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Buon Natale, papà. L’ultima lettera di un figlio imperfetto

Buon Natale, papà. L’ultima lettera di un figlio imperfetto è fatta dalla carta ingiallita di una vita insieme e dell’inchiostro dei sogni e delle delusioni di una generazione, la tua, che mi contagiano in questi giorni gelidi: le pedalate sotto gli acquazzoni verso scuola, sulla “via vecchia” con i tuoi compagni di classe, alla periferia di Napoli; la gioventù con “gli amici per sempre” tra Antonio, i Tonino, Pasquale, Nino;  gli anni di lavoro in tuta a spargere elettricità, illuminando paesi e città all’ombra del Vesuvio insieme a colleghi che ti hanno voluto bene come Tommaso e Carlo e di capi come Pietro, pronti a ribadire che l’onestà era la tua medaglia al valore; le battaglie sindacali a fianco di Salvatore prima che il socialismo laico fosse imbrattato dai politici corrotti perché, come mi ha ricordato il prete operaio don Peppino Gambardella, “tuo padre è stato un onesto lavoratore e merita stima e affetto, egli riceverà il premio della sua rettitudine e della sua laboriosità dal Signore giudice buono”.

Buon Natale, papà. L’ulltima lettera di un figlio imperfetto è fatta dei 46 anni di matrimonio con Margherita, lei che ti è rimasta accanto fino alla fine nella buona e cattiva sorte e allora, da ventenne emancipata di città, fece tremare la lunga figliata di provincia e battagliò contro le arroganze e arretratezze della famiglia patriarcale di stampo contadino.
Io e Rossella siamo il frutto di questo amore e la tua paternità, fatta di generosità e cura per la nostra crescita, è stata tra i doni più intensi ricevuti sotto l’albero della vita. Il coraggio te l’ho letto negli occhi per l’ennesima volta qualche mese fa, quando ti sei ostinato a voler salutare per l’ultima volta il territorio a cui sei rimasto legato per sempre, mortificando la malattia, raccogliendo con le ultime forze i frutti dagli alberi piantati da tuo padre quando eri piccino piccino.

Buon Natale, papà. Per tutte le volte che ti ho disobeddito e contrastato in questa mia smania di esplorare la vita, dai tempi in cui dissi no all’ammuffito liceo nel feudo di Maddaloni o alla divisa militare fino alla scelta professionale di fare di biro e inchiostro un mestiere, delegando al Teatro, al Cinema, alla Musica e alla Letteratura i punti cardinali della mia ricerca della libertà.  Ha ragione la mia amica d’infanzia Giuliana scrivendomi: “Tuo padre ti ha fatto un uomo libero”. Sì, mi hai lasciato libero di scegliere anche quando i nostri punti di vista erano completamente all’opposto.
Mi hai lasciato libero di fare della valigia l’imbarcazione per girare il mondo, per andare a vivere altrove, assecondando la mia spudorata convinzione che “le radici hanno le gambe lunghe”.

Buon Natale, papà. Ho recitato fino all’ultimo istante il ruolo del figlio distaccato, perché mai avrei voluto trattarti con la compassione per un ammalato. Sono riuscito fino ad oggi a conservare le lacrime. Le userò in futuro per annaffiare la terra sotto i piedi in qualsiasi parte del mondo mi troverò, facendo germogliare i fiori dei tuoi insegnamenti e, al tempo stesso, facendoti irritare come allora tutte le volte che continuerò a denigrare la maggior parte dei parenti come inutili suppellettili; a beffeggiare la provincia con i suoi riti sociali, le mediocrità e l’ostentazione del vivere per apparire; a difendere quel malsano egoismo individualista per smontare i patriarchi e le matriarche che vorrebbero la famiglia una fradicia prigionia per ridurre noi anime libere a propria immagine e somiglianza.

Buon Natale, papà. L’ultima lettera di un figlio imperfetto non giace sotto il piatto di un tavolo natalizio, ma nel taschino della tua tuta da lavoro, che non smetterò mai di sentirmi addosso sotto la giacca e cravatta. Oggi che vedo l’albero di Natale spento, senza la tua santa pazienza a rimettere apposto quelle lucine, e non ti trovo in stazione, in aeroporto, ovunque ad aspettarmi, mi consola la speranza che un giorno accadrà: ti ritroverò all’ultima fermata della mia vita e non avremo più il peso del bagaglio degli affanni umani.

Buon Natale, papà e perdonami per essere stato un figlio imperfetto. E’ stata la mia strada per volerti bene, a modo mio, salvaguardando la saggia affermazione di un miscredente portoghese che, dopo un prodigio nel piccolo villaggio di Fatima, dichiarò ai miei colleghi cronisti di un secolo fa: “Solo gli sciocchi pensano che Dio non esiste”.

Lettera a un tibetano

Da bambino avevo messo il Tibet nel mio giro del mondo dopo aver visto con mia madre un vecchio film in bianco e nero che davano in televisione.
Mi ero convinto che Dio – nella mia immaginazione un gigante barbuto – utilizzasse la tua terra come divano per sedersi, fumare un buon sigaro e guardarci tutti.

Sul mappamondo in regalo mi rendevo conto che il Tibet era lontano, troppo, tanto che non sarebbe bastato rompere il salvadanaio né chissà quanti stupendi da operaio di mio padre che lavorava nella società nazionale dell’elettricità.
Non avrei immaginato che un giorno ce l’avrei fatta, ma con una tassazione da versare a cui in confronto il denaro è carta straccia: nascondere con sofferenza la propria identità.

Giornalisti e diplomatici sono bannati. Nascere in un Paese come il mio, che ti lascia fare della libertà di pensiero e d’espressione il ramo congiunto della tua crescita, ti serve quando ti guardi intorno e vedi chenon tutti hanno avuto le stesse tue chance.

Sono europeo, occidentale, di matrice religiosa cristiana e non sono di certo arrivato a Lhasa per fare il turista impiccione quanto per guardare diritto negli occhi ciascuno di voi. C’è chi si sente esploratore con l’immaginazione, chi con un libro, chi come me dentro il viaggio.
Girovagando nel mercato di Lhasa fai due conti e cerchi di far capire a chi ti sta di fronte che “gli europei non sono polli da spennare” perché c’è chi è arrivato sotterrando i propri risparmi per far fiorire un albero.

Vedevo con i miei occhi quell’albero trasformarsi in quercia quando salivo ogni gradino del palazzo del Dalai Lama,  quando fuggiasco nei monasteri ero alla ricerca di monaci con cui barattare lo stress inutile di noi occidentali con spiritualità e saggezza.
Nel rallentamento dei movimenti e sfinimento per l’altitudine ho ritrovato quella forza di non voltarmi indietro più, guardando nella direzione del gigante barbuto che domina il tuo Tibet.

Da bambino pensavo che per vedere Dio bisognava morire, invece ne ho un trovato un poco in ciascuno di voi tibetani. Quando il treno ha ripreso il viaggio e tu sei scomparso dietro il finestrino, mi è sembrato di risvegliarmi.  In realtà mi ero appisolato e ci ho messo un po’ per avere la certezza che una parte di me è rimasta lì.

Grazie, Tenzin.

 

Ero intelligente e volevo cambiare il mondo. Ora sono saggio e voglio cambiare me stesso. (Dalai Lama)

Lettera aperta a un bambino dei Nati Per Leggere

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rosario_pipolo_blog_2Sono tornato per guardarti diritto negli occhi nello stesso fazzoletto di terra in cui germogliò la mia infanzia. Sono tornato perché se i piedi non affondano nella terra della memoria, si sbiadiscono i dettagli, scemano i particolari.

Tu sei prima di tutto uno dei Nati Per Leggere perché per fare il mondo ci vuole un libro, per fare un libro ci vuole la vita di chi lo ha scritto, per fare la vita ci vogliono pagine di carta stese al sole come il bucato che profuma d’inchiostro.

Tu sei prima di tutto una storia, una storia di carta, fin dal tempo in cui eri nel grembo di tua mamma, fin dai tempi in cui la mano di Dio ne scrisse una fatta su misura per te, attraverso quel rintocco riconoscibile soltanto sotto le sembianze di un atto d’amore.

Tu sei prima di tutto il coraggio di liberarti dalle ossessioni tecnologiche di noi adulti che abbiamo spodestato l’immaginazione per rinchiuderci nelle celle di schermi piatti. Tu sei prima di tutto la generosità di questi volontari, oggi cantastorie per accompagnarti in un viaggio che ci rende tutti sostanza della nostra comune esistenza.

Tu sei prima di tutto ciò che non sono stati i bambini della mia generazione a cui non raccontarono che il mondo dell’infanzia senza gli educatori è come una fiaba senza incantesimi e fate dorate.
L’ho capito da grande quando mi sono innamorato di un’educatrice che, in una notte di Natale, mi fece papà per un giorno portando tra noi due un fratellino e una sorellina di una casa famiglia, specchio riflesso sui passi del nostro amore e dei genitori che saremmo diventati.

Io e te abbiamo in comune lo stesso fazzoletto della terra allevatrice ed ora che vedo tua mamma, testarda volontaria, strizzare lo straccio per pulire questo spazio-lettura che nessuno mai ti scipperà, sono convinto che tu non indosserai nessuna maschera a Carnevale.
Punta verso il cielo il tuo libro-scudo che ti ha fatto crescere nell’alveare di Nati Per Leggere senza fare come noi bimbi di allora, costretti a travestirci da Zorro per affrontare i bulli con le pistole giocattolo, figli dei lacchè della malavita.

Troverai questa lettera all’alba e io sarò di nuovo in viaggio, perché la mia condanna è avere sempre la valigia pronta. Tornerò, sì tornerò per riprendermi ciò che mi è stato rubato e ad indicarmi la strada sarai tu, sarete voi Nati Per Leggere, germogli del futuro dell’infanzia in soccorso a noi adulti per scontornare e ridisegnare sogni di carta taciuti.

Natale, lettera dal Sudamerica per Mimmo Palanza

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rosario_pipolo_blog_2Le mie feste natalizie le ho lasciate in Sudamerica. Di passaggio a Firenze qualche mese fa  ho avuto la tentazione di portarti un fiore. Ho desistito, perchè la voce dell’anima mi ha assicurato che tu mi avresti aspettato lì. Questo è il viaggio che avremmo dovuto fare insieme, lo abbiamo fatto, in questo vagabondaggio on the road di 7.000 chilometri tra Argentina, Cile e Uruguay.

Ti ho ritrovato per le vie di Buenos Aires con tuo padre Camillo che leggeva il giornale agli analfabeti del paese nella Manoppello del secondo dopoguerra; ti ho ritrovato nelle albe indefinite della Patagonia ripensando alle nostre lunghe passeggiate al parco delle Cascine con il tuo cagnolone; ti ho ritrovato a Santiago del Cile sulla tomba di Salvador Allende e al museo dei Desaparecidos, perchè il tavolo della tua cucina diventò la scrivania dei miei vent’anni dove cominciai a documentarmi sulle dittature sudamericane.

Ti ho ritrovato tra Mendoza e Cordoba in mezzo al profumo dei vigneti, ripensando a quando davanti ad un buon bicchiere di vino rosso mi  raccontavi del trasferimento in Brasile con tuo fratello Roberto; ti ho ritrovato sulla nave che mi portava verso l’Uruguay negli occhi di Pablo, il fisico universitario di Buenos Aires che, negli anni della dittatura, scappò in esilio in Europa.

Eppure in questo errare indefinito ho ritrovato il nostro legame, ripensando a come tu sia riuscito a non farmi sentire mai ospite né a casa tua né nella tua vita. La prima cartolina te la mandai da Londra nel 1988, l’ultima te la mando dalla rambla di Montevideo: un tramonto condiviso con un pescatore sul Rio de la Plata.

Tra gi ultimi fili di luceti ho ritrovato alla stessa maniera di Manolin con Santiago in Il vecchio e il mare di Hemingway. Un giorno ci ritroveremo non come zio e nipote, ma come due esseri che hanno condiviso sogni e utopie di generazioni diverse. Tutto ciò ti ha reso uno dei punti cardinali della mia crescita, della mia esistenza.

Buon Natale, ovunque tu sia.

Nessuno escluso: “Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma!”

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Rosario PipoloMi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Nel tuo sound e sulla tua pelle è tatuato l’Egitto, la terra di tuo padre e quella che io attraversai da bambino tra le pagine di un sussidiario di storia. Avessi avuto un compagno di banco come te, avremmo fatto comunella senza aspettare l’ora odiosa della merenda.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Ti avrei raccontato dei miei viaggi metropolitani a Napoli con nonno Pasquale e ti avrei portato una pastiera fatta in casa da nonna Lucia, e l’avrei barattata volentieri con i dolcetti fatti da tua nonna in Egitto. A me bastava un biglietto d’autobus per abbracciare la mia, tu non finivi mai di rompere salvadanai per metterti su un volo verso il Cairo.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Muovendo i primi passi nella vita, ad avercelo un amico di infanzia che ti rappava la vera geografia della periferia, perché ognuno ne ha una, dentro e fuori di sé.
Dalle mie parti bisognava accontentarsi di neomelodie, diffuse per radio ad alto volume da un pianerottolo all’altro, i cui drammi d’amore non sempre a lieto fine coprivano gli spari della criminalità organizzata.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Non le voglio più quelle verità nascoste, quando restavo chiuso in casa perché fuori c’era il coprifuoco per il controllo del territorio. Da me i papponi, che a messa intingevano tre volte la mano nell’acquasantiera, la sera se pigliavano ‘o cafè con una delle dita della mano di Don Raffaè.

La verità, Amir? Diventiamo subdolamente brutti, sporchi e razzisti tutte le volte che freniamo la voglia di condividere le nostre storie di periferia con chi è arrivato da una periferia più lontana, quella di una terra straniera, di un altro continente. Da bambino sognavo di fare un viaggio al Cairo. Ho la valigia dietro l’angolo, vorrei farlo in tua compagnia e partendo dalla tua Torpignattara. 

Il tuo rap frena il mio pianto. Mi chiamo Rosario, come la “Cune de la Bandera” argentina,  ma song ‘e Napule.

In viaggio verso la culla di Noemi

Rosario PipoloChissà se mi basteranno cento chilometri e passa di trenini locali per scriverti un biglietto d’auguri, forse uno dei primi che riceverai per essere venuta a questo mondo. Sì, proprio i treni, quelli a forma di buffi millepiedi che fanno ciuff ciuff.
E se non mi basteranno ne percorrerò altri come accade sulla strada della vita: Noemi, è lunga e faticosa ma ne vale la pena in ogni istante.

Noemi, la prima volta in fuga dalla culla sarà per scoprire a carponi quanto sia meraviglioso spostarsi, perché la condanna di restare immobili spetta ai vigliacchi. Noemi, muoverai i primi passi e non avrai paura di cadere perché, voltandoti indietro, troverai l’amore di mamma e papà a sorreggerti.

Noemi, la prima volta oltre la ringhiera del balcone,  sarà per  guardarti intorno nel cortile, sentire le carezze delle tue affettuose nonne, apprezzare il tuo vicino di casa che rinuncia al sabato e domenica ad Acquafredda per andare a protestare in piazza nella Capitale, sventolando una bandiera colorata: devi sapere che in questo mondo ci sono persone invisibili che lottano per un mondo più umano, più giusto.

Noemi, la prima volta in montagna sarà per raccogliere il muschio per il presepe insieme al tuo papà, come faceva lui da bimbo con tuo nonno carabiniere in Valmalenco.  E poi verrà Natale e non ci vorrà molto per capire che il colore della pelle del Bambinello non è né bianco né nero ma riflette la ricchezza della diversità dell’umanità.

Noemi, la prima volta su un piccolo triciclo sarà per guardare il paesaggio montavano dal confine della bassa Bresciana. I confini territoriali non esistono, li abbiamo creati noi umani per farci stupide guerre.

Noemi, la prima volta in bicicletta sarà per scappare dalle meschinità e dalle ipocrisie della provincia, dai pregiudizi  delle tribù, dalle palafitte delle comunità, dopo che ti sarai fatta beffa dello struscio domenicale, del passamani nell’acquasantiera, dei soliti sermoni che dagli altari ti vorrebbero in lista d’attesa per il Paradiso. Il paradiso può attendere, dobbiamo prima impegnarci ogni giorno a farlo nel nostro piccolo, qui su questa terra.

Noemi, la prima volta che urlerai “Dio, perché mi hai abbandonata?” sentirai invece che ti sta portando in braccio. I solchi che vedrai sulla terra sotto i tuoi piedi non saranno stati arati dai contadini della bassa bresciana ma dai passi del Padreterno, che ogni notte accenderà le stelle in cielo per darti la buonanotte.

Noemi, la prima volta che lui ti sussurrerà “ti amo” sarà “su quel ramo del lago” in cui si riflette Lecco. Lì, ai piedi di un grande albero, lui ti reciterà un passo dei “Promessi Sposi” e custodirete così la promessa del vostro amore. Prima del calar del sole, ti inviterà a danzare un lento sulle note dello sciacquettio lacustre.

Noemi, la mia “prima” volta di un lungo viaggio in treno verso una culla è stato per te. Avrei voluto cantarti una ninna nanna ma sono stonato. E sai perché stono?
Perché ho steso a modo mio la vita in un lungo viaggio fatto di esperienze; faccio famiglia con chi incontro sulla via; mi lascio alle spalle gli amici traditori; osservo la quotidianità attraverso gli occhi del cinema, parlo con le parole dei romanzi, ascolto con l’udito della musica, sogno dentro e fuori i sogni.

Buona vita, Noemi. Ti lascio questo biglietto d’auguri dentro la culla. Lo troverai un giorno e ti ricorderai di me, il primo vagabondo sul tuo cammino.

Caro Paperino, ti scrivo per i tuoi 80 anni…

Rosario PipoloCaro Paperino,
oggi compi 80 anni
e sei l’eroe più ribelle delle storia dei fumetti. Anzi no, sei l’antieroe. Chi nasceva negli anni ’30 sul pianeta Disney era condannato a fare la parte del “buonista”. Per fortuna a Paperopoli  le cose vanno diversamente da Topolinia, la metropoli asfissiata nel cellofan odioso del “va tutto per il meglio”, quando poi non è così. La blusa da marinaio dal bon ton sbarazzino sembra fregata a Braccio di Ferro ma becco e zampe arancioni ti rendono riconoscibile da adulti e bambini.

Chi si cala le brache, denigrando il potere dell’immaginazione, pensa tu sia un papero da bambini; chi invece si alza incazzato ogni santo lunedì, tenta di tenersi alla larga dalla sfiga, è un arruffone e scansafatiche verso i legami affettivi imposti, mastica nevrosi ed è in fuga perenne dello stess metropolitano , sa bene che nessuno è più papero per adulti di te.

Nel giorno del tuo ottantesimo compleanno, invece di finire per strada ammalato e con il bastone, sei ringiovanito. Nel tuo sguardo c’è un so che di  “modernità”, come il tratto della matita di Don Rosa, che mi lasciò una dedica su un albo a fumetti di seconda mano. Se la sfiga che ti accompagna fa ritrovare la tua Paperina con una scatola di cioccolatini scaduti come regalo di anniversario, la generosità che veste il tuo caratterino ti ha concesso la meritata longevità.

Mi hai contagiato con la tua vena polemica e hai riempito con un misurino di inchiostro la mia penna. Non mi sono limitato a rincorrerti nelle classiche storie a fumetti, destinate, con l’avanzare dell’età, a finire impolverate in soffitta. Sei stato per me lo specchio dentro cui riflettere lo squilibrio di follia sovversiva, che schiaffeggia quella che per gli altri è noiosa e insignificante routine.

Sei così pigro che non leggerai questa lettera. Lo so. Io però ho fatto una furbata. Te l’ho riposta sotto il cuscino. La troverai appena ti sveglierai dai tuoi sogni che vanno avanti da ottant’anni, il doppio degli anni della mia generazione.

19 marzo: Lettera di un figlio dal futuro per la festa del suo Papà

Caro Papà,
con l’aiuto della mamma ho scritto questa letterina per te. Oggi è la Festa del Papà. Voglio solo dirti che, anche se ogni tanto faccio il birbante, ti ringrazio tanto perché assieme alla mamma mi avete dato la vita con il vostro amore.
Come regalo ti ho incorniciato il biglietto aereo che ha riportato la mamma da te dopo tantissimo tempo. La maestra ci ripete sempre che, in ogni favola d’amore, il destino sa metterci il suo aiuto. Quando la mattina la mamma mi accompagna a scuola, mi piace ascoltarla mentre mi racconta la vostra storia, come vi siete conosciuti, quanto vi siete amati e come vi siete ritrovati dopo tanto tempo.

Mi ha detto che quando è ritornata tu, distratto come al solito, neanche l’avevi riconosciuta. Aveva cambiato la montatura degli occhiali e tu l’avevi scambiata per la signora del terzo piano. Mi scappa una risata, posso?
Tu hai compreso che era lei dal profumo fragolino che avvolgeva la sua pelle. Mi ha raccontato che, appena hai capito chi era, l’hai abbracciata così forte e hai cantato un motivetto buffo, come quello inventato per lei in riva al mare.
Mi ha detto pure che trasferirsi qui è stato difficile all’inizio. Come la capisco, se penso alla separazione dai nonni e dagli zii: ogni volta che andiamo in vacanza a Napoli, la nonna mi cucina gli gnocchi, il nonno mi fa vedere il mare dalle impalcature dei palazzi che costruiva, e gli zii mi portano sempre a spasso con quella bella macchina lunga. E poi, mica sono imbranati come te al volante?

Senti, papà. Ho scoperto che hanno scritto anche una favola per te e la mamma. Stasera quando torni, me la racconti? Se tu sei un delfino e la mamma una stella, io voglio essere il cielo e il mare.
Sai sei l’unico papà ad avere i capelli brizzolati. Io non avevo capito che non bastassero le mie 10 dita per contare gli anni che ti separano dalla mamma. Cosa importa. I papà dei miei compagni sono più giovani, ma nessuno saprebbe farmi divertire come te.
Papà come sei buffo quando inventi le favole per me, mi rimbocchi le coperte e cerchi di insegnarmi a giocare a palla. No, no, lo sport non fa per te. Tu sai solo scrivere, lo dice sempre pure la mamma.

Stasera non fare tardi a lavoro. Io e la mamma ti abbiamo preparato una cenetta che ti farà leccare i baffi brizzolati. Da Napoli sono arrivate pure le zeppole di San Giuseppe che ti piacciono tanto. Per la tua festa non ascolterai le canzoni di Biagio Antonacci che piacciono tanto alla mamma e quelle dei Beatles che tu adori. Ti farò ascoltare una bella canzoncina dedicata ai nostri papà, scritta assieme alla maestra e ai miei compagni di classe. Ti piacerà, ne sono sicuro.

Auguri, Papà.
Ti voglio bene.
Antonio,
Il tuo bimbo monello

Milano, 19 marzo 2022

PS: Stasera toccherebbe a te il turno per portar via la spazzatura. Non preoccuparti, ci penseremo io e la mamma.

Babbo Natale, quest’anno datti malato e mandaci Robin Hood!

Caro Babbo Natale,
l’inchiostro è finito per scriverti una letterina. Qui c’è poco da scherzare e neanche le lacrime scenografiche della “ministressa” – scusa gli orrori grammaticali – sono servite ad allievare il dolore: tasse, inflazione, Ici, articolo 18, tanto per cominciare. Non mi sono meravigliato quando un’alunna ha chiesto alla maestra se le avessero tassato anche il suo piccolo salvadanaio: aveva messo da parte tutti i risparmi per comprare un plaid al papà, che tutte le sante notti attraversa l’Italia su un camion lungo quanto i sogni della figlia.

Sai cosa ti dico? Datti malato e mandaci Robin Hood, l’unico giustiziere capace di togliere ai ricchi per dare ai poveri. Questo non è più tempo delle lande del Polo Nord, di slitte e renne, di alberi natalizi giganti, perchè in pochi abbiamo lo stesso desiderio di Bukowski: “un dicembre a luci spente con le persone accese”.
Preferiamo arrampicarci sugli alberi della foresta di Sherwood, per cogliere in flagrante il nostro eroe leggendario.

Sarà Robin Hood a svuotare le tasche delle lobby e delle caste ammuffite, figlie della grande abbuffata all’italiana; a far tacere chi vuole vendere la classe media per benestanti; a fermare la penna dei pallonari mediatici che fanno passare per editoriale un vecchio ritaglio riciclato da edicola; a deridere gli alti prelati che vanno a benedire i carcerati e vogliono bissare il gesto umile dell’uomo spirituale che fece tremare la cupola di San Pietro nel tempo che fu.

Sarà Robin Hood a smascherare il buonismo che dilaga su Facebook e dintorni con auguri elettronici luccicanti, frasette smielose e tag moltiplicati per trasformare catene di sconosciuti in una bella e festosa comunità. E sarà sempre il principe di Sherwood a vuotare il sacco e lapidare chi ha frainteso il significato dell’amicizia. Finalmente l’uragano spazzerà via un volta e per sempre te che “vivi per apparire”, sottomessa al protocollo della becera provincia, condannata a mummificarti di nozionismo e citazioni letterarie, perchè la tua coscienza non ha voce in capitolo. Robin Hood colpirà il tuo corpo gelido come quello di un sepolcro imbiancato e darà il giusto valore all’insignificante titolo di studio della piccola università privata: “il pezzo di carta” che serve agli sconfitti per pulirsi il culo, senza sapere che il letame è il fard di chi porta sul volto le cicatrici dell’inconsistenza della propria esistenza.

L’inchiostro è finito per scriverti una letterina, caro Babbo Natale. Ne è rimasta una punta per scarabocchiare la sagoma di un uomo e una donna, che in mezzo al deserto accolsero un bimbo raggiante. Questo non è il disegnino di una favoletta di fine d’anno, ma dello stupore della vera bellezza, di cui spesso ci priviamo.

Caro Francesco, c’eri pure tu quella sera in cui Baccini cantava Tenco?

C’è una foto del mio album che mi piace particolarmente: è quella che ci ritrae assieme cinque anni fa, quando hai trasformato un’intervista in interminabile e intelligente divagazione. Entrambi eravamo emigrati a Milano da due città di mare, Genova e Napoli, in tempi diversi, eppure in modalità simili. E’ stato per questo motivo che sei riuscito a farmi sentire come un tuo ex compagno di merenda?
Ricordo il nostro dibattito sui soliti cliché e pregiudizi che inquinano l’immaginario collettivo dai toni nazional-popolari. E spesso si mettono pure le scelte infelici dell’industria discografica. Osservandoti sul palco dello Smeraldo di Milano a cantare Tenco e a riportare in vita una vittima di quei pregiudizi, ho fatto una riflessione : sei stato così testardo in tutti questi anni da reinventarti ogni giorno, anche quando c’era chi voleva associare Francesco Baccini a un repertorio scanzonato, che invece era tutt’altro. Del resto quella targa Tenco che ha tenuto a battesimo Cartoons dovrebbe dirci tutt’altro.
C’è chi vuole ostinatamente definire un cantautore per “contorni”, mentre sono i suoi “dintorni” a distinguerlo dai tanti canzonettari che si spacciano per musicisti o cantastorie. Quante coincidenze ti legano a Luigi Tenco, ma queste non sarebbero bastate a creare una serata musicale emozionante se non si fosse fatto avanti ciò che sei veramente: il genovese strafottente dei luoghi comuni, dell’establishment, delle formalità idiote, curioso e appassionato, sentimentale e intelligente, con quella punta di istrionismo clownesco che avrebbe amato Federico Fellini.
Che strane coincidenze. Hai cantato Luigi Tenco nel giorno del sessantacinquesimo compleanno di mia madre, che purtroppo era lontana. Mi hai permesso di soffiare assieme a lei le candeline attraverso quelle canzoni. E’ stata lei più di trenta anni fa a farmi conoscere il repertorio di Luigi, spiegandomi che “i tempi non erano maturi per capirlo”. Forse i tempi non sono mai maturi per nessuno, ma lo diventano quando ci ritroviamo a condividere. Allora diamoci appuntamento a Genova: tu porti la chitarra e noi che eravamo l’altra sera lì portiamo birra e foccaccia genovese. Sarà un modo per continuare a raccontare Luigi, che è morto soltanto per gli stolti benpensanti, quelli che De André aveva fatto diventare lo zimbello del circo della vita e tu, Francesco Baccini, hai messo a tacere per sempre.