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Tina Turner, locandina film

Tina Turner e la stretta di mano che conservo nel cuore

Occhiali

Tina Turner non c’è più. Non mi sembra vero perché la sua musica è stata la colonna sonora dei miei lunghi viaggi negli USA verso il mondo afroamericano. A lei mi lega un bellissimo ricordo, al Lido di Venezia, nella cornice della Mostra del Cinema di Venezia.
L’emozionante film Tina – What’s Love Got to Do with It di Brian Gibson, presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia del 1993, mi illuminò sulle enormi sofferenze di questa donna afroamericana. Quanti di voi sapevano che dietro la voce da leonessa nascondeva i lividi e le ferite dei maltrattamenti dell’ex marito e partner musicale Ike Turner?

TINA – WHAT’S LOVE GOT TO DO WITH IT

Allora Tina Turner non è stata protagonista di un biopic costruito a tavolino, come accade in alcune effimere operazioni di marketing cinematografico dei giorni nostri. Tina – What’s Love Got to Do with It è stato un bel film tra musica e privato, tra palco e casa, che ha saputo raccontare una delle voci più graffianti del rock e della black music.
Nel dicembre 2005 un bus americano della Greyhound mi condusse da Nashiville a Memphis. Attraversando il suo amato Tennessee scorsi i paesaggi dell’infanzia e della giovinezza di Anne Mae Bullock, in arte Tina Turner, per chi l’ha amata spassionatamente semplicemente Tina. Il cinema stimola riflessioni acute e la musica diventa pane per i denti dei viaggiatori ammalati come me degli on the road.

TINA, TESTIMONE CONTRO LA VIOLENZA SULLA DONNE

Sono passati trent’anni esatti dalla proiezione in anteprima in Sala Grande del film dedicato a Tina Turner e su un punto voglio essere chiaro. Ai tempi non si parlava di femminicidio o si denunciava la violenza sulle donne con la disinvoltura dei giorni nostri. Tina – What’s Love Got to Do with It resta un titolo manifesto. Lo avevo guardato già in mattinata alla proiezione riservata a noi della stampa ma bissai la sera stessa, ritrovandomi con un gran regalo tra le mani.
A mezzanotte Tina Turner arrivò a sorpresa in sala e tutto il pubblico della Mostra del Cinema di Venezia le tributò un’interminabile valanga di applausi e standing ovation. I suoi bodygard non le davano un attimo di respiro.

QUELLA CAREZZA DELLA SERA

Le urlai: “Grazie, Tina. Che il tuo coraggio sia un esempio per tutte le donne che hanno paura di denunciare la violenza degli uomini farabutti e vigliacchi.” Lei si voltò, incrociò il mio sguardo da ventenne, fece cenno alle guardie del corpo e si avvicinò. Mi diede una carezza e mi strinse forte la mano.
Dal 1993 conservo ancora nel cuore quegli istanti. Ad accompagnare tanta vita dell’uomo cinquantenne che sono oggi, c’è stata anche la musica di Tina Turner, tra graffi e ferite, sofferenza e tanto coraggio. Il coraggio di continuare ad amare, nonostante tutto, sempre.

Quante emozioni mi ha lasciato l’incontro con Monica Vitti

Il mio incontro con Monica Vitti nel settembre 1995 diede una sterzata ai miei vent’anni e passa. Dopo quella lunga conferenza stampa al Lido di Venezia confessai a me stesso che avrei intrapreso questo mestiere, anche perché le stesse interviste erano una grande ricompensa nella crescita della vita.

LA MIA MONICA VITTI

Per chi ha preservato il Cinema e la Letteratura dalla gogliardia dei capricci di gioventù, la vita vi ha messo davanti salite e rinunce. Io ho barattato senza rimorsi il destino di un ventenne tra le certezze di provincia per una vita spericolata fatta di nuovi orizzonti in cui vi era riflesso il cinema di cui mi ero nutrito.
La mia Monica Vitti non è stata soltanto la passerella di personaggi cinematografici che mi avevano tenuto compagnia nei pomeriggi d’inverno in cui mi annoiavano tremendamente le versioni di greco e latino. La mia Monica Vitti è stata colei che, quella mattina d’estate, mi accecò di luce tra Alberto Sordi e Giuseppe De Santis, l’ultimo grande alfiere del Neorealismo italiano.

LA SUA GRAFIA E LE LINEE DELLA MIA MANO

Quel che resta dell’incontro, dello scambio di parole dopo l’intervista, di una stretta di mano, è tutto qui, nei segni di una biro blu, in una dedica che per quasi trent’anni è rimasta rinchiusa nel bunker del mio archivio di lavoro. Iniziai a riguardare i segni della sua grafia quandò Monica Vitti si defilò dalla vita pubblica a seguito della malattia.
Ho sempre pensato che l’unico tatuaggio naturale che meriti di appartenerci sia composto dalle linee della mano, alcune delle quali si dice contengano la traiettoria del nostro destino. Nel giorno in cui il cuore di Maria Luisa Ceciarelli ha smesso di battere, accosto alcuni tratti della sua dedica a due linee della mia mano destra. Sotto l’inchiostro c’erano le orme del mio futuro, quello in cui si ridisegna persino la geografia dei legami.

NELLA VITA DEGLI ALTRI

I social media hanno acceso l’arroganza in tanti di poter entrare nella vita degli altri in qualsiasi momento. Monica Vitti e suoi personaggi appartengono alla razza estinta che bussava alla porta della tua vita prima di entrare a farne parte. Al tavolo della mia vita privata vedo sedute alcune persone volate nel cosmo dell’eternità né per legame familiare né per imposizione altrui. E’ una sorta di incantesimo che porta la firma della vita, inspiegabile forma di libertà di amare e lasciarci amare a modo nostro, a qualsiasi prezzo, in una direzione ostinata e contraria alla chiassosa volgarità del nostro tempo.

Inspiegabile, può decifrare questo rebus dell’esistenza umana chi ha avuto il privilegio di viverlo, fuori dal coro. Buon riposo, Maria Luisa. Buon risveglio nell’eternità, Monica.

Lina Wertmüller, travolto da un insolito destino alla Reggia di Caserta

Travolto da un insolito destino alla Reggia di Caserta. Una mattinata insieme a Lina Wertmüller durante le riprese di Ferdinando e Carolina. Io, lo sbarbatello non ancora laureato, penna e taccuino alla mano, inviato dal caporedattore di un quotidiano nazionale e papà che mi ripeteva: “Quando mi chiedono quale mestiere hai iniziato a fare, cosa rispondo?”.

QUESTA VOLTA PARLIAMO D’UOMINI

Travolto da un insolito destino nell’azzurro del mare d’agosto che non c’era. Per me bastava ci fosse lei, dietro la macchina da presa, lo scalone della Reggia di Caserta che mi scivolava addosso. La Wertmüller abbassò gli occhialini e, prima del prossimo ciak, mi disse: Benvenuto“. Forse sarei stato scontato, se per attirare la sua attenzione, avessi esordito citando il titolo del suo film Questa volta parliamo d’uomini.
Macché, proprio con lei che era il mio mito di emancipazione femminile, lontana da stizzinosi slogan e assordanti megafoni riposti in soffitta dalla generazione dei miei genitori.

RIDATEMI MIMI’ METALLURGICO

Il culo gigante in Mimì Metallurgico ferito nell’onore era stato a 12 anni una sorta di luna gigante felliniana: nonno Pasquale me lo aveva fatto osservare senza alcuna censura. Prima di quel set mi ero ritrovato rinchiuso in camerino con Mariangela Melato a rovistare testimonianze di Film d’amore e d’anarchia, anni dopo sulla laguna di Venezia con Giancarlo Giannini a sbucciare noccioline cinefile tra Pasqualino Settebellezze e La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia, appiccicato ad una cornetta telefonica della SIP con Paolo Villaggio dell’altra parte per un memento colorito da Io speriamo che me la cavo.

STRISCIONE DI PROTESTA CONTRO L’INFAME MASCHILISMO

Prima che le femministe di Sinistra si facessero spennare come galline nei salotti borghesi, Lina Wertmüller aveva mitragliato con la sua macchina da presa l’infame maschilismo accampato nel cinema italiano dal Secondo Dopoguerra in poi.
Quanti tra i fetenti nascosti sotto le sagome cartonate da benpensanti si sono mai accorti che i film della Wertmüller sono stati tra gli striscioni di protesta più roboanti Italia?
Intanto di quello shooting di Ferdinando e Carolina mi torna in mente l’armonia tra tutti gli addetti ai lavori, la postura della Wertmüller nei confronti dei suoi attori: autorevole e garbata, severa e con un sorriso sornione sempre per tutti. Da quel reportage mi portai via l’esperienza del set come un gioco di costruzioni, in cui l’atto creativo era condivisione e l’ultimo tassello fuori posto poteva fare la differenza e stimolare chiunque partecipasse alla realizzazione del film.

Lina Wertmüller ha fatto ridere a crepapelle persino gli ingessati a stelle e strisce dell’Academy. Datele retta, basta con questo “maschilista” Oscar.
Da oggi chiamiamola Anna, come da lei suggerito, la statuetta più ambita del mondo.
Evviva Lina, fantasista e anticonformista, autentica rivoluzionaria e avanguardista, che ci lascia in balia della pochezza del nostro tempo.

Interno giorno. Buon compleanno, Massimo

Mentre aspetto Massimo mi perdo nel labirinto di un archivio tra libri, film, ritagli di giornale. Ecco le foto, quelle che cercavo: all’Arci, a lezione, nelle battaglie civili, in bianco e nero negli anni delle contestazioni studentesche, delle lotte sindacali, in viaggio verso il Sudamerica, con un occhio di riguardo, fisso, verso i più deboli, mano nella mano con la sua donna, papà premuroso con i figli.

INTERNO GIORNO

Ah, eccoti. Sapevo che saresti venuto. Ti stupisce che sia passato a trovarti nel giorno del tuo compleanno? Gli uomini sono stolti quando ribadiscono che i compleanni prima o poi finiscono. No, durano all’infinito perché la nascita di ogni essere umano va ricordata senza remora temporale. E poi le nostre vite, Massimo, sono legate le une alle altre come il filo di un gomitolo di lana. Pensa alla mia se non ti avessi conosciuto? Sarei rimasto intrappolato nei film ingurgitati con la passione da ventenne.
Grazie alla tua amicizia e alle tue lezioni tutte quelle sceneggiature messe in fila sono diventate il grandangolare con cui osservare la vita.

Ti spiace se abbasso la tapparella? Non so perché ma in questo posto mi acceca la luce del sole. Ah, dici che è meglio uscire fuori sul terrazzo?

ESTERNO GIORNO

Avevi ragione, qui si sta bene. Da qui si vede tutta la Laguna, laggiù Malomocco e la casa di Corto Maltese, il Lido di Venezia dove trasformammo il sogno di “Villaggio Globale” in tanti corti. Massimo, da quante persone sei riuscito a farti voler bene. In realtà sembra la cosa più facile del nostro mondo, ma dire “ti voglio bene” è complicato perlopiù. Forse perché temiamo che l’altra persona lo reputi un atto tremendamente infantile o rimandiamo soggiogati dal pudore, puntando a chissà quale momento migliore. Non è una fragilità dirlo, ad alta voce, è una liberazione verso chi ci sta davvero a cuore.

Volevo portarti un regalo di compleanno, ma il portiere al piano terra mi ha detto che non potevo. In realtà mi ha ricordato che il regalo me lo avevi fatto tu indicandomi nel sogno dell’altra notte la strada per venire a trovarti. E’ come se avessi perso il conto del tempo salendo in ascensore. La lunga salita mi ha stordito.

INTERNO NOTTE

Da piccolo avevo paura del buio. Mio padre mi rassicurava e mi indicava il punto luce nel fondo della stanza. Non dovevo arrendermi. Stropicciando gli occhi dal punto luce vedevo la proiezione di un’ombra. Ora capisco, eri tu, sei stato l’ombra di papà. Ecco sono venuto a dirtelo.
Ho avuto la fortuna di avere un papà biologico meraviglioso a cui devo tutto, ma tu sei stato per certi versi la continuazione. Quando quella volta mi mise su un treno regionale Napoli-Roma per venire da te, papà instaurò una congiutura tra lui e te: avevate tante battaglie in comune perché sapevate il prezzo del futuro.

ESTERNO NOTTE

E’ arrivato il momento di spegnare le candeline. Come, qui non ci sono candeline? Ah, capisco qui soffiate sulle stelle. Massimo, ho impiegato 48 anni e ora mi è tutto più chiaro: l’accensione e lo spegnimento delle stelle ad intermittenza non è un effetto ottico, ma l’indicazione che da voi quassù qualcuno stia spegnendo le candeline di compleanno. Non si finisce mai di imparare.
Massimo, Massimo, Massimo. Lo senti il suono del carillon nell’angolo? Quello è un motivetto conosciuto… non mi vengono in mente le parole, qui da te confondo tutto. Ah sì, eccole…

Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole

Mentre il mondo sta girando senza fretta

Lo canticchierò guardado negli occhi la tua nipotina Alice, appena avrò la gioia di conoscerla, e le dirò che sei il nonno più orgoglioso dell’universo. Massimo guarda, nella tasca del jeans c’è finita una candelina…Aspetta l’accendo, perché tu sei stato e sei un punto di riferimento nella vita per tanti di noi.
Ora vado, mi sembra di sentire sulla spalla la tua mano proprio come il giorno in cui sei partito. Aiutami a trovare la strada del ritorno.

Massimo, ho deciso. Verrò a trovarti il 4 settembre di ogni anno e il tuo compleanno sarà un pretesto per dare continuità al nostro dialogo. Ora vado…

Buon compleanno, Massimo.

I 70 anni di Jerry Calà nel ricordo della mia intervista alla Capannina

Jerry Calà compie 70 anni e mi torna in mente la fuga da Milano nell’estate 2005 per correre ad intervistarlo alla Capannina di Forte dei Marmi. Avevo espressamente chiesto che l’incontro con l’ex Gatto di Vicolo Miracoli avvenisse nella location dove, 23 anni prima, era stata girata una parte del film Sapore di Mare di Carlo Vanzina.

https://www.youtube.com/watch?v=mwfNpg9PAZ0

JERRY CALA’ E IL CINEMA ITALIANO

Io e Jerry ci trovammo seduti nel retrobottega del mitico locale della Versilia, tra casse di bottigliette di bibite e bustine di snack, qualche ora prima del suo One Man Show. In realtà la mia intervista virò su Calà e il cinema italiano, soffermandosi su quella che avevo definito la trilogia dei passaggi di consegna: Vado a vivere da solo di Marco Risi (1981), Sapore di Mare di Carlo Vanzina (1983) e Un ragazzo e una ragazza (1984) ancora di Marco Risi. Nonostante gli snobbismi degli intellettuali – quarant’anni dopo si sono sbriciolati come i castelli di sabbia – Calà aveva dimostrato in questi tre film che poteva fare ancora, che poteva fare altro.
“Mi fa piacere che tu abbia cominciato ricordandomi la scena finale di Sapore di mare, hai ragione lo scambio di sguardi e rimpianti tra me e Marina (Suma) fu una svolta anche per me. Di quel ciak per Carlo (Vanzina) fu buona la prima e l’operatore di macchina mi disse… Jerry sei stato grande”, mi raccontò Calà in quell’occasione.

https://www.youtube.com/watch?v=72k46WesRwQ

BASTA PARLARE DI CINEMA DI SERIE A O B

L’interpretazione di Jerry contribuì a trasformare i due film di Marco Risi sopra citati in manifesti autentici e romantici della mia generazione, cresciuta sotto l’ombrellone degli anni ’80. “Marco (Risi) sapeva come metterti a tuo agio sul set e questo atteggiamento ti aiutava a tirare fuori il meglio di te – mi spiegò l’ex Gatto di vicolo Miracoli – Non ho mai fatto distinzione tra cinema di serie A o B, questo lo lasciavo fare agli altri. Un film è un film quando arriva al cuore della gente, quando fa da specchietto retrovisore della tua vita.”

https://www.youtube.com/watch?v=x4SglSlgrhk

LIBIDINE, SLOGAN DI STRAFOTTENZA

Nell’intervista alla Capannina colsi la persona e non il personaggio abituati a vedere, il Calà che aveva fatto di “libidine” lo slogan di strafottenza da spiattellare ai fricchettoni che si prendevano troppo sul serio. Citai a Jerry gli ultimi versi di una poesia di Totò:

“C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.”

Jerry mi ricordò, in chiusura della nostra chiacchierata, che Totò era stato un grande maestro perché aveva saputo raccogliere gli stati d’animo di tutti, anche “di coloro che fanno il nostro mestiere e nascondono la tristezza personale per il bene del pubblico.”
Jerry mi salutò e mi ringraziò per le domande. Andò a cambiarsi per lo spettacolo, mentre il pubblico della Capannina lo attendeva e lo reclamava. Restai nel retrobottega e di sbieco tenevo d’occhio il palco. Poi si spensero le luci. La persona si fece showman e la sua ombra saltò sotto le luci della ribalta come un uragano. Ripensai a me bambino insieme alla mia famiglia in un cinema, alla periferia di Napoli, alla fine della proiezione di Sapore di mare. Correva l’anno 1983 e mi rimase impressa la celebre battuta che mise nero su bianco il passaggio di consegna tra la generazione dei miei genitori e la mia:

– Mamma, ma com’era l’epoca tua?

– Non so, era diversa. Ci batteva il cuore.

Immigrato di Checco Zalone affossa il pop di Laura Pausini

Non è una beffa. Immigrato di Checco Zalone ha vinto il David di Donatello come miglior canzone originale, destando scalpore tra tutti i fricchettoni del pop che davano per scontato la vittoria di Laura Pausini. Cosa c’è di scandaloso? E’ la volta buona in cui ironia e riflessione cantate nel film Tolo Tolo soppiantano il solito canzoniere, con tutto il rispetto per una grande artista come la Pausini.

LA TRAVOLGENTE “FIGHT FOR YOU” E LA PAUSINI SENZA OSCAR

L’Oscar mancato della Pausini il 25 aprile scorso mi ha ricordato quello del film Pinocchio di Benigni nel 2002, scartato alla candidatura come miglior film straniero. Non tutte le strade del marketing cine-musicale spianano la strada all’ambita statuetta: Io sì (Seen) era accoppiata al film di Ponti junior con donna Sophia.
Niente Oscar per il pop anti-razzista della Pausini, sconfitta a Hollywood dalla rivoluzionaria H.E.R. che aveva mitragliato in puro stile R&B i colpi mortali della travolgente Fight For You.


IL DAVID DI DONATELLO A ZALONE

Il David di Donatello a Immigrato resta una bella sorpresa da parte dell’Accademia del Cinema Italiano presediuta da Piera Detassis. “La solita cricca di sinistra che premia i soliti, no questo era il foglietto se perdevo – ha commentato a caldo il vincitore – Grazie all’accademia per il riconoscimento meritocratico.”
Il polverone che si è alzato sui social per la seconda sconfitta della nostra regina del pop lascia il tempo che trova. Il podio a Zalone ha portato una ventata di freschezza su uno dei palchi più prestigiosi in Italia. Inoltre, una vetrina ambita come il David di Donatello, attraverso lo sguardo su cinema e dintorni, ha il compito di essere anche lo specchio sociale del Belpaese e dei suoi umori.
Seen, scritta in inglese da Diane Warren e poi tradotta in italiano dalla Pausini, è troppo d’oltreoceano e manca di quella “profonda italianità” che invece Immigrato di Zalone sprigiona.

All’uscita del supermercato

Ti ho incontrato

(“il carrello lo porto io”)

Al distributore di benzina

(“metto io, metto io”)

Monetina

NELL’ITALIA MULTIETNICA DI ZALONE

Non sono forse i primi versi della canzone di Zalone già una polaroid autentica dell’Italia dei nostri tempi? L’umorismo tagliente sega i luoghi comuni, limando gli spigoli surreali di “Poi la sera la sorpresa a casa Al mio ritorno Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno Ma mia moglie non è spaventata” in amarezza, dolore, riflessione:

Immigrato

quanti spiccioli ti avrò già dato

Immigrato

mi prosciughi tutto il fatturato

Checco Zalone ha fatto centro con un testo dissacrante che viene messo in bocca al razzista di media levatura. Tra versi e ritornello “apparentemente” scanzonati emerge invece un’arguta meditazione sull’Italia multietnica del nuovo millennio.
Tra le righe si legge la noiosa assuefazione dell’instinto di sopravvivenza del Belpaese tra pregiudizi e polemiche per niente costruttive.
Alla fine del gioco resta sempre la scorciatoia del fare a scaricabarili con il rischio e un prezzo alto da pagare: finire in un vicolo cieco.

Immigrato

Chi ha lasciato il porto spalancato?

Immigrato

Ma non ti avevano rimpatriato?

Cartolina da Pesaro: Tutto merito di una piadina?

Il giorno del diploma Daniela cominciò ad aiutare la mamma nella storica piadineria in un angolo del mercato delle erbe di Pesaro. L’Antica Piada è stata per 35 lunghi anni un punto di ritrovo per tanti marchigiani, ma anche per chi come noi ci passava soltanto.
Nel 2000 ero nella giuria giovane di CinemAvvenire al Festival del Cinema di Pesaro e in questo posto ci capitavo tutti i giorni con gli amici e colleghi di gioventù. Tra le proiezioni mattutine e quelle pomeridiane avevamo il tempo serrato, ma Daniela e la mamma erano capaci di farci sentire a casa nostra con la semplicità di quei sapori.

Esserci tornato dopo diciassette anni non è stato per me un flashback inzuppato di nostalgia – i sapori trainano sempre ricordi oltre il palato – ma l’occasione per riappropriarmi di una lucida consapevolezza: chi si mette sulle orme della propria memoria non resterà mai solo perché vi troverà qualcuno con cui spartire questa ricerca.
Oggi c’è stato chi come me è tornato testardamente in questa piadineria marchigiana. luogo che fagocitò onesti legami d’amicizia. Appartengo alla generazione in cui le relazioni umane si misuravano con il vissuto, senza engagement o mi piace. Nel lungo periodo di vita a Milano mi sono portato dietro l’abbraccio e gli incoraggiamenti di Enrico alla stazione di Padova, alla vigilia del mio trasloco definitivo.

Oggo ho ritrovato Enrico in questa piadineria non per una fortuita coincidenza. Entrambi ci siamo messi in sordina alla ricerca di un angolo della nostra vita con la consapevolezza che la memoria semina lucidità del vissuto, la riconoscenza verso la vita ci protegge dal tempo tiranno che ci vorrebbe alieni al magma delle nostre origini.
Enrico e io ci siamo ritrovati in questo luogo, perchè abbiamo fatto dei nostri quarant’anni l’osservatorio per raccogliere ciò che ci ha fatto uomini veri: rimanere noi stessi.

A fine mese Daniela e sua madre abbasseranno la saracinesca dell’Antica Piada di Pesaro. Finisce un’epoca per chi ha vissuto questo luogo magico del marchigiano. Nella farina, acqua, olio e sale, gli ingredienti che hanno fatto di questo impasto il nutrimento di tanti di noi, ho ritrovato una notte sulla laguna di Venezia: io e il mio amico Luca, oggi autore televisivo, ad impastare il testo e la scaletta per un collegamento tv fino a tardi.

Luca mi fece notare che quando si facevano sostituzioni nel testo, bisognava sempre lasciare traccia del passaggio precedente, senza cancellare niente, sarebbe potuto tornare utile. Enrico ci raggiunse e ci ritrovammo come al solito a goderci il plenilunio in laguna.
Quella notte io, Enrico e Luca, poco più che ventenni, diventammo improvvisamente grandi: non si cancella nulla per ritrovarsi.

Il futuro ci avrebbe dato ragione e non per merito solo di una piadina.

 

La memoria di ciascun uomo è la sua letteratura privata. (Aldous Huxley)

Lino Toffolo, maschera goldoniana sciolta in una canzoncina

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Rosario Pipolo“Chi ha rubato la marmellata? Chi sarà? Ed un uovo di cioccolata? Chi sarà? E chi ha rotto la vetrata con un colpo di pallon? Chi ha scaldato la cassata con il fon?”.
Dietro la canzoncina di Johnny Bassotto, che ha gracchiato sul 45 giri della mia infanzia, c’è la maschera di Lino Toffolo. Maschera goldoniana in perenne evoluzione, l’attore veneziano aveva quella versatilità straripante che lo avrebbero dovuto incollare al palcoscenico della Laguna e farlo restare osservatore della realtà attraverso la giostra delle storie di Carlo Goldoni.

“Ma il bassotto poliziotto scoprirà la verità, il bassotto poliziotto scoprirà la verità. Che poliziotto Johnny bassotto con le manette arresta la tua fantasia; ti fa svegliare e confessare tutto quel che hai combinato”. La maschera galleggia tra i versi di una buffa canzoncina, una girandola nel piccolo schermo di fine anni ’70. Ci confonde senza farci notare che il sorriso sornione di Toffolo è la lama con cui il cabarettista guerreggia  contro l’ipocrita serietà della vita.

“Chi ha giocato in ascensore? Chi sarà? Chi ha legato al palloncino la cravatta di papà che ora vola sopra tutta la città, eh?”. Persino nei fotogrammi della pellicola antimilitarista Sturmtruppen, diretta da Samperi e tratta dal fumetto meraviglioso di Bonvi, Toffolo manipola la maschera d’argilla di un abile teatrante facendoci credere di essere un caratterista.

“Il bassotto poliziotto è il più in gamba che ci sia! il bassotto poliziotto è il più in gamba che ci sia!”. Persino una réclame – pardon oggi si dice spot pubblicitario – diventa con lo scanzonato Toffolo territorio artistico, senza essere con prepotenza la rincorsa verso uno scaffale del supermercato per un barattolo di marmellata.

Non esistono attori di serie A o serie B. Esistono attori, punto.

Un siciliano DOC ha la faccia di Peppino Impastato

peppino_impastato

Rosario PipoloC’è chi va volentieri in Sicilia per la bellezza del mare e dell’isola, c’è chi come me ci ritorna volentieri per onorare la memoria di Peppino Impastato, senza i fronzoli e le prosopopee degli anniversari. Sono diventato più grande il 31 agosto 2000 al Festival del Cinema di Venezia. C’era anche il mio battimani in Sala Grande per i dodici minuti di applausi tributati alla prima del film i Cento Passi di Marco Tullio Giordana.

Prima di allora ero il ventenne che aveva raccolto la storia di Peppino come tra le tante dell’ennessima vittima della Mafia. Dopo quella proiezione, i miei vent’anni furono squarciati dal ritratto di questo coetaneo – aveva pressappoco la mia età di allora quando fu ammazzato – che, dalle frequenze di una stazione radiofonica locale, aveva provato a spegnere l’omertà con la latta di benzina dell’impegno civile.

In un mio tragitto, in un’estate di dieci anni fa, dal palermitano verso il trapanese, chiesi di fermare l’auto sulla statale all’altezza di Cinisi, il paese natale di Peppino Impastato. Osservando in lontananza i bagnanti che affollavano le spiagge del litorale, mi chiedevo quanti di loro sapessero che il siciliano DOC non era il venditore panzuto di granite alle mandorle in riva al mare o l’aberrante caricatura del Padrino di Coppola in versione beach, alle prese con la tintarella sulla sdraio.

Il siciliano con la denominazione d’origine controllata deve avere il talento di farsi portatore del principio per cui non si può essere liberi senza libertà di pensiero, conduttura della coscienza civile della propria terra natia. Peppino Impastato ha questo requisito e, a 38 anni esatti dalla sua scomparsa, l’anniversario delegittima l’assenza, fatta anche di depistaggi.
Pertanto, vogliamo legittimare questa presenza, facendo dei versi di La cura di Franco Battiato, il siculo che ha reso in partiture le meraviglie della Sicilia, la colonna sonora di questo 9 maggio: “Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via, dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo”.

Cosa c’entra una canzone d’amore? C’entra eccome. Peppino Impastato è stato veramente innamorato della sua Sicilia come noi lo siamo perdutamente della nostra donna, della quale vogliamo prenderci cura a qualsiasi costo, attraverso l’essenza del nostro essere e nonostante le avversità della vita. Peppino ci ha rimesso la vita stessa.

Ritornerà il Duca David Bowie, “Lazzaro” della musica che sbeffeggiò la morte

Rosario PipoloAlla fine dello scorso settembre in tanti ci consolammo con i vinili restaurati del primo David Bowie 1969-1974, sbucati da un elegante cofanetto. Non fu la fissazione per il feticcio, quanto la voglia di interrogarsi sul perchè quella materia musicale di oltre quarant’anni fosse reincarnazione del futuro.

Quando alle 8.30 di questa mattina ho lanciato incredulo il tweet sulla scomparsa del Duca Bianco, mi sono pentito degli ultimi 14 caratteri spazi inclusi: “…ci ha lasciati”. Ci ha lasciati l’alter ego Ziggy Stardust, Halloween Jack, the White Duke o Glass Spider?

Bowie si è preso gioco di noi, che avevamo visto in lui una scheggia impazzita dell’universo, facendo credere che l’album Blackstar fosse un bel regalo per il suo sessantanovesimo compleanno.
Invece no, il testamento dissacratorio era già tutto scritto nel brano Lazarus e nel video onomino diretto da Johan Renck, che lo vede in un letto di un ospedale psichiatrico nelle vesti del personaggio evangelico, amico di Gesù di Nazareth. Tra le bende si intravede il Bowie malato che sbeffeggia la morte.

Quelle che un tempo furono camaleontiche trasformazioni, oggi restano l’abbagliante resurrezione di un artista del XX secolo che ha aggredito il melanoma dell’omologazione, di cui siamo ammalati cronici, attraverso ogni forma d’arte della re-invenzione.
David Bowie ha fatto della musica, dal glam rock al rock sperimentale, dal proto-punk alla new wave, il midollo spinale della pittura che mescola avanguardismo, classicismo,  street-art, fantascienza. David Bowie ha reso i testi delle canzoni delle incandescenti sceneggiature da cinema, trapiantate al posto dei nostri occhi miopici e strabici, per un ritorno alle origini con lo sguardo interiore sull’esistenza.

Il trasformismo e i travestimenti di David Bowie non sono stati capricci di edonismo futurista, ma il teatro dell’ultimo jedi dell’esistenzialismo che si è sforzato di affrontare la depressione umana della morte circoscritta nell’epitaffio “polvere siamo e polvere ritorneremo”. Ritornerà il ragazzotto di Brixton che ha folgorato il XX secolo, unendo monarchi, proletari, borghesi, arcivescovi protestanti, laburisti e conservatori.
Ritornerà L’uomo caduto sulla terra perchè “puoi semplicemente guardare ai miei dischi e capire cosa provo”. Ritornerà il Duca Bianco perchè “è anche vero che la vita stessa è artefice di noi stessi”. State a vedere.