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Come in un fumetto nel giorno del nostro matrimonio

Il 17 luglio 1973 sbucai in questa vita dal pancione di mia madre.  Ho espresso un desiderio esplicito per il compleanno, essere trasformato in un fumetto e per questo ringrazio l’amico Luca Golinelli. Dal mio alter ego a fumetti, Corto Maltese di Hugo Pratt, presi in prestito una consapevolezza riadattata alla mia vita: “Quando ero bambino mi accorsi che non avevo la linea della fortuna sulla mano. Così presi il rasoio di mio padre e zac! Me ne feci una come volevo.”

Oggi, nel giorno del mio matrimonio con Luisa, mi rendo conto che questa perla di saggezza è vera fino solo in parte. C’è un Wedding Planner lassù che con gli impasti d’amore ci sa fare e agevola l’incontro degli innamorati destinati ad impararea guardare nella stessa direzione”. 
Ritrovando quella provvidenza, per errore allontanata dalla mia vita, ho avuto la conferma che su ciascuno di noi c’è un progetto d’amore che va al di là di tutte le preoccupazioni del quotidiano.

In questi anni Luisa mi ha insegnato che i pregiudizi sono il nemico numero uno di una storia d’amore autentica e che le distanze anagrafiche, sociali e quelle relative alla visione della vita si possono accorciare notevolmente senza soffocare l’individualismo che legittimamente appartiene a ciascuno di noi.

In questa versione a fumetti del giorno del matrimonio non indossiamo gli abiti da cerimonia, ma quelli che hanno fatto di noi le persone che siamo oggi e, dopo “il fatidico sì”, sono pronti ad intraprendere un percorso nuovo per la costruzione di un progetto d’amore.
La camicia apparteneva a mio padre, l’aveva indossata in tante occasioni importanti; la maglietta a cuoricini di Luisa è tra gli ultimi indumenti sistemati nel cassetto dalla mamma, segno che nessuno se ne va via per sempre, nonostante le separazioni producano un dolore stratosferico.

Accogliendo Luisa nella mia vita, mi sono accorto che questo ritorno a Napoli custodisce il significato di riprendersi le proprie radici e farle camminare in giro per il mondo con le scarpe dell’amore. Nonostante lacci di vita diverse, queste scarpe hanno voglia di camminare insieme. Questa storia ebbe inizio il 9 novembre, nel giorno del 25° compleanno di Luisa, ed è arrivata all’altare davanti agli occhi di Dio il 17 luglio, dì del mio 46° compleanno.

Stamattina, dopo lo scambio delle fedi nuziali,  mi è tornata in mente l’ultima strofa di una canzone di Lucio Dalla che sembra scritta apposta per noi:

“Anna avrebbe voluto morire
Marco voleva andarsene lontano.
Qualcuno li ha visti tornare
Tenendosi per mano.”
Original Artwork: Luca Golix Golinelli, Dillo con un Fumetto, (C) 2019 

Cartolina da Mandawa: matrimonio in Rajasthan

Quando pensi di essere finito su un set di un film di Bollywood, ti ritrovi ospite di un vero matrimonio in India. Avevo seguito gli allestimenti attraverso la finestra dell’Heritage Mandawa, una meravigliosa Haveli, ovvero un antico palazzo affrescato del vecchio Rajasthan.

Il proprietario dell’hotel di Mandawa aveva intravisto nei miei occhi quel luccichio tipico di chi ha un segreto nascosto nel cuore: “Chi alloggia qui, è anche mio amico”, ci tiene a precisare l’uomo sulla sessantina. La sera sono invitato al matrimonio.
Le donne sono tutte in abito tipico del Rajasthan, mi sento “abusivo” in camicia e jeans. Gli invitati mi guardano, poi rompo il ghiaccio e così per un paio d’ore faccio parte della comunità.

Il matrimonio indù dura più settimane e, in questo caso, il rito religioso delle nozze era avvenuto già diversi giorni prima. Il banchetto a cui ho partecipato è l’ennesima tappa, le tre ore volano in fretta.
Ad accompagnare la festa nunziale musicisti che suonano e un paio di danzatrici indiane; sotto un gazebo variopinto gli sposi, affiancati da amici e parenti stretti. Sono due ragazzi alla mano e lo sposo, l’indomani a colazione, mi concede anche questo selfie.

Niente festeggiamenti ingessati come dalle nostre parti, tutti in piedi, a gustare le pietanze che raccontano il meglio dell’arte culinaria indiana sotto un cielo stellato: ci sono persino le ghiottonerie dello street food di cui noi gente del Sud del mondo non potremmo mai fare a meno.
Alla fine del banchetto mi rendo conto di non aver lasciato nessun regalo. Chissà se mi sono rifatto con questa pagina di diario di viaggio…

La settimana successiva mi sono fatto cucire da un sarto del Rajasthan un abito su misura per non trovarmi impreparato ad un altro eventuale invito. Non si sa mai. Ogni desiderio di un viaggiatore appassionato sia esaudito.

 

Una casa senza una donna diventa alloggio del diavolo. (Proverbio indù)

Esercizi d’amore: (meglio) sposare la persona “sbagliata”

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rosario_pipolo_blog_2Tra i ritagli della mia rassegna stampa avevo messo da parte un articolo di Alain de Botton, apparso a fine maggio scorso sul New York Times e poi ripreso in Italia da Il Post. Lo scrittore senza troppi fronzoli metteva in risalto come l’idealizzazione e la nube tossica del romanticismo ci portino a sposare la persona sbagliata.

Non mente la penna svizzera quando elenca la quotidianità della vita matrimoniale tra rate del mutuo da pagare, bambini da portare a scuola o barcamenarsi in quella routine che non ci farebbe riconoscere neanche i bigliettini che scartavamo a prima mattina dai baci di cioccolato.
Privo della saggezza e acutezza di uno scrittore alla portata di de Botton, mi sono piazzato sull’altra sponda ad osservare coloro che saranno nelle condizioni di sposare la persona giusta: calcoleranno tutto per filo e per segno; si pavoneggeranno nel benestare degli altri con il meritato “come state bene insieme”; faranno della logica la planimetria di un progetto di vita insieme.

Il rischio, a mio modesto parere,  è che dietro la logica si nasconda una felicità di cartongesso. Chi si accontenta gode, sillabavano dalle mie parti. Chi non si accontenta?
Chi non si accontenta finisce per sposare la persona sbagliata perché, mettendo da parte la saggezza di Alain, tutto parte dall’unico muscolo, custode del nostro innamoramento da evoluzione della specie: il cuore.

Caro Alain, sa cosa le dico? Nell’era dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi di Facebook che vorrebbero mescolare le carte; nello sproloquio degli schermi digitali che ci fanno camminare con gli occhi bassi; nel tempo divoratore che deve mettere alla prova per forza chi dovrebbe camminare al nostro fianco, abbiamo dimenticato l’essenzialità.
Quando un dì ci libereremo delle vecchie carcasse dei nostri corpi ingombranti, non saremo zombie perché ci siamo ostinati ad essere anime che hanno vissuto.

Sì, sposeremo la persona sbagliata con il rischio che ci tiri appresso il mazzo di fiori per San Valentino o ci lanci dalla finestra il regalo di Natale, senza neanche il tempo di sbraitare “che caratterino”. In quel momento ci torneranno in mente le sagge parole di Papa Francesco: “Tiratevi pure i piatti, ma alla fine fate pace”.

Sposeremo la persona sbagliata, non per partito preso, ma con consapevolezza irresponsabile, ovunque essa sia sulla strada della felicità.

Napoli e le spose di Oreste Pipolo, fotografo-antropologo della bellezza imperfetta

Rosario PipoloDa quando sono nato, a Napoli mi fanno puntualmente la stessa domanda: “Sei parente di Oreste il fotografo?”. Ai tempi del liceo mi spinsi fino al suo studio fotografico in via Carbonara, per conoscere il fantomatico Oreste Pipolo con cui spartivo il cognome senza un legame di parentela.
Non fu quella l’occasione. Sarebbe arrivata anni dopo, prima del mio trasferimento a Milano, mangiando una pizza da Michele. Era seduto a fianco a me. Dopo le presentazioni, Oreste Pipolo tiro giù gli occhialini e mi disse scherzosamente: “Ora ti riconosco. Tu se il giornalista che mi ha fregato il dominio Pipolo.it”.

Più che “fotografo di matrimoni” – come recita il bel documentario che Matteo Garrone gli tributò  – Oreste Pipolo è stato l’antropologo delle spose napoletane. Le osservava con occhio critico e le denudava da tutti i vezzi pacchiani, di cui molti dei suoi colleghi ne fanno un vanto, prima e dopo il servizio fotografico da matrimonio, per immortalare così le principessine cafone di mammà e papà.

Tutte le spose, raccontate dall’obiettivo stilografico di Pipolo, diventavano la polvere di stelle con cui era stata creata Napoli dal Padreterno: non erano colte nella finta bellezza, che popola la maggior parte delle sposine “photoshoppate” ammucchiate sugli album dell’era digitale, ma in un misto di imperfezioni, lapilli poetici della bruttezza insidiata in ciascuno di noi. Perciò il matrimonio raccontato da Pipolo si staglia netto da ispirazione per il cinema.

Alla fine degli anni ’90 avevo conosciuto un gruppo di matrimonisti pugliesi che, dopo aver fatto un seminario con l’artista napoletano, mi dissero: “Osare come Oreste nella scelta degli scenari, significa non lavorare dalle nostre parti. Qui da noi le spose vogliono il ritratto accanto al mobiletto della mamma. E’ una malattia cronica del Sud”.

Il destino delle spose di Oreste Pipolo, per fortuna nostra, fu lo scatto su i binari dismessi della stazione di Gianturco o sotto un’arrampicata dei Quartieri Spagnoli, per essere misteriosamente velo della Napoli che nasconde la bellezza principesca sotto i cenci di una gatta cenerentola.

Evocando la sposa felliniana nel film Amarcord, avrei voluto un’ultimo scatto nel portfolio di Oreste Pipolo: una sposa scalza sulla spiaggia abbandonata di Coroglio, tra il lido Pola sbarrato dove si conobbero i miei genitori e il tanfo di catrame dell’ex Ilva di Bagnoli che arrivava fino alla finestra dei miei nonni. Nella tessitura visiva immaginata, accanto alla donna col velo, lo sposo volevo essere io.

Viaggiatore tra tempo e luoghi nel mio 2014

Rosario PipoloCi sono tanti modi per viaggiare ed io ne ho sperimentato vari in questo 2014: da questi a corto e lungo raggio per guardare negli occhi i nuovi lettori del mio romanzo – scrivere è per me il pretesto per avere la valigia sempre pronta – a quelli dell’ultimo minuto per inteccettare nuovi legami.

Viaggiare per solfeggiare la memoria perché un arrivederci sia la speranza di continuare a camminare insieme: “Non dobbiamo mai smettere di contarli i sogni, proprio come faceva Andrea. Perciò alla fine di ogni viaggio non mi piace ripetere addio, ma ci vediamo domani”.

Viaggiare per capire dopo vent’anni  quando la mia passione per la scrittura sia diventata un mestiere. L’aneddoto, una macchina da scrivere Lettera 35 fregata a mia sorella e la benedizione di un direttore di un quotidiano del Sud Italia: ““Guagliò, sei cresciuto ormai. Continua a camminare con le tue gambe”.

Viaggiare per ritrovare una scuola di periferia e chi l’abitava. “La scuola ai tempi in cui ero allievo sedimentava legami speciali tra docenti e alunni”.

Viaggiare per far ritorno nell’abitacolo dell’infanzia che ti sussurra al cuore tutto ciò che un tempo eri troppo distratto per ascoltare: le sorelle come dono di Dio o i compleanni vissuti in vacanza che fotografano l’istante dell’insostenibile leggerezza dell’essere.

Viaggiare verso Mosca perchè “per fare il futuro ci vuole impegno civile; per fare impegno civile ci vuole memoria, per fare memoria ci vuole il coraggio di uomini e donne come Anna Politkovskaja”.

Viaggiare per affogare tra le ferite della memoria, restando ammutolito salendo le scale del Sacrario Militare di Redipuglia o spingendomi fino all’altra Slovenia, quella della Caporetto che ci ficcarono in testa ai tempi in cui mettemmo mano ai sussidiari di storia delle scuole elementari: “Mangia soldato, ingoia questi bocconi amari, perché il rancio che ti passavano non aveva niente a che vedere con i cibi cotti a legna da tua madre.”

Viaggiare per essere protagonista del futuro in una lettera scritta alla piccola Noemi e lasciata nella sua culla sulla frontiera tra il bresciano e il mantovano: “Noemi, la prima volta che urlerai “Dio, perché mi hai abbandonata?” sentirai invece che ti sta portando in braccio.”

Viaggiare per  ascoltare la voce dell’anno che verrà: Se nasce una stella in Valcamonica la chiameremo Martina.

Diario di viaggio: l’autenticità degli sposi in un autobus in Valle Camonica

Rosario PipoloNel giorno del matrimonio il cerimoniale vuole che gli sposi siano imprendibili e irraggiungibili. Baci e abbracci dopo il fatidico sì, pochi momenti durante la festa e poi il saluto con relativa fuga d’amore.
Capita pure che, nel giorno del proprio matrimonio, si mandi al diavolo il noiosissimo protocollo. Così gli sposini si mescolano agli invitati, diventando quasi irriconoscibili.

Anzi, la riconoscibilità da festeggiati non sta tanto nell’abito fiabesco, nella pettinatura impeccabile o nella scarpetta rubata al principe di Cenerentola ma in quella voglia matta di condividere con gli invitati ogni instante di questo giorno speciale, senza eccessi formali, senza l’ansia che il menu rientri nei canoni della grande abbuffata o negli obblighi mediocri che, il più delle volte, ci rendono prevedibili.

Perciò, il giorno dopo le nozze, non diamo così per scontato che gli sposi siano in luna di miele. Potreste ritrovarli, come è accaduto a me, in un autobus, di ritorno a casa con un gruppo ristretto di amici ed invitati. Questa scena ha qualcosa dello psichedelico del Magica Mistery Tour  dei Beatles perché, in fin dei conti, anche un viaggio come questo può essere visionario.

Visionario nel senso che indica il percorso per recuperare la massima del mio amico Piccolo Principe: “L’essenziale è invisibile agli occhi”. E su questa traiettoria si inserisce la perla di saggezza della nonna del mio amico Filippo: “L’autenticità delle persone si vede nei dettagli, nella loro spontaneità e non nei discorsi costruiti a tavolino”.

Anna e Luigi, nel viaggio che ha segnato il mio ritorno in Valcamonica, ci hanno dato una bella lezione: si può continuare ad essere sé stessi persino nel giorno del matrimonio.
Al termine di questo viaggio on the road con gli sposi – avrei voluto non finisse mai – ho sentito il riverbero della voce di Lucio Dalla che canticchiava Anna e Marco per l’occasione: “Anna avrebbe voluto morire, Luigi voleva andarsene lontano. Qualcuno li ha visti tornare, tenendosi per mano”.

Just Married al Castello di Bevilacqua e l’artigianato locale per gli sposi

Rosario PipoloNon mi piacciono le fiere dedicate ai matrimoni. Le trovo noiose, a volte volgari, con quel prurito che contraddistingue il mercante, disposto a venderti qualsiasi cosa. Perciò credo che sia riduttivo definire Just Married, la domenica di novembre che il Castello di Bevilacqua dedica ai futuri sposi, come evento o fiera matrimoniale.

Mi sembra piuttosto il raduno di artigiani appassionati che, sulla frontiera veneta tra il veronese, il vicentino e il padovano si incontrano in una cornice incantata – quella di un vero castello appunto – per provare a dare al matrimonio un tocco di autenticità. Per me è artigiano chiunque contamini il proprio lavoro con le radici che lo legano al territorio.

Da questo punto di vista lo sono anche Roberto Iseppi e Miresi Cerato, padroni di casa al Castello di Bevilacqua, portatori sani dell’artigianato nello stile che fa essere questa location del Veneto un punto di ritrovo e riferimento di memoria per tutta la comunità locale.
Mi infiltro a Just Married, mescolandomi tra quelli dello staff, per capire se l’organizzazione di un matrimonio affoghi soltanto nel becero business.

Cambio idea quando vedo la matita magica di Giulia Gazzani disegnare la coppia – scelta come immagine di questo post – che, con lo stesso garbo dei fidanzatini di Peynet, incornicia lo spirito di Just Married: i sogni di Ester e Ime guariti nel loro inconfondibile cake design; il make up di Chiara dallo slogan “il trucco c’è ma non si vede”; la serigrafia di Valentina e Alice tra idee eleganti; l’occhio fotografico di Vinicio, il flauto traverso di Chiara o l’esuberanza di Giorgia che farebbe ballare anche la coppia di sposi più ingessata.

Valorizzare la creatività e l’unicità dell’artigiano locale è il piccolo grande valore aggiunto di Just Married. Ed è giunta l’ora che lo riconoscano anche le istituzioni provinciali e regionali, perché non basta canticchiare all’occorrenza “Oh che bel castello, Marcondiro ndiro ndello”. E scusate, se insisto.

Diario del testimone della sposa: le sorelle sono un dono di Dio

 

Rosario PipoloMentre l’auto della sposa corre spedita sul lungomare di Napoli, mi torna in mente una sera del ’76 in cui sedevo in una Cinquecento rosso corallo. Mamma sedeva davanti con il pancione. Il posto accanto a me era vuoto. A quei tempi pensavo che una sorellina si ordinasse al supermercato. Quando nonno Pasquale, in quella domenica del 3 ottobre, mi tirò giù dal letto di prima mattina, pensai: “I supermercati non sono chiusi a quest’ora?”. In clinica, attraverso un muro di vetro, osservavo una nidiata di neonati piagnucoloni. Pensavo potessi sceglierla come al supermercato. Puntai il dito verso quella più pacioccona. Era proprio lei, mi era andata bene. Si avvicinò Nonna Lucia e mi disse sottovoce: “Si chiama Rossella, è tua sorella e devi prenderti cura di lei”.

Pochi mesi dopo mi ricordai delle parole della nonna. Nel condominio dove vivevamo erano tutti preoccupati, perché dal palazzo vicino si sentivano spesso colpi di pistola. Nessuno osava dire niente, tutti erano ammalati di omertà. Mamma andò a fare la spesa e mi disse di badare a lei. Fuori era maltempo. Sentii un boato forte. Pensando avessero sparato, mi lanciai sulla culla della piccola Rossella e la strinsi forte a me come un piccolo soldato in trincea. Per fortuna, era solo un tuono.

Ricordo questo episodio come il punto di partenza della mia vita condivisa con mia sorella. Il più delle volte sono stato un fratello distratto, prepotente, poco premuroso. Nonostante tutto, ho maturato la consapevolezza che avere una sorella ha significato per me vivere a pieno la mia esistenza. Mia sorella è stata la continuità di ciò che non sono stato; si è rivelata il significato che la vita mi ha donato, attraverso il pancione di mia madre; è stata punto di riferimento per il mio futuro. E in questa Napoli, che ci ha partoriti ed ha custodito i ricordi più belli sulla zolla dei Campi Flegrei, oggi ritroviamo memoria e storia della nostra famiglia.

Ho finalmente imparato la lezione. Le sorelle non si scelgono al supermercato, ma sono un dono di Dio, anche per i fratelli “mascalzoni” come me. E nel giorno in cui sono proprio io “il testimone della sposa” posso urlare sottovoce: “Grazie per esserci stata a pieno, nella mia vita”.

Divorzio all’italiana 40 anni dopo: lampo o non lampo?

Rosario PipoloIl cinema aiuta la memoria a non rifarsi la tinta ma a mantenere la propria capigliatura brizzolata. Non fa mai male riguardare un vecchio gioiello in bianco e nero come Divorzio all’italiana di Pietro Germi. E’ nitido il riflesso del Belpaese provinciale, dove il bello e il cattivo tempo lo facevano i feudatari della vecchia Democrazia Cristiana, rattoppata nello scudo crociato che in tanti oggi vedono cucito sulla vestaglia di Matteo Renzi.

Quando quaranta anni fa il referendum fece varcare al divorzio la soglia di legge, l’Italia annebiata dai fumogeni degli anni di Piombo visse l’illusione dell’emencipazione nel passaggio dal bigottismo alla laicità. Prima che il divorzio diventasse fenomeno del costume del BelPaese, facendo gola a tutta la ciurma di avvocati che ti spillava quattrini per mettere fine allo sfortunato matrimonio, fu il tempo della dolorosa discriminazione. Se eri un divorziato ti tiravano le pietre e se per giunta eri cattolico dovevi dire addio alla comunione con il benestare delle malelingue.

Oggi viviamo il rovescio della medaglia, tra divorziati e famiglie allargate, nell’Italia modernizzata che si avvia alla legge del divorzio lampo. Manca solo il semaforo verde del Senato e così impiegheremo più tempo a sposarci che per mandare tutto all’aria. Ops, dipende sempre dai punti di vista, perché in tanti casi mandare all’aria un matrimonio significa liberarsi degli orchi cattivi. La generazione dei miei nonni ne sa qualcosa.

Riguardare il film con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli, prodotto dal lungimirante Franco Cristaldi, aiuterebbe anche i più scettici a fare un passo avanti: qui non si tratta di legge o non legge da “divorzio breve”. E’ semplicemente una questione di buon senso.

 

Il finto incentivo di 25 mila euro per il matrimonio: sull’altare mi sposo con un Pesce d’Aprile!

Rosario PipoloFino a ieri pensavo che il Pesce d’Aprile più simpatico fosse quello architettato dalla Casa Bianca: Robby, il Presidente Obama in formato kid, che con la sue smorfie alla “Arnold” ha fatto sorridere mezzo mondo. Mi sono ricreduto quando mi hanno segnalato la news di un fantomatico Giornale del Corriere: 25 mila euro di incentivo da parte della Comunità Europea a chi si sarebbe sposato entro il 2015.

Una volta per sposarsi bastava un prete, invece oggi davvero vale il detto della nonna: “Senza soldi non si cantano messe”. La notizia bufala ha fatto venire “la voglia dell’altare” persino agli indecisi, perché il contributo non sarebbe stato malvagio visto i costi esorbitanti di un matrimonio al giorno d’oggi. Ho pensato subito al “mio caro Sud” dove vince il detto “Cumpà, facimme a chi mette ‘a copp!”. In vista delle nozze gli sposini subiscono lo stress dei costi e la minaccia del business gonfiato intorno al “fatidico sì”. Dalle parti mie non provate a far incazzare ristoratori, fotografi, parrucchieri e fioristi che hanno imparato a memoria la solita filastrocca: il giorno più bello per gli sposi si paga.

Venticinque mila euro di incentivo ci farebbero comodi per soddisfare anche il divimo modaiolo dei fioristi, che oggi marciano in passerella e propongono cifre da capogiro per tappeti di fiori che dalla casa della sposa arrivano fino alla chiesa. Bisognerebbe avere il coraggio di dire no a tutto questo tam tam. Non per puntiglio, bensì per la dignità che ci hanno donato i nostri “nonni contadini”.

Il matrimonio felice della contrada, in una cartolina in bianco e nero del Secondo Dopoguerra, con il monello di mio padre e i suoi amichetti che passavano da una festicciola all’altra per mangiare qualche dolcetto. La sposa era bellissima con l’acconciatura fatta dalla vicina; lo sposo era radioso nell’unica foto in posa che veniva scattata; gli invitati erano soddisfatti del banchetto nunziale preparato in casa; la festa era indimenticabile nella cornice dei fiori del giardino tra petali profumati.

Lo scherzo dell’incentivo di 25 mila euro è stato un Pesce d’Aprile utile a farci riflettere. Svendere la magia di un giorno speciale calza la stessa taglia della meschinità.