul tempo, scrive: “… Futuro e passato non esistono… impropriamente si dice: tre sono i tempi, il passato, il presente e il futuro. Più esatto sarebbe dire: tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste ultime tre forme esistono nell’anima … il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa.” (S. Agostino, Le confessioni) Lo stesso poeta Gibran non si allontana da S. Agostino quando, interrogato sul tempo, risponde: Vorreste misurare il tempo, l’incommensurabile e l’immenso. Vorreste regolare il vostro comportamento e dirigere il corso del vostro spirito secondo le ore e le stagioni. Ma l’eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo. E sa che l’oggi non è che il ricordo di ieri, e il domani il sogno di oggi.

Ma se col pensiero volete misurare il tempo in stagioni, fate che ogni stagione racchiuda tutte le altre. E che il presente abbracci il passato con il ricordo, e il futuro con l’attesa.” (Kahil Gibran, Il profeta). Come è noto, il concetto di Sé è molto importante in psicoterapia. Un elemento caratterizzante del Sé è il suo manifestarsi in forma narrativa. Ha scritto lo psicoanalista junghiano Robert H. Hopcke: Essere umani significa raccontare storie, vivere e usare dei simboli per dare senso alla nostra vita, cercare un’esperienza profonda e diretta di ciò che trascende la nostra limitata esistenza mortale…(Robert H. Hopcke, Nulla succede per caso. Le coincidenze che cambiano la nostra vita, Mondadori, Milano, 1998). Scrive Andrea Smorti, uno psicologo cognitivista che ha studiato il pensiero narrativo: “Che cosa è il Sé? Non è facile definirlo. Ce lo possiamo però rappresentare come un testo che giorno dopo giorno viene scritto dal soggetto stesso e dagli altri”.( Andrea Smorti, Il Sé come testo. Costruzione di storie e sviluppo della persona, Giunti, Firenze, 1997. Il corsivo è mio)

Lavorare alla propria autobiografia non significa soltanto affastellare insieme una serie di ricordi che emergono alla mente alla rinfusa, ma anche ricercare le connessioni, i nessi, le coerenze tra i ricordi, ricomponendoli in figure, disegni, architetture. Ogni singolo ricordo è un segno, che ha “graffiato” la nostra vita come una lastra da incisioni, ma appartiene ad una rete che tende a ricomporlo in una scena, in una storia dotata di senso. La mente non si limita a rievocare immagini tra loro isolate e distinte. L’intelligenza retrospettiva ricostruisce, collega e quindi colloca nello spazio e nel tempo, riesce a dar senso agli eventi solo se li colloca in un processo e in un percorso. L’autobiografia, sia quella che rimane ad uso personale, sia quella che ha ambizioni letterarie, viene scritta perché l’autore ha bisogno di attribuirsi un significato, e forse più di uno, e di presentarsi in modo nuovo a se stesso e, qualche volta, al mondo.

Ma ho detto che il romanzo di Rosario Pipolo è anche fatto di immagini fantastiche. Sia nella storia che il protagonista racconta di sé, dei suoi familiari e della sua terra, sia in alcuni dei personaggi tra il reale e l’onirico che incontra nel suo ritorno a casa, sia nella sua ricerca documentaria delle proprie origini, a figure della realtà, che hanno il sapore inconfondibile del vissuto personale nella terra e nella cultura del suo paese, si mescolano immagini della fantasia. Lo stile di questo “melange” mi ricorda quello del Fellini di “Otto e ½” o di “Amarcord”, film dove realtà, sogno, immaginazione e prefigurazione, si inseguono sulla base di associazioni più analogiche che logiche, più emozionali che razionali; anche se l’insieme finisce per comporre un “puzzle”, o meglio un affresco, in cui pian piano emerge il senso faticosamente cercato dal protagonista e dall’autore riguardo la propria opera e la propria vita. Ho pensato che non a caso Rosario, anni fa, si è impegnato nel progetto “Fellini 2000”, evento omaggio al grande regista, realizzato in collaborazione con la Fondazione Fellini e Mediaset.

Ma, al di là delle suggestioni e dei rimandi, la parte fantastica del romanzo di Pipolo è altrettanto, se non più, interessante di quella del ricordo reale per la ricerca di senso di cui sto parlando. Infatti, la fantasia – quando non è impacciata da intenti didascalici o dimostrativi, ma si esprime con associazioni libere guidate da autentiche emozioni – è capace di illuminare di senso e di nuovo significato fatti, eventi e situazioni che nella semplice ricostruzione del vissuto ci appaiono inesplicabili ed oscuri. E’ il potere del pensiero primario, che attraversa facilmente nei due sensi il confine tra l’inconscio e la coscienza, mettendo in comunicazione mondi separati e diversi e creando collegamenti e nessi che mettono in luce aspetti nuovi e significati inediti di eventi, cose, persone.

E infatti è dall’intreccio di ricordi reali e fantastici che emerge a poco a poco il senso che Pietro, il protagonista, ritrova. Non è tanto importante portare fino in fondo la ricerca delle radici reali, quanto metabolizzare i ricordi del passato integrandoli nella propria personalità unificata, filtrandoli e risanandoli, affinché non ingorghino il futuro, attraverso il sogno del padre, “quell’ultima neve alla masseria” rimasta ancora intatta nonostante il degrado del tempo e di uno sviluppo sociale ed economico senz’anima. Discorso che io interpreto così, nel mio linguaggio La ricerca di senso è indispensabile per uscire dal nichilismo disperante. La distruzione di tutti i valori operata dalla razionalità occidentale, se da un lato ci ha liberato da schemi mentali e di comportamento limitanti e spesso soffocanti, aprendoci a nuove possibilità di libertà, dall’altro ci ha privato di ogni punto di riferimento e, soprattutto, del senso e del significato della realtà e della vita. Sembra che manchi il motivo e la direzione del nostro agire e del nostro stesso stare al mondo. E ciò, al di là dell’illusione di riempire questo vuoto con il consumo, con “quell’edonismo di massa” di cui ha parlato Pasolini, non può che produrre disperazione.

Ma davvero la ragione deve limitarsi a togliere senso? – si è interrogato Eugenio Scalfari. – Non potrebbe invece avere un’autonoma capacità di dare senso e valore, cioè contrastare il nichilismo con le forze dell’illuminismo invece che con quelle del mito? Secondo me, da sola, la ragione non basta, anche se può dare un grande contributo a questa ricerca. Occorre addentrarsi anche nei territori oscuri dell’inconscio, degli archetipi, dei miti; confrontarsi con le parti oscure che ci abitano come esseri umani, nei ricordi personali della nostra infanzia ma anche in quelli ancestrali della specie che sono stampati dentro di noi. Contrastare la rimozione e l’oblio, per portare queste parti alla luce, non per eliminarle in quanto parti oscure, ma per unificarle con le nostre parti luminose e diventare così persone intere.

In fondo ogni opera d’arte è il frutto di una sintesi di opposti. Questo vale sia per l’arte vera e propria, sia per l’opera d’arte della nostra vita. E ognuno di noi oggi deve fare questo percorso in parte insieme agli altri, cioè ai personaggi del suo passato, del suo presente e del suo futuro, perché “l’Io senza il Tu non esiste”, come ha detto Martin Buber. Inoltre deve farlo riallacciando i nessi con il padre, con quel “principio paterno” che è insieme garanzia di radicamento nella storia evolutiva dell’uomo e prospettiva di ulteriore evoluzione verso nuove proprietà emergenti dello spirito. Ma, nella “Babele” del mondo contemporaneo, è inevitabile che ognuno debba fare questa ricerca in parte anche da solo.

E’ quello che mi pare dica il libro di Rosario Pipolo alla fine. E in questo mi pare in piena sintonia con quanto ha scritto Joseph Cambell, il grande mitologo americano: “è il cuore dell’uomo (e della donna) oggi il luogo creativo del mito moderno, il centro focale dello sguardo divino”. Di “quel Dio che in parte siamo noi e che in parte dobbiamo ancora diventare”, come ha scritto Antonio Mercurio. Senza deliri di onnipotenza, perché non nasciamo dal nulla ma veniamo dalla materia e dalla vita che agiscono secondo leggi che ci precedono. Ma anche senza rinunciare alla responsabilità che ci compete, quantomeno come co-autori della creazione nostra e del mondo in cui viviamo.

Roma, 13 aprile 2013

Massimo Calanca*

Psicologo e psicoterapeuta


* Nato a Roma nel 1947, è stato segretario nazionale dell’ARCI, organizzando tra l’altro la tournèe dei fratelli Taviani in America Latina, il viaggio di Gillo Pontecorvo in Nicaragua ed in Salvador alla ricerca delle idee per un film e fondando la ONG di cooperazione allo sviluppo Arci-Cultura e Sviluppo. Laureato in lettere moderne, si è specializzato in comunicazione sociale. Nel 1992 ha fondato con Gillo Pontecorvo alla Mostra del Cinema di Venezia l’associazione CinemAvvenire, per promuovere l’amore e la conoscenza del cinema tra i giovani e gli studenti, divenendone presidente alla scomparsa del fondatore. Vive e lavora a Roma, dove si occupa di psicoterapia, counseling e formazione.

iPhone low cost: Se la Apple conquista il ceto medio-basso

Rosario PipoloIl profeta Steve Jobs se n’è andato all’altro mondo e gli apostoli infedeli hanno deciso di fare a meno della sua spiritualità visionaria e raffinata. Siamo in tempo di crisi, anche per la “Mela” di Cupertino. Con la scusa di aggredire il mercato indiano e cinese, la Apple abbandona il pubblico di sempre, quello smanettone ed elitario, possibilmente chic, tecnologicamente inserito, fanatico all’occorrenza e qualche volta con la puzza sotto il naso, per non dire sotto il touchscreen! Strizza l’occhio al ceto medio-basso e chissà che non vedremo persino in Italia un metalmeccanico cassintegrato o un pensionato andare a zonzo con il primo iPhone low cost.

L’iPhone 5 è stata “una mezza sola”, come direbbe un venditore ambulante romano, e in più il suo prezzo si è rivelato un insulto, se pensiamo a quanto prende mediamente un operatore call-center in Italia. Il luminare Jobs si starà rivoltando nella tomba, ma la Apple ormai è sulla via del lowcost: i rumors del 2012 sono confermati e possiamo cominciare il conto alla rovescia per l’iPhone a basso costo, il melafonino semi-plastificato per la tasca nazional popolare, che dovrebbe oscillare tra i 200 e i 300 dollari.

Direi che possiamo dargli anche il nomignolo di iPhone giocattolo. Finirà prevalentemente nelle mani degli stessi cinesi, che avevano intrapreso indirettamente la crociata contro Apple con i cloni del phone più ambito del pianeta. E chissà che la stessa sorte non tocchi prima o poi anche ai MAC, sui quali sventola la bandiera bianca di un’antica leggenda: pur di non dar via a prezzi stracciati i modelli andati fuori produzione, la Apple li seppelliva in chissà quale angolo sperduto del pianeta.
La mela “morsicata” non è più l’oscuro oggetto del desiderio in tempo di crisi. Se la Apple di Tim Cook conquisterà il ceto medio-basso, riuscirà a compensare la perdita di Jobs? I profitti non sono tutto, almeno non sempre. E questo il predecessore di Cook lo teneva a mente.

Tutto pronto per l’iPhone low cost