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DIECIANNI

Io l’ho vista rannicchiata in un fazzoletto di periferia alle falde del monte Somma e me ne sono innamorato. Il 9 novembre, in coincidenza con il suo sesto compleanno, aveva spezzato in due i miei vent’anni portandomi via nonno Pasquale. Quel giorno di immenso dolore sarebbe diventato, anni e anni dopo, giorno d’amore perché la vita sa come muovere i fili del destino.
Diecianni come il frammento di un sonetto che la polvere del tempo non ha intaccato, diecianni come il titolo di un cortometraggio proiettato sulla parete della nostra distanza anagrafica.


Io l’ho vista al di là dei suoi occhialini rettangolari dietro cui si nascondeva, l’ho baciata sul calar della sera nei pressi di una scuola di periferia, ho capito che chissà quando l’avrei portata all’altare. Lei non sapeva di essere per me quello che Mary era stata per George nel bianco e nero argentato del film La vita è una cosa meravigliosa. Io l’ho vista lunatica, intimidita, arrossire, ridere, piangere, farsi in quattro per la sua famiglia, arrabbiarsi, lanciare il lazzo della sua generosità, soffiare le candeline di compleanno sotto la Torre Eiffel su una tortina presa al supermercato.
Diecianni come i bambini che accudiva in una casa famiglia in provincia di Napoli, diecianni come le sue paure di trasferirsi per amore in un posto che non era il suo, diecianni come la porta lasciata socchiusa quando se n’è andata. Io sapevo che, in un giorno lontano di primavera, sarebbe ritornata. Ho aspettato nel più tremendo silenzio.


Io l’ho vista sbucare in abito bianco verso di me, raggiante e felice come una principessa scalza di altri tempi, in punta di piedi e senza clamori, perché una promessa d’amore non fa rumore al cospetto di Dio. Io l’ho vista farsi impavida viaggiatrice dall’altra parte del mondo, nel quinto continente, nei 40 giorni del “viaggio dei viaggi”, il nostro, quello che ha ridisegnato le tappe della nostra vita insieme tra dune bianche, koala, wallaby e quokka, sterminati deserti rossi, barriere coralline, mescolanza con Aborigeni e Maori, voli e navigazioni, oceani.
Diecianni come la crescita insieme sconfiggendo paure e insicurezze, diecianni come le nostre diversità e visioni della vita contrastanti, diecianni come le radici del nostro Sud comune attaccate per sempre alla quercia della vita.


Io l’ho vista prendersi cura amorevolmente del padre nella Genova di Fabrizio De André, farsi in quattro per realizzare il sogno di una casa nuova che prendesse le sembianze delle nostre anime, impacchettare (per amore) migliaia e migliaia di vecchi dischi e souvenir di viaggio da ogni angolo del pianeta, commuoversi all’ombra della Madonnina su un tramonto che accendeva Milano di rosso. Io l’ho vista uscire di casa prima dell’alba per attraversare la Lombardia e correre dai suoi bimbi in un asilo nido di provincia, rincasare la sera con le borse della spesa mentre ero ammalato.
Diecianni come i suoi occhi lucidi davanti alle lapidi gelide dei soldati mandati a morire nella Grande Guerra, diecianni come il futuro che innalza la vita insieme alla pagina di un romanzo, diecianni come il suo stupore per la bellezza delle Alpi sulla strada delle fughe piemontesi verso il Lago Maggiore o il suo “friccico” per i preparativi natalizi tra addobbi e piatti della tradizione da lei preparati.


E lei che il 9 novembre di dieci anni fa, nel giorno del suo compleanno, pensava di aver baciato il principe azzurro, si è ritrovata, prima come fidanzato e poi come marito, “un principe scugnizzo” ribelle e vagabondo, strafottente e romantico, che ha fatto della libertà l’asfalto della strada per attraversare la vita tra cadute e risalite.
Diecianni come gli errori commessi perché gli esami non finiscono mai per chi vuole imparare ad amare, diecianni come il bello e il cattivo tempo di questa incredibile storia d’amore, diecianni come i sogni di un ragazzo e una ragazza della periferia di Napoli.

10 anni, oggi 9 novembre, di me e Luisa, una carezza nel cosmo dell’eternità.

Cartolina da Agra: l’amore eterno custodito dal Taj Mahal

C’è ancora una mezza luna che brilla ad Agra. Non manca tanto alle prime luci del sole. Il Rajasthan è ormai alle spalle e nella regione indiana dello Uttar Pradesh sanno bene che bisogna arrivare prima dell’alba al Taj Mahal, affinchè la folla dei visitatori non faccia da gustafeste alla visita di una delle sette meraviglie del mondo.

Quando l’imperatore moghul Shah Jahan fece costruire il mausoleo in memoria della moglie preferita Mumtaz Mahal, l’India del XVII secolo non poteva di certo immaginare che questo sarebbe diventato il simbolo del Paese.
Incamminandomi verso il gioiello UNESCO, che a seconda della luce del sole veste sfumature colori diversi, mi sembra di rivedere le centinaia e centinaia di elefanti impiegati e fatti morire per trasportare il materiale per la costruzione.

Ciascuno di noi in pellegrinaggio in questo luogo si sente custode dell’amore eterno, perché le tombe dell’imperatore e della sua amata non sono altro che la sfida alla nostra esistenza segnata dall’epitaffio “finché morte non ci separi”.

Il Taj Mahal è l’ultimo baluardo dell’umanità convinta che l’amore per la propria donna, nonostante tutto, sia infinito nell’evoluzione che lo conduce a crescere, espandersi in tutte le fasi, dalla giovinezza alla vecchiaia.
Il Taj Mahal, attraverso la sua ala protettiva, libera questo amore eterno dalle convenzioni sociali che hanno affossato l’India sotto i ricatti delle caste.

Le convenzioni sociali non risparmiano nessuno di noi, nella lotta quotidiana ai ricatti degli assurdi e mostruosi riti sociali che vorrebbero dettare legge sulla nostra vita. Il turista se ne va con un mucchio di selfie in tasca, surrogati del narcisismo volgare dei social network.

Il viaggiatore si ritrova accovacciato in silenzio dinanzi al Taj Mahal, perchè l’amore resta un mistero così come la morte.

 

L’amore non bada a caste né il sonno a un letto rotto. Io andai in cerca d’amore e mi persi. (Proverbio indù)

Da “Amare significa non dover dire mai mi dispiace” a “Ya Pihi Irakema”

La generazione dei miei genitori, sposata all’alba degli anni ’70, fu benedetta da questa citazione di Erich Segal: “Amare significa non dover dire mai mi dispiace”. In realtà non era una frasetta accartocciata nei Baci Perugina, ma una battuta cruciale del cult movie Love Story che spopolò al cinema con Ryan ‘O Neal e Ali MacGraw, diventando un bestseller negli scaffali delle librerie.

DIVORZI – Quella generazione fu travolta da un incremento pauroso dei divorzi – secondo l’Istat in Italia si passò dai 12 mila del 1980 ai 28 mila del 1990 – ritrovandosi disillusa con una “frase del cacchio” tra le mani. Forse più che rincorrersi nella New York che faceva da sfondo al popolare melodrammone, le coppie di allora si sarebbero dovute accalcare al confine tra Venezuela e Brasile, dove vive il gruppo indigeno degli Yanomamo.

CONTAMINAZIONI – Per le coppie di oggi sarebbe più facile sguazzare nel Rio delle Amazzoni e sentire tra gli alberi un vocio che declama “Ya Pihi Irakema” e che letteralmente significa “Sono stato contaminato da te”. Per farla breve, questo è il modo degli indigeni per dire il nostro occidentale “Ti amo”, sgualcito e maltrattato dalla nostra superbia progressista.

NOI – In realtà, se ci pensiamo bene, non ci lasciamo mai sedurre dalla “contaminazione dell’altro”, ma finiamo con l’accontentarci della “mescolanza”. Non è la stessa cosa. Quando ci mescoliamo finiamo sempre per vivere l’altro nella prigionia di una corazza blindata. La contaminazione ci fa ritrovare l’infinita bellezza del contagio, della crescita e dell’evoluzione dell’io nell’altro, che poi fa maturare il “noi”.

SAGGEZZA INDIGENA – “Amare significa non dover dire mai mi dispiace” è stato l’epitaffio di quella generazione che dal “Ti amo” da fidanzati è passata al “Figlio mio, lascia perdere tua mamma che non capisce un cazzo!” da sposati.
“Ya Pihi Irakema”, perla della saggezza indigena, è la speranza ed è un lusso che dovremmo concederci nell’arte di amare.

 

Una parte di te è entrata in me, dove vive e cresce. (David Servan-Schreiber)

Diario di Viaggio: Tutte le strade dell’Umbria portano a Francesco

Giri e rigiri per ritornare in Umbria, la cui bellezza non è stata screpolata dal furore del terremoto guardingo. Mi giunge voce da Norcia che laggiù si sentono dispersi, dimenticati e questo sgomento è amplificato dal quel che resta della cattedrale di San Benedetto.

Adoro tornare a Perugia prima dei rintocchi della mezzanotte, per strada il brusio degli studenti, nel silenzio di metà settimana, non siamo ancora entrati nel tunnel dei bagordi degli universitari parcheggiati nel capoluogo umbro.
Scappiamo dall’Italia abbagliati dalla frenesia esterofila senza captare l’anima del nostro Paese. L’Umbria è l’anima dell’Italia che si rintana tra arte, cultura, spiritualità per mollare la nostra quotidianità che saccheggia l’essere autentici.

Tutte le strade portano a Francesco, il fraticello d’Assisi che ci ha lasciato in eredità un grande patrimonio che va oltre l’essere stato il giullare di Dio. Questo patrimonio si snocciola nella severità dei francescani, che in un certo senso si sbarazza del cliché che li vorrebbe come quelli disegnati e raccontati sui calendari di Frate Indovino.

Padre Giovanni, sull’ottantina, si affaccia dal suo studiolo all’interno della Basilica di Santa Maria degli Angeli. Ti guarda di sbieco dagli occhiali di metallo come per dire che un frate non è l’interlocutore pronto a dirti ciò che vorresti sentirti dire. Un frate è altro, ti guida, ti ascolta, ti legge dentro, ti scuote e non è scontato il lieto fine. Anzi, meglio prepararsi al peggio – al meglio secondo il punto di vista – perché ci vuole coraggio e fatica per ritrovare la strada di Francesco.

Assisi lascia al pellegrino innumerevoli suggestioni, ma non sono quelle che maturano il cambiamento, l’evoluzione, la crescita. Nel silenzio della Porziuncola, la chiesetta all’interno di Santa Maria degli Angeli in cui San Francesco sostava in preghiera, risuona il monito verso cui ciascun uomo non può mostrare sordità: “Fallire nell’amore è fallire nella vita”.

Quando termina il viaggio tanti si accontentano di tornare a casa con un selfie, un tau, un souvenir. I più testardi, coloro che sono caduti e provano a rialzarsi, ripartono con il desiderio di ritornarci per vederci chiaro una volta e per tutte.
La morte non può farti paura quando ammetti con te stesso di essere circondato da zombie, che frullano la routine sottomessi dai ricatti dei legami consumistici.

Il viaggiatore si guarda allo specchio dell’anima e non vuole più rimanere paralizzato. Tutte le strade dell’Umbria portano a Francesco perché “un raggio di sole è sufficiente per spazzare via molte ombre”.

Esercizi d’amore: (meglio) sposare la persona “sbagliata”

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rosario_pipolo_blog_2Tra i ritagli della mia rassegna stampa avevo messo da parte un articolo di Alain de Botton, apparso a fine maggio scorso sul New York Times e poi ripreso in Italia da Il Post. Lo scrittore senza troppi fronzoli metteva in risalto come l’idealizzazione e la nube tossica del romanticismo ci portino a sposare la persona sbagliata.

Non mente la penna svizzera quando elenca la quotidianità della vita matrimoniale tra rate del mutuo da pagare, bambini da portare a scuola o barcamenarsi in quella routine che non ci farebbe riconoscere neanche i bigliettini che scartavamo a prima mattina dai baci di cioccolato.
Privo della saggezza e acutezza di uno scrittore alla portata di de Botton, mi sono piazzato sull’altra sponda ad osservare coloro che saranno nelle condizioni di sposare la persona giusta: calcoleranno tutto per filo e per segno; si pavoneggeranno nel benestare degli altri con il meritato “come state bene insieme”; faranno della logica la planimetria di un progetto di vita insieme.

Il rischio, a mio modesto parere,  è che dietro la logica si nasconda una felicità di cartongesso. Chi si accontenta gode, sillabavano dalle mie parti. Chi non si accontenta?
Chi non si accontenta finisce per sposare la persona sbagliata perché, mettendo da parte la saggezza di Alain, tutto parte dall’unico muscolo, custode del nostro innamoramento da evoluzione della specie: il cuore.

Caro Alain, sa cosa le dico? Nell’era dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi di Facebook che vorrebbero mescolare le carte; nello sproloquio degli schermi digitali che ci fanno camminare con gli occhi bassi; nel tempo divoratore che deve mettere alla prova per forza chi dovrebbe camminare al nostro fianco, abbiamo dimenticato l’essenzialità.
Quando un dì ci libereremo delle vecchie carcasse dei nostri corpi ingombranti, non saremo zombie perché ci siamo ostinati ad essere anime che hanno vissuto.

Sì, sposeremo la persona sbagliata con il rischio che ci tiri appresso il mazzo di fiori per San Valentino o ci lanci dalla finestra il regalo di Natale, senza neanche il tempo di sbraitare “che caratterino”. In quel momento ci torneranno in mente le sagge parole di Papa Francesco: “Tiratevi pure i piatti, ma alla fine fate pace”.

Sposeremo la persona sbagliata, non per partito preso, ma con consapevolezza irresponsabile, ovunque essa sia sulla strada della felicità.

Nonni per sempre nella grande festa della vita

festa-nonni-2-ottobreLa mia vita è spaccata a metà. I primi 23 anni sotto la custodia dei miei nonni Pasquale e Lucia, gli ultimi venti senza di loro. Il dolore per la perdita immensa spettinò i miei vent’anni, li scapigliò e mi fece rendere conto che non avrei mai avuto bisogno di una festa dei nonni per ricordarli.

I nonni non si celebrano, si vivono, qualsiasi sia il rendiconto da pagare, anche quello di sovrapporli ai genitori. I parenti sono suppellettili, è legittimo svincolarsi lungo il corso della vita.
I nonni no, soprattutto coloro ai quali abbiamo consegnato la chiave d’accesso alla nostra nascita, infanzia, adolescenza, al nostro divenire uomini. E questo non perché li incoronai nonni  proprio con la mia nascita, all’alba dei loro cinquant’anni.

Non è questione di posizionamento, nonostante le dicerie popolane insistano che il primo nipote sia come “il primo amore”, non si dimentica mai. E’ questione di accoglierli nella propria vita come fari della quotidianità, senza ridurli alla coppia di anziani da andare a trovare qualche domenica a pranzo.

Ho lasciato che i miei nonni ingombrassero la mia vita con amore, saggezza, presenza quotidiana, coinvolgendoli in qualsiasi cosa facessi, senza l’odiosa soggezione che alza muri e barriere. Nonno Pasquale e nonna Lucia mi hanno fatto ricco, lasciandomi una grande eredità: i piccoli e grandi segreti di famiglia, un patrimonio della memoria per affrontare la vita e imparare a distinguere le persone mediocri da quelle altruiste, fatte di sostanza e non di apparenza gonfiabile.

Nonno Pasquale mi donò un’edizione del libro Cuore degli anni ’50, su cui aveva scritto il suo testamento: “Leggo e rileggo questo libro e più mi rendo conto che non tutti gli uomini sono cattivi verso il prossimo. Che Iddio non si dimentichi mai di me”. Dopo la sua scomparsa, nonna Lucia esaudì il mio desiderio di far scolpire queste parole sulla sua lapide.

Non ho bisogno della Festa dei Nonni o dei bagordi di una ricorrenza per fingere di essere stato un nipote premuroso. Loro restano sostanza del mio divenire e il vuoto vissuto per la loro perdita di allora si è trasformato nel dondolio di memorie e futuro. Ci ritroveremo un giorno, come se niente ci avesse mai separato, nella soffitta dell’eternità.

Il ferroviere Gianmaria Testa e le dimestichezze d’amor

Rosario Pipolo

Siamo diventati tutti balbuzienti quando si parla d’amore tra gli emoticon di WhatsApp e sfilate di chat accorciate dalla voglia di essere sgrammaticati per il timore di essere noi stessi. Ci vuole dimestichezza in amor come ha sussurrato Gianmaria Testa sugli accordi di una chitarra fischiettante.

Eravamo drogati dal furibondo tam tam quotidiano per accorgerci che un ex ferroviere, attraversando i binari degli acquerelli musicali di Paolo Conte sfumati nella ballata di Sergio Cammariere, ci aveva svelato il piccolo segreto: le dimestichezze d’amor sono andare oltre “la notte che si arrende”. E così lasciamo passare storie, legami, condivisioni, baci belli come la refurtiva di un tesoretto ritrovato in fondo al mare.

E’ come quando ti godi la tua estate on the road, lasciandoti dietro le carezze della borina di Trieste, pensando che quella sia la prima di tante altre. Invece no, è l’ultima estate insieme e la fine ti coglie di sorpresa come la morte che giunge senza convenevoli o preavvisi.

Ci vogliono le dimestichezze d’amor cantate da Gianmaria Testa perché, senza fare chiasso o inutile baldoria, tracciano lungo un filo di spago la vita e i sentimenti di noi gente semplice, gente comune, gente ordinaria che possiede una sola ricchezza: diluire la quotidianità in una canzone, spingerla nei suoi abissi, farla ritornare a galla e poi asciugarla al sole.

I francesi ci hanno invidiato Gianmaria Testa fin dal primo momento. Si erano accorti che le parole imbrigliate tra le corde della sua chitarra tenevano lontani i sentimenti dai fuochi pirotecnici del nostro tempo, in cui l’eternità si ammazza nel tempo di una stagione.

Ci vuole dimestichezza in amore. Il treno ha fischiato. Grazie, maestro.

San Valentino: “Per essere felici ci vuole coraggio”

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Rosario PipoloBighellonando nel centro di Cremona, mi ritrovo accanto due ragazze. La più giovane, avrà avuto a malapena vent’anni, chiede all’altra: “Quest’anno ti hanno fatto il regalo più bello per San Valentino. La casa nuova è stata imbiancata e finalmente andate a vivere insieme”.

L’interlocutrice, poco più di trent’anni, replica: “Sono due anni che siamo sposati in comune e, per un motivo o un altro, non abbiamo vissuto mai sotto lo stesso tetto. San Valentino mi ha illuminata. Non è lui l’uomo che vorrei accanto nella vita. Chi glielo dice ai miei?”.  

Senza dare nell’occhio origlio la conversazione e faccio qualche riflessione. L’abito commerciale, con cui è stato vestito il 14 febbraio, si sgualcisce di fronte ai ventenni e i trentenni di oggi, arbitrati dalla mia generazione.
Capita così che una ricorrenza, per tanti ridotta al tiro a sorte dell’aforisma pescato da un Bacio di cioccolato, diventi il momento complicato della resa dei conti, di una scelta.

Da che parte sto io? A fianco della ventenne che, senza peli sulla lingua, chiude così la conversazione: “Il tuo non è un matrimonio, è una firma. Il vero amore è altro”.
Appena va via l’amica, la ragazza non riesce a trattenere le lacrime e dirotta gli occhi bagnati nella vetrina di una pasticceria cremonese, allestita con tante golosità per il 14 febbraio. Un sottile sorriso sboccia dagli occhi lucidi, dopo aver avvistato in vetrina un buffo orologio con la scritta tra le lancette “Più passa il tempo, più ti voglio bene”.

Provando a mettermi nei suoi panni, mi torna in mente una sacrosanta verità. L’aveva messa nero su bianco la scrittrice danese Karen Blixen: “Per essere felici ci vuole coraggio”. E non è questione d’età, aggiungerei.

La Festa della Mamma che verrà

Rosario PipoloOsservando diversi “pancioni” intorno a me, mi vien da pensare che questo 10 maggio annuncia la Festa della Mamma che verrà, quella dell’anno prossimo, quando il bimbo o la bimba saranno tra le braccia della neo mamma.

Tutto sommato si potrebbe condividere già un accenno visto che, nel grosso marsupio naturale, c’è il nascituro che scalpita per affacciarsi alla vita.
Prospettiva apparentemente diversa è quella del figlio, soprattutto quando accade che la mamma non c’è più e, ripensando alla Festa della Mamma dell’anno precedente, mai avremmo immaginato che sarebbe stata l’ultima condivisa insieme.

Da una parte scatta lo sgomento di non trovarla più al posto suo per farle gli auguri, darle un bacio, lasciarle sulla credenza del soggiorno il mazzo di fiori profumato che le piaceva tanto. Dall’altra fiorisce una rabbia istintiva,  perché non poter festeggiare la mamma è un’ingiustizia per noi figli.

Ecco che germoglia la festa della mamma che verrà. Non si tratta di un abusivismo nel giorno dedicato a tutte le mamme, piuttosto di un ampliamento di visuale ciclica che abbraccia passato e futuro.
Restiamo figli per sempre, anche quando abbiamo un nuovo nucleo familiare, anche quando ci ritroviamo randagi solitari dall’altra parte del mondo.

La Festa della Mamma che verrà non è recintata nella claustrofobia emotiva di una domenica, ma va al di là di ciò che è stato il nostro legame con lei nella quotidianità della vita. E’ ritrovare un rapporto unico e continuativo che galleggia nell’universo, un amore scritto all’alba della vita. Perciò la Festa della Mamma che verrà non è dedicata solo alle “mamme in dolce attesa”, ma anche a tutti i figli testardi e convinti che lei verrà.

Tradimenti e la parabola del backyard

Rosario PipoloTradimenti, piccolo perla della drammaturgia di Harold Pinter, ha quasi quarant’anni ma non patisce l’invecchiamento, soprattutto oggi che la labilità di qualsiasi legame è messa alla prova. Il tradimento verso gli altri e verso noi stessi, di qualsiasi entità, dovrebbe essere spedito al patibolo, senza “se” e senza “ma”.

Sulle bacheche di Facebook in tanti starnazzano, perché delusi dal piccolo o grande tradimento subìto dalla compagna, dal collega di lavoro, dall’amico di una vita, dalla moglie, dal vicino di casa, dal fidanzato, dal parente. Potrei andare avanti ancora tanto.

Quelli più insidiosi restano i “tradimenti minuscoli”, quasi impercettibili, che minano una relazione molto più di quelli eclatanti e che fanno rumore. Sfogliando le pagine della drammaturgia religiosa, il rinnegamento dell’apostolo Pietro, passato in sordina, è più infido rispetto al tradimento di Giuda Iscariota e alla svendita di un amico per trenta miserabili denari.

Attraverso i social network ci disabituiamo a tutelare una relazione autentica: ci illudiamo che una manciata di “like” o un paio di repost di vecchie foto patinante di nostalgia aggiustino tutto. Incide l’arroganza e la spavalderia 3.0, che ha abbattuto la colonna portante di un legame: entrare a far parte della vita dell’altro è un privilegio da non sciupare e non è poi così scontato il reintegro.

Il backyard di una casetta inglese mi lasciò una lezione durante il primo viaggio in Inghilterra nel 1988: si chiuse la porticina della cucina e finii nel cortiletto posteriore senza riuscire più a rientrare. Pur facendo ancora parte dell’unità abitativa non avevo più accesso alle mura domestiche.

Questo episodio mi ispirò la parabola del backyard, ovvero la parabola dell’isolamento senza saldi, resoconto perfetto di cosa capita a chi viene allontanato improvvisamente dalla nostra vita, in silenzio, senza sollazzi chiassosi.

Tornando alla commedia di Harold Pinter, nel ’78 Tradimenti fu un feroce attacco contro l’ipocrita middle-class britannica. Oggi invece che la crisi globale ha sbiadito i contorni della classe media, la pièce teatrale è un punto di partenza per una riflessione generica sul tradimento, la molla che può far scattare in noi la legittima voglia di calpestare la mediocrità, lentamente e in silenzio, senza sconti.