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A San Valentino verso casa di Mimì Bertè

Quando acquistai la prima casa, mi sentii fin dal primo momento “vicino mancato di Mimì Bertè”. Distavo in linea d’aria una manciata di chilometri dall’ultima abitazione della grande interprete. Un anno dopo il trasloco, mi misi in auto e cercai quelle mura a Cardano al Campo, in provincia di Varese, che l’avevano custodita fino all’ultimo giorno.

Mentre mi avvicinavo allo stabile, mi tornarono in mente le parole di Matteo, agente immobiliare e primo amico della zona: “La casa è lo specchio dell’anima delle persone.” In realtà, io e Matteo stringemmo amicizia proprio su questa riflessione e lo sforzo di guardare oltre la corteccia della professione.
Quella stradina a Cardano e quella casa – non avevano niente a che fare con la residenza di una diva – mi fecero ritrovare la persona, la semplicità, la bellezza di donna del Sud, lontana dal personaggio Mia Martini costruito dai discografici di allora.

Le mura della casa a Cardano trasudavano di antidivismo, perché Mimì Bertè aveva battagliato da donna emancipata anche contro i pregiudizi che ammazzano la personalità e il maschilismo avvelato ai vertici dell’industria discografica italiana negli Anni di Piombo.
Chi ha seguito con passione e costanza i suoi passi musicali, sostenendola anche con l’acquisto dei dischi nel corso del tempo, non può accontentarsi di una fiction televisiva o delle dichiarazioni audaci dell’attrice protagonista, a proposito dei “no clamorosi” di chi non è voluto comparire: “Voglio credere sia stato tutto un atto d’amore di Mimì, che abbia scelto lei che facesse parte del suo film solo chi le voleva veramente bene.”

Nessuno dovrebbe avere l’arroganza di farsi portavoce dell’intimità di Mimì. Oggi, nel giorno di San Valentino, Festa degli Innamorati, vado in direzione della sua casa, perché Mimì Bertè è stata innamorata anche dell’amore e dei sogni.
L’immaginazione mi farà vedere danzare, tenendosi per mano su un balcone di Cardano al Campo, l’interprete e l’autore che le scrisse questa canzone:

“E non finisce mica il cielo
Anche se manchi tu,
Sarà dolore o è sempre cielo
Fin dove vedo.”

Mimì Bertè resta un angelo libero e questo lo sanno bene tutti coloro che credono ancora nel potere strabiliante dell’immaginazione.

Caro vecchio divano…

Quando mi sono disfatto del vecchio divano e sono venuti a ritirarlo per far spazio a quello nuovo, ho visto un pezzo della mia vita andarsene via. Direte un divano?
Nessun attaccamento tipico del feticismo da amante d’arredamento. Anzi, se ci ripenso gli arredi della mia vita sono stati le fermate d’autobus, le panchine, gli angoli delle stazioni, le vecchie cabine telefoniche perché da viaggiatore mi hanno fatto conoscere altri viaggiatori della vita.

Quando ero piccolo il divano era rinchiuso nella lontana stanza-salotto che noi gente del Sud usavamo aprire soltanto nelle grandi occasioni. Otto anni fa mi trasferii nella nuova casa e volli il divano nel cuore del soggiorno con una penisola che il più delle volte finiva per ridursi a scrivania.
Per carità non sono un pantofolaio e i divani mi hanno sempre dato l’aria di quella pigrizia e noiosa indolenza da cui sono stato alla larga.

Per questo è stato diverso, la fodera è stata una sorta di moviola di condivisioni: ci sono passate decine e decine di persone che all’inizio lo scambiavano per un divano letto. Invece no, non era trasformabile, era un divano punto e basta.
E chi ci ha dormito in questi anni si è adattato con uno stato di provvisorietà che faceva dei cuscini presi a Londra, la città dove sono rinato da adolescente, e della coperta dell’ospite un barlume di provvisorietà che ti faceva  sentire in un mini accampamento fatto in casa.

Quel divano, se ci ripenso, è stato l’isola che mi ha fatto viaggiare stando fermo: migliaia di vinili ascoltati, letture, film rivisti e poi bivaccato con le dita sulla tastiera del pc a scrivere, correggere, riscrivere, sbobbinando interviste, imbastendo i capitoli del mio romanzo, cacciando i biglietti per i nuovi viaggi, appuntando itinerari, scarabocchiando sogni della mia nuova vita in una terra che non era la mia. Chiacchierate e segreti condivisi con i miei interlocutori come se fosse la seduta di un talk show intimo per svelare la nostra specie in estinzione, avvinghiare aspettative, raggomitolare progetti futuri, cambiando magari posto perché la penisola ti permetteva di stendere le gambe.

Il divano era lì fermo e immobile a raccogliere vita su vita, pattumiera di sconfitte o sputafuoco di successi, notizie belle o brutte, il dolore immenso per la notizia di persona cara scomparsa, come una puntura endovena; la gioia nel vedere la tua nipotina, per la prima volta a casa, riconoscere nello spazio del divano la libertà negata da una minuscola culla.
E poi lo smaltimento di coccole e tenerezze tra lei che guardava la televisione nella zona della penisola ed io che puntualmente mi addormentavo sulle sue gambe senza mai riuscire a ricordare il finale del film.

Il pavimento è vuoto ora e c’è ancora il segno del vecchio divano. Spero che ritardino la consegna del nuovo. Non fraintendetemi, non è nostalgia per un pezzo d’arredo. E’ piuttosto la consapevolezza che un divano sa essere cantastorie ed io ho imparato ad usarlo come un tappeto volante sulla mia esistenza.

Storie di casa mia: Se al ritorno dalle vacanze, il tuo vicino Silvio è partito per sempre…

Rosario PipoloI luoghi comuni recitano che i rapporti di vicinato siano quasi inesistenti al di là del Po e siano un’esclusiva del Sud. A dire il vero non ho mai amato “le comunelle” del vicinato chiassoso che nutrivano il folclore delle zone in cui sono cresciuto. Ho riconosciuto però, in diverse occasioni, il valore aggiunto di un buon vicino di casa.

Quando più di quattro anni fa ho cambiato casa, Silvio è stato il primo che ho incrociato. Il signore ottantenne conosceva ogni angolo della palazzina dove mi ero trasferito e mi offrì le giuste indicazioni, da come aprire il cancello alla gestione della raccolta differenziata. Nel giro di pochi mesi Silvio si rese conto che, oltre ad essere il condomino più giovane, ero anche quello più sregolato, che non aveva mai orari. Appena capitava l’occasione di incrociarmi, mi sussurrava: “Quando sento la musica ad alto volume, so che si aggira da queste parti”.

Il mio vicino sapeva porgerti persino un rimprovero con garbo ed era una piacevole sorpresa ritrovarmelo all’improvviso, come fosse l’ombra di mio nonno, accanto al garage o alle prese con il suo orticello. Spuntava nel momento in cui meno me lo aspettavo. Avrei conosciuto il suo passo lento ovunque. Al ritorno dalle vacanze, non ho sentito più i suoi passi e il bidoncino della spazzatura, che lui puntualmente mi metteva dentro, era rimasto lì.

Mi hanno avvertito che, proprio nelle stesse ore del mio rientro, Silvio se ne era andato per sempre: con garbo, senza far rumore, nel suo stile. C’eravamo salutati prima delle vacanze e, osservandolo mano nella mano con sua moglie, dicevo tra me e me: “Spero di arrivare alla sua età con tanto amore negli occhi per le mia donna”. Sì, perché Silvio nascondeva nel suo sguardo sterminato amore.
Rincasando stasera mi sentirò più solo, perché non ci sarà più l’anziano signore del piano di sopra che a modo suo si preoccupa per me. Allora metterò ad alto volume su un vecchio vinile una canzone dei Beatles, aspettando che Silvio bussi al campanello per chiedermi di abbassarlo. E se ciò non accadesse, sparerò ad alto volume un concerto Brandeburghese di Bach, l’unica musica che può arrivare in fretta alle orecchie di Dio. Sono convinto che da lassù Silvio dirà al Padreterno: “E’ il mio vicino di casa. Anche qui riesce a farsi sentire. Questa volta però non lo rimprovero perché questo è il suo modo stravagante di salutarmi”.*

*Dedicato a Silvio Minoli (1925-2013)

Cartolina da Recanati: Leopardi non abita più qui?

Si finisce a Recanati per un motivo solo: intrufolarsi nella casa natale di Giacomo Leopardi e farsi una sana scorpacciata di vecchie memorie scolastiche. Sulla piazza del Sabato del Villaggio c’è un caldo micidiale e all’orizzonte neanche l’ombra della “donzelletta che vien dalla campagna”. Le finestre del palazzo Leopardi sono chiuse e degli eredi che lo abitano neanche l’ombra. Non vedremo mai nessuna delle stanze, peccato. La scelta è obbligata: una mostra multimediale e la sterminata biblioteca dello “studio matto e disperatissimo”. Della prima ne possiamo fare a meno. La seconda è l’unica via di uscita per annusare qualcosa del grande poeta.

E’ tutto lì tra quei tomi, mentre la memoria si sbriciola tra i racconti della guida, che spesso si lascia andare a spasimi emotivi, quasi fosse un erede. Non basta lo scrittoio, non bastano quelle finestre per riportarci all’autenticità d Leopardi. Del resto proprio i recanatesi, da cui Giacomo se la diede a gambe, oggi farebbero di tutto per riaverlo lì. Le spoglie sono lontane, all’ombra del Vesuvio, sulle cui falde sbocciò la ginestra, il fiore che di Giacomo fece intravedere altro.
Lasciamo da parte i gossip letterari – tra i desideri repressi per Silvia (alias Teresa Fattorini) e il dispotismo del papà Monaldo – l’ingordigia di alcuni studiosi affossati tra il pessimismo storico e quello cosmico o l’apparente strafottenza attribuita alla maggior parte degli studenti italiani, vittime spesso di docenti indecenti, che sul poeta recanatese sapevano sputare fuori soltanto pappardella in saldi.

Giacomo Leopardi è molto più vicino ai giovani di quanto pensiamo e non sono le mura di quel palazzo a Recanati a testimoniarlo. Sono piuttosto alcuni versi, da “Il Sabato del Villaggio” a “Alla luna”, sbandieratori dell’anima popolare di una bella canzone di musica leggera. Eretico io? Ebbene sì.
Il tenore Luciano Pavarotti ha svestito la lirica dallo snobismo nei confronti della musica pop, perché non avrebbe potuto farlo il poeta recanatese più di un secolo prima? Alcune sue poesie anticipano i testi di una canzone intensa che sarebbe finita tra le mani di un cantautore italiano nei primi anni ’70 del secolo scorso.

L’essenza di Giacomo Leopardi è solo lì, su quel colle, che gli ispirò uno dei componimenti più belli di tutti i tempi, l’Infinito, appunto, che sarebbe potuto essere nel nostro tempo la ciliegina sulla torta di un lirismo musicale alla Mogol-Battisti. Nell’Infinito persiste la voglia di evadere, anche da quel provincialismo di cui era annacquata la comunità recanatese.
Da quel momento Giacomo Leopardi non è stato più né prigioniero di quel palazzo né cittadino recanatese, ma viaggiatore dell’universo. E il visitatore incontra il poeta-viaggiatore proprio su quel colle, mentre all’orizzonte le nuvole rivendicano, nel nostro tempo volgare, il “naufragar m’è dolce in questo mare”.

  Casa Leopardi

Imu: Oltre al danno, anche la beffa

La parola chiave è fatta di una povera consonante accerchiata da due vocali. Se l’Imu fosse formata da tre numeri, da vecchi giocatori incalliti gli italiani se li sarebbero già giocati. La tassa malefica è l’incubo della primavera, perché, nonostante Mario Monti si sia preso la briga di passare al Salone del Mobile di Milano per rassicurarci, resta davvero un colpo basso. Sputa in un occhio dell’ultimo sogno dell’italiano: un tetto di proprietà sopra la testa. La soluzione più easy è una bella “casetta in Canada”?

Si fa a scaricabarili perché i conti non tornano. La “sòla bella e buona” ce l’ha tirata il governo precedente, stonando con “Addio mia bella ICI”. Adesso restituiamo tutto e con gli interessi triplicati.
Mentre i partiti, chi più e chi meno, sono travolti da scandali e affari immobiliari, la stangata la subisce chi ha un mutuo acceso per la prima casa: oltre al danno, anche la beffa. Soldi da versare alla banca, alla quale si aggiunge una tassa di un immobile che per giunta non è ancora di proprietà. Mentre gli intoccabili delle caste, parlamentari inclusi, continuano a svignarsela, i poveri fessi restiamo noi.

Ieri in treno una signora sudamericana mi ha rimproverato: “Dite che noi siamo terzo mondo, ma dalle mie parti l’imposta sulla casa è davvero equa e il conto ci arriva preciso a domicilio”. Se continua così, dovremmo tagliare i costi della badante accanto all’anziano di casa e prenderci un contabile, perchè qui nessuno ci capisce un fico secco.

Mi sa che, per sfuggire al ricatto dell’Imu, rinuncerò alla mia casetta e farò come Beniamino Lomacchio, l’impiegato comunale del film di Steno & Monicelli “Totò cerca casa”. Chiederò rifugio in un’aula scolastica. Ops, dimenticavo che la scuola italiana sta messa peggio del secondo dopoguerra del secolo scorso.
Tra poco obbligheranno i nostri figli a fare i turni di notte per mancanza di aule e suppellettili.E noi li proteggeremo facendoli dormire di giorno per non destare il sospetto di vivere in un Paese dove, all’alba di ogni giorno, c’è un suicidio.

  Calcola l’Imu

Lettera al blogger: “Aiuto, la banca mi toglie la casa!”

Ho ricevuto questa lettera all’indirizzo email di questo blog. Ho ritenuto opportuno pubblicarla, anche se questa volta mi trattengo e preferisco non esprimermi. Lascio al lettore le eventuali considerazioni in merito al caso:

“Il mio amico vietnamita è giunto in Italia da profugo della guerra ed ora è un cittadino Italiano in regola a tutti gli effetti. Una decina di anni fa chiese un mutuo alla Banca Popolare di Bergamo per poter ristrutturare un’abitazione in zona Maciachini a Milano. Per l’occasione vendette anche il suo piccolo monolocale, frutto di tutti i sacrifici fatti nel nostro Paese durante i quasi vent’anni di permanenza.
Le cose sembravano procedere per il verso giusto, ma un licenziamento ingiusto (causa vinta) e alcuni problemi di salute lo portarono ad avere qualche arretrato con la Banca. Io e qualche altro amico gli prestammo dei soldi per aiutarlo. Nel frattempo riuscì a mettere a posto la casa e decise di metterla in vendita per non avere più debiti né con noi né tantomeno con la Banca.

Le difficoltà del mercato immobiliare, assieme a quelle di riconquistare la stabilità lavorativa, hanno riacceso il conflitto con l’istituto bancario. Per ripagare il debito, è riuscito ad affittare due stanzette della casa e a portare regolarmente dei soldi che erano leggermente al di sotto della rata stabilita. Nemmeno il tentativo di rinegoziare il debito è andato a buon fine. A fronte di un valore stimato dell’immobile di circa 300.000 euro la Banca ha proceduto al pignoramento per un debito di 44.000 euro + 5000 euro per le relative spese legali.
L’avvocato del mio amico ha mediato con la banca che chiedeva 20.000 euro subito e 1000 euro di rata, con 10.000/11.000 euro (racimolati alla disperata con aiuti vari) e 700 euro di rata che vengono presi dai due affitti. La Banca  ha rifiutato e a breve ci sarà l’udienza. La parola al Giudice.

Ebbene, di fronte a questa piccola storia, penso comune a tante persone in Italia, si rimane sbalorditi ed impotenti di fronte al meschino atteggiamento volto solo a distruggere una persona onesta (da più di 20 anni cliente della medesima) che ha sempre lavorato con correttezza ed ha sempre cercato, facendo l’impossibile, di ripagare il suo debito.
Sono consapevole che la Banca persegue il suo interesse, ma nel caso specifico i 10/11 mila euro ripagano gli arretrati, mentre i 700 euro mensili mi sembrano una degna rata per ripagare i 38.000 rimanenti, comprese le spese legali”.

M.F.B.

Facebook: tutti pazzi per Cityville? Io, no!

L’anno scorso un amico osò interrompere la nostra conversazione telefonica: “Adesso ti lascio, devo tornare alla mia fattoria”. Ed io con aria bonaria replicai: “Non sapevo di questa nuova attività”. Insomma, mi ero imbattuto in un’altra vittima del gioco facebookiano di Farmville.
All’inizio del 2011 il popolo del social network più affollato del pianeta si sta dando alla pazza gioia su Cityville, il nuovo game che vi trasforma in proprietari di una bella casetta, senza l’accollo di un mutuo. E’ nato pure il primo fan site tutto italiano con trucchi e segreti.
“Cos ‘e pazz”, direbbero nella mia Napoli, soprattutto se la ragazza che ti piace diventa abitante della nuova città facebookiana e non c’è niente che le faccia fare un passo indietro.
“Scusami, mi tocca andare a raccogliere le carote”, ti scrive improvvisamente in un messaggio. Insomma, un modo garbato per liquidarti. Tuttavia, c’è sempre una consolazione, prima che sopraggiunga l’estrema unzione: ti invita ad entrare nel paesotto virtuale di Cityville e diventare suo vicino di casa. Qui il vicino puoi scegliertelo su misura. Accipicchia, che fortuna mi sono detto inizialmente! E pensare che io mi stavo dannando per affittare un buco che affacciasse su casa sua per corteggiarla alla vecchia maniera.
Io non voglio la residenza a Cityville, ma nel suo piccolo mondo, quello vero in cui potremmo condividere anche il gioco, perchè no, magari facendo un furtarello di tanti pezzettini delle costruzioni Lego e abbozzare la casetta dove vorremmo vivere assieme.
Il rischio? C’è ed è quello che mi ripeta la solita filastrocca: “Mi spiace tu sia arrivato fin qui. Mi tocca andare a raccogliere le carote”. E non quelle che mia mamma mi spiattellava ogni settimana a pranzo, ma quelle finte di Cityville, che non hanno sapore e ci privano di un bellissimo piacere: tornare a “giocare” guardandoci diritto negli occhi.

Mina 70, un batticuore sotto casa sua

Da adolescente soffrivo della sindrome del cavaliere romantico. Se mi piaceva una ragazza, la aspettavo sotto casa e non mi muovevo se non la vedevo uscire. L’estate scorsa sono stato a Lugano per lavoro. La conferenza stampa era fissata ad ora di pranzo ed io sono arrivato in Svizzera in largo anticipo. Ho iniziato a girovagare, è stato più forte di me, volevo incontrarLa. Sono finito da tutt’altra parte, ma poi per fortuna ho trovato l’indizio che mi ha portato sotto casa sua. C’era un piccola bottega di alimentari poco distante: ho acquistato una bottiglia d’acqua, sperando che passasse a fare la spesa. Ho sostato all’edicola e mi sono intrattenuto a parlare col tizio. Di lei neanche l’ombra. Dopo una decina di minuti, avevo oltrepassato il cancello ed ero nel condominio dove abitava. Scrutavo balcone dopo balcone e immaginavo che lei uscisse fuori a stendere il bucato. Mina era una cantante, mica una casalinga? Si era fatto tardi, sono andato via. Il giorno dopo, di domenica pomeriggio, ci sono tornato prima di prendere il treno. Ho provato a citofonare al portinaio, niente da fare. La discrezione svizzera non si smentisce mai. Mi sono steso a terra, lanciando lo sguardo verso il cielo. E’ spuntato quel timido batticuore che mi assaliva da adolescente. Lei quel pomeriggio non era uscita ed io c’ero rimasto male. Mi consolavo perché dopo tutto lei era a pochi passi da me, magari nella sua cameretta che impazziva con la versione di latino.  E Mina Mazzini dov’era? Forse dietro di me e non me ne sono accorto. Questa paginetta del mio diario, signora Mazzini, è solo un pretesto per farle gli auguri di compleanno per i suoi 70 anni. Ognuno ha “la sua Mina” , e la mia non è di certo né  quella di Le mille bolle blu né quella di Brava. Mi piace portarmi addosso la voce graffiante di Il corvo, la voce folgorante di Rose su rose, la voce che rialza la speranza di Amornero. Le lascio una carezza perchè la sua voce mi ha tenuto compagnia in certe sere nere, desolate, quando rincasavo tardi e non c’era nessuno ad aspettarmi.