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Perché ci piace Imma Tataranni, il Sostituto Procuratore numero uno della tv

Nell’affollato mondo delle fiction televisive – il più delle volte sbadigliamo per le somiglianze dei protagonisti in circolazione – Imma Tataranni è una ventata di freschezza. Il Sostituto procuratore, nato dalla penna lucana di Mariolina Venezia, è entrato nel cuore di tutti noi grazie all’interpretazione brillante di Vanessa Scalera. Dopo la prima puntata dell’attesissima seconda stagione, perché continua a piacerci la Tataranni?

LA TATARANNI SDOGANATA DA MONTALBANO

Imma Tataranni è la prima fiction del genere a sdoganarsi completamente da Montalbano, tenendosi distante dalle trappole dello scimmiottamento del commissario siciliano del raffinato Camilleri.
Il Sostituto Procuratore lucano è unico, con il suo carattere, le sue nevrosi, il suo mondo lavorativo e quello privato che mischiano le carte della vita di ciascuno di noi. L’autenticità di Imma Tataranni si insinua nel passaggio con disinvoltura dal luogo del delitto di una delle sue indagini al ferro da stiro nella doppia anima di femme du ménage, dai sospiri dopo un incontro con Calogiuro al tenero caffè in compagnia della mamma inghiottita da vuoti di memoria, dallo sbattere i pugni in casa da brava “mamma e moglie con i pantaloni” alla guerriglia contro il maschilismo del Procuratore Capo Vitali.

SINCERITÀ E EMANCIPAZIONE DI UNA DONNA DEL SUD

Se i profili social hanno disincentivato la nostra sincerità a stare a passo con i tempi, il personaggio femminile di questa fiction tv è uno specchio per ritrovare noi stessi. L’emancipazione di Imma Tataranni affonda il carrierismo sfrenato e cartonato per germogliare nelle sue radici di donna del Sud che impasta passato e modernità, che guarda avanti sapendo quale sia il momento giusto per voltarsi indietro.
Imma sa prendersi poco sul serio e abbattere con ironia tagliente i luoghi comuni, il provincialismo, il bigottismo, il vivere per apparire, con la consapevolezza che “cambiare vita” non si riduce alla fuga estemporanea dalla routine.

VANESSA SCALERA E LA MASCHERA TRAGICOMICA

Il bagaglio teatrale di Vanessa Scalera, l’attrice pugliese protagonista, ha contribuito alla costruzione e al successo del personaggio televisivo della Tataranni. La mimica facciale impeccabile, i tic, i movimenti puntellati del corpo fanno del Sostituto Procuratore una maschera tragicomica dei nostri tempi: la Scalera è un’attrice che da un palcoscenico a un altro è inciampata in Sofocle, Čechov, Brecht, Sartre, Shaffer e sa come scardinare il suo personaggio attraverso siparietti che virano verso l’esistenzialismo.
Sappiamo bene quanto un personaggio nato dalle pagine di un libro fatichi a spiccare il volo sul piccolo o grande schermo. L’immaginazione sconfinata da lettore cozza con un personaggio confezionato e servito allo spettatore. Qui non c’è solo il colpo della sceneggiatura, della regia a volte persino troppo calligrafica, ma l’arguzia e la bravura attoriale di Vanessa Scalera, misto di tecnica e talento, creatrice di uno dei personaggi che resterà nel cuore degli spettatori per tanto tempo ancora.

MARKETING TURISTICO

La fiction di Imma Tataranni ha rafforzato il marketing turistico sviluppatosi istintivamente con l’exploit del Commissario Montalbano da vent’anni a questa parte. Pensiamo a quanti angoli della Sicilia sono stati presi d’assalto dal turismo di massa per visitare dal vivo il set naturale del loro beniamino.
Dopo il Lago di Braies di Un passo dal cielo, la Spoleto di don Matteo, l’Assisi di Che Dio ci aiuti, la Roma dei R.I.S., la Napoli dei Bastardi di Pizzo Falcone, di Mina Settembre e del Commissario Ricciardi, la Bari vecchia di Le indagini di Lolita Lobosco, la Trapani di Maltese – il romanzo del commissario, adesso tocca a Matera e alla Basilicata di Imma Tataranni.
Un pezzo meraviglioso dell’Italia dimenticata, dopo Matera sul podio di Capitale della Cultura 2019, potrebbe diventare la destinazione del prossimo viaggio. Che cosa ne dite di trovarvi sotto casa della Tataranni a bere un buon caffè? Potrebbe essere l’occasione di una mini vacanza a curiosare tra quelli che sono i set della fiction che ha come protagonista uno dei personaggi più amati della televisione.

Parliamone Sabato? Le donne dell’Est viste dal viaggiatore non sono quelle della Rai

Una decina d’anni fa, in occasione di un reportage di viaggio nei Paesi dell’Est Europa, mi feci accompagnare all’Università di Varsavia. Incrociai un gruppetto di studenti a cui raccontai questo episodio, chiedendo alla mia guida di tradurre.
Nella seconda metà degli anni ’80, alla periferia di Napoli dove vivevo, si erano trasferite molte donne polacche per lavorare come badanti e assistere gli anziani. In paese, nell’infelice pregiudizio retrogrado, circolava la voce che quelle femmine dell’Est fossero arpie perché stavano scippando i mariti alle mogli del posto.

Le ricordo il sabato mattina che si ritrovavano alla stazione per andare in gruppo a trascorrere il giorno libero nella vicina Napoli: condivisione dei giorni dalle nostre parti, sospiri nostalgici, mostravano le une alle altre le foto dei figli, dei mariti, dei loro cari.
Le ricordo con profonda commozione in fila all’ufficio postale a depositare i soldi guadagnati da mandare alle famiglie in Polonia. Salutai così gli universitari di Varsavia: “Siete una generazione sveglia, siete il cuore pulsante di questa Europa. Ringraziate e siate fieri delle vostre mamme venute in Italia a faticare per finanziare anche i vostri studi. Io le ho viste con i miei occhi”.

Chissà oggi cosa direbbero gli studenti di allora se sapessero dell’imperdonabile scivolata di Paola Perego e dei suoi autori che ha portato alla chiusura del programma televisivo Parliamone Sabato. Un colpo basso del Servizio Pubblico Televisivo, i cui vertici non si erano accorti dei “sei consigli” sul perché conviene scegliere una fidanzata dell’Est.
E pensare che proprio ieri un amico mi aveva parlato con entusiasmo del suo matrimonio a Bucarest di prossima data. Ora chi lo dice ad Alexandra, sua futura sposa e promettente psicologa over 30, che in Italia la Televisione di Stato è schiavizzata dal fetido maschilismo del bar sotto casa e dal populismo ad oltranza?

Forse il migliore modo per risarcire noi che paghiamo il canone RAI – finiamola con la solita tiritera che si tratta di una tassa sulla tv (se così fosse dovrebbe essere equamente distribuito a tutte le emittenti) – sarebbe sostituire lo spazio occupato dalla Perego, oggi capro espiatorio di tante altre zolle in cancrena del palinsesto, con una serie di ritratti delle donne dell’Est Europa nell’ultimo cinquantennio, affidati a firme autorevoli del giornalismo italiano. Sarebbe un’opportunità per affossare pregiudizi, curare il nostro strabismo.
La mia generazione ha dovuto aspettare la caduta del muro di Berlino per iniziare a dialogare e riconoscere da vicino la bellezza della gente dell’Est, vissuta nei miei on the road che mi hanno portato da Sarajevo a Belgrado, da Tirana a Bucarest, da Varsavia a Sofia.

Ci sono tanti modi per far violenza su una donna. La puntata di Parliamone Sabato è uno di questi. A viale Mazzini le mimose sono appassite da un bel pezzo.

Cari Giovanni e Paolo, i vostri sorrisi cancellano la vergogna degli eredi dei padrini in tv

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Rosario PipoloDa bambino mi hanno insegnato che agli sconosciuti si dà del “lei”. In modo particolare è d’obbligo agli sconosciuti che scalfiscono nella nostra dignità l’offesa di mandare in tv i figli dei padrini.

Ai tempi della Prima Repubblica i padrini si baciavano perché sigillavano il patto di complicità tra politica e mafia, tra istituzioni e mafia. A differenza della concorrenza che si limitava a mandare in onda le vicende di Tony Soprano, il più noto boss della mafia italo-americana di una serie televisiva, oggi il Servizio Televisivo Pubblico apre le porte e fa spazio sui suoi divani alla prole legittima della stessa mafia che venticinque anni fa tentò ti togliervi la parola.

La messa in onda di ieri sera non era una fiction così come non lo è stato il giornalismo che ha subìto un duro colpo, uno schiaffo alla deontologia di un mestiere in cui restano invisibili coloro che si sforzano di farlo nel migliore dei modi.
La banalizzazione della mafia nelle domande del padrone di casa mi ha fatto tornare in mente una sottolineatura, lasciata sulla prima edizione della mia Garzantina sulla Televisione. Così scriveva Aldo Grasso a proposito dell’intervistatore di ieri sera: “Sempre fedele a un modello di giornalismo ossequioso nei confronti del Potere”.

Il dolore non passa mai così come la vergogna. Voglio tenermi appartato dal fetore di questa discarica.  Voglio ricordarmi della mia ultima volta a Palermo, a piedi scalzi sulla sabbia, per mettermi alla ricerca di voi due tra i suoni e i profumi della vostra città. I colori della libertà mi hanno fatto sentire a casa.

Ah, sì, a voi due sto dando del tu. Non mi sento maleducato. Volevo tenere l’ultimo fiato sospeso per voi. Ho imparato sulla mia pelle che alla belle persone si deve dare necessariamente del “tu”.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, voi due restate la bellezza che nessuno ci porterà mai via, neanche la televisione che saccheggia la dignità.

I Dieci Comandamenti di Benigni e il catechismo del giullare di Dio

Rosario PipoloQuarant’anni fa con la tv di Stato sul groppone della Balena Bianca, sarebbe stato impensabile vedere “il piccolo diavolo” – lo stesso che prese in braccio Berlinguer – sul primo canale nazionale.
Nel tempo in cui il Servizio Pubblico si è omologato agli standard della volgarità televisiva, I Dieci Comandamenti di Roberto Benigni sono un bel dono di riflessione per correre ai ripari tra le braccia di Dio, nei giorni che vanno spediti verso il Natale: “In Italia la politica non c’è, buttiamoci su qualcosa di più concreto, Dio”.

Certo, questo “dono natalizio” ci è costato 4 milioni di euro – sono in tanti a lementarsi tra le corsie del supermercato dei social network – cifra comunque comprensibile se pensiamo agli sprechi passati e inutili del palinsesto televisivo nazionale o di quel canone versato per vedere stellette riciclate al Festival di Sanremo. Roberto Benigni che parla della Bibbia? “La Bibbia è un bestseller perché l’autore è anche l’Autore dei suoi lettori”.

Prima di buttare lo sguarso sul libro sacro, l’incipt di attualità è immancabile: “Stasera abbiamo avuto il permesso di tutti, della Rai, della questura e della banda della Magliana”. Che smacco per i cattolici “integralisti” trovarsi in prima serata “un giullare comunista” che tiene lezioni di catechismo, aggiudicandosi il titolo di “giullare di Dio”, perché la grandezza del Padreterno non si abbassa ai luoghi comuni o alle meschinità ideologiche.
La grande bellezza di Dio, al di là delle religioni, si propaga attraverso la voce del toscanaccio dal cuore aperto: “Per parlare di Dio bisogna tornare bambini. Come diceva la mi’ mamma più si cresce, più non si capisce niente”.

La televisione dei Dieci Comandamenti di Roberto Benigni non è paragonabile alla densità e alle suggestioni dell’anima nel cinema di Il Decalogo di Krzysztof Kieślowski. Resta comunque un momento emozionante di televisione che bacchetta la nostra rincorsa frenetica verso un Natale svuotato del suo significato, dimenticando che “Dio ci ha ha allargato la testa, mettendoci dentro l’infinito”.
E la bestemmia umana è “aver combattuto in tremila e passa anni di storia più guerre in nome di Dio che per qualsiasi altra cosa”, calpestando e oltraggiando un comandamento, chiave di lettura dell’evoluzione dell’umanità: “Io sono il Signore Dio tuo. Il patto d’amore è tutto in quel tuo”.

Roberto Benigni ci ha fatto venire una voglia matta di stare zitti, perché “il senso di Tutto è nel silenzio e non nel frastuono”, e di tornare a leggere quella Bibbia, scrigno della “voglia dell’Onnipotente di trasmettere amore a più generazioni”. Scemate le polemiche, i casi sono due per “il piccolo diavolo”: o lo spediscono al rogo o lo fanno cardinale. Non escluderei la seconda ipotesi, perché al fianco di un Papa Francesco ce lo vedrei bene un giullare alla Benigni.

Tutto il resto è noia: via in fretta da Sanremo 2014 senza né vinti né vincitori

Rosario PipoloAbbiamo smaltito già il colpo basso del televoto del Festival di Sanremo. Neanche più ci ricordiamo chi è arrivato in cima all’Ariston. Non ricordiamo né vinti né vincitori di questo Sanremo 2014, riflesso del Belpaese in una pozzanghera che vorrebbe sotterrare “contro vento” la musica sotto la melma.

Dimenticheremo in fretta le canzoni dei Big – che poi BIG non sono stati – nonostante Spotify e Deezer si facciamo la guerra ai tempi della “musica liquefatta” e isolino la singola canzone dalle compilation sanremesi a cui eravamo abituati ai tempi di cd e vinile.
Dimenticheremo in fretta le canzoni di questo Sanremo che si è ostinato a cercare la bellezza tra la puzza dei vagoni della cronaca, della storia televisiva del Servizio Pubblico, negli sketch noiosi che scimmiottavano i bei tempi del varietà.

“Grazie dei fior” che non abbiamo ricevuto perché anche le rose e le margherite sanremesi sono state epurate dal Festival così come le canzoni che non hanno avuto tempi e spazi giusti. Siamo un paese governato dal giovanilismo di cartone politico e poi all’Ariston i giovani vedono un microfono dopo mezzanotte. Per fortuna le Nuove Proposte hanno energia e spaccano lo schermo.
Dimenticheremo in fretta le canzoni di questo Festival di Sanremo. A far rimbalzare questa volontaria smemoratezza ci sono un inatteso flashmob musicale, la triste notizia della scomparsa del “Grande Joe” del Banco o la poetica ninna nanna di un songwriter americano convertito all’Islam. Salviamo almeno queste tre polaroid.

Dimenticheremo in fretta il rapper, che ha rivestito “la terra dei fuochi” di “terra del sole”, se nel giro di qualche anno il suo pubblico lo trasformerà da ranocchio nel bel principe dei “neomelodici”.
Dimenticheremo in fretta il buonismo o l’acidità social che gironzola sui tacchi a spillo nei giorni festivalieri. Tanti sono convinti che per giudicare una canzone basta essere ciò che non siamo.

Non ci resta che piangere? No, perché Sanremo è Sanremo. E se tutto il resto è noia? Ci siamo fregati con le nostre stesse mani, perché non c’è Franco Califano a cantarci il refrain.

La mia playlist di Sanremo: quando le canzoni possono cambiare la nostra vita

Rosario PipoloGrazie alle canzoni del Festival di Sanremo i nostri nonni hanno canticchiato il Boom del Belpease; i nostri genitori hanno rimpatriato i clamori sessantottini; la mia generazione ha bucato i palloni gonfiati degli anni del riflusso; quella successiva ha lasciato scivolare sui sui social media l’anima canterina in vetta ad un cinguettio. Per molti il palco dell’Ariston è la culla di fenomeni da baraccone; per tanti è la zona franca dove poter tirar giù la playlist musicale della nostra vita.

Una playlist degna di essere menzionata è fatta da una selezione di brani, che mette al tappeto l’euforia del momento. Spesso ricordiamo l’interprete e centrifughiamo la melodia. Raramente inseriamo il significato delle parole nel dizionario della nostra vita.

Nilla Pizzi cantò con Papaveri e papere (1952) il sopruso dei potenti verso i deboli; Mimmo Modugno trasfigurò l’arte di Chagall con Nel blu dipinto di blu (1958), santificata come “Volare” a furor di popolo; Tony Dallara urlò l’irrequietezza di Renato Rascel con Romantica (1960); Pino Donaggio sfoggiò la melodia degli “anni che verranno” con Io che non vivo (senza te) (1965); Don Backy affisse la modernità sul retrogusto classico con L’immensità (1967); Luigi Tenco fu precursore dei tempi dei grandi cantautori con Ciao, amore, ciao (1967); I Delirium di Fossati strapparono il siparietto dei soliti accordi con Jezahel (1972); Lucio Dalla contribuì a stilare un manifesto post ’68 con Piazza Grande (1972); Angela Luce rivestì la canzone classica napoletana con Ipocrisia (1975); Rino Gaetano sfilò via i tabù con Gianna (1978).

Alice sparse incenso dagli aromi di Battiato con Per Elisa (1981); Vasco vomitò il rock grezzo di Vado al Massimo (1982); Lenia Biolcati portò la melodia tra garbo e stile con Grande grande amore (1986), Sergio Caputo mescolò il sound alle falde del Vesuvio con Il Garibaldi innamorato (1987); Luca Barbarossa contò lo stupro con L’amore rubato (1988); Mia Martini rinacque dai graffi di Mimì con Almeno tu nell’universo (1989); Enzo Jannacci indosso i panni del cantastorie con Se me lo dicevi prima (1989); Giorgio Faletti si fece penna di un fatto di cronaca con Signor Tenente (1994); Elio e le storie tese anticiparono l’Italia di questi giorni con la Terra dei cachi (1996); Gli Avion Travel smascherarono la teatralità con Sentimento (2000). Elisa retroilluminò un nuovo stile con Luce (2001), Daniele Silvestri si mise di traverso con Salirò (2002); Tricarico sgretolò quella smisurata compostezza con Vita Tranquilla (2008); Roberto Vecchioni cantò la densità dei sentimenti con Chiamami ancora amore (2011); Samuele Bersani mise in campo la metafora con Un pallone (2012).

Concedersi il privlegio di una playlist sanremese “alternativa” può farci pensare che l’Ariston non sia stato solo il palco dei “trottolino amoroso dudù dadadà”. C’è una zona, lasciata nell’ombra del tempo che getta polvere di stelle, in cui alcuni autori hanno urlato sottovoce piccole rivolte. Il Festival di Sanremo di Fabio Fazio dovrebbe farsi carico dello spessore della memoria musicale. E non sono di certo le Carrà o le Kessler a farlo.

Cartolina da Torino: Il “razzismo” di un cronista e “la puzza dei napoletani”

I social network lo hanno linciato, l’azienda in cui lavora si è limitata a sospenderlo. Giampiero Amandola era un giornalista anonimo fino alla settimana scorsa. E’ riuscito finalmente a guadagnarsi un pizzico di celebrità, firmando un servizio “razzista” per il Tg3 Piemonte in occasione della partita Juve-Napoli di sabato scorso. Nel mirino non c’erano gli extracomunitari o i vucumprà, ma coloro che dagli anni’ 50 del secolo scorso hanno dato al capoluogo piemontese, assieme agli altri meridionali, la più grande forza lavoro dal secondo dopoguerra ad oggi: i napoletani.

“I napoletani che puzzano” sembra un vecchio slogan stampato sui volantini anonimi lasciati all’entrata della fabbrica che produceva le automobiline del Belpaese del Boom. L’urlo e le definizioni della rete bastano e avanzano per sintetizzare la meschinità di Amandola e l’accaduto non merita neanche di essere commentato.
Tuttavia, bisognerebbe fare un passo indietro e capire come possa accadere che vada in onda sul Servizio Pubblico televisivo marciume di una tale portata. E’ legittimo chiedersi, senza per forza fare il mestiere di giornalista: Chi ha dato il benestare per mandare in onda il servizio? Se fosse accaduto all’epoca della lottizzazione RAI del Pentapartito sarebbe scoccata la bufera: Democristiani e socialisti  con il dito puntato contro i comunisti che occupavano il suolo del terzo canale.

Se ciò accadesse in Gran Bretagna, nel tempio della BBC, vedremmo “il cronista d’assalto” sbattuto fuori dalla porta con una lettera di “licenziamento” tra le gambe. Ahimé, siamo in Italia, dove riusciamo a far passare per “un servizio giornalistico di colore” qualcos’altro.

I tifosi che sono stati al gioco, dovrebbero farsi raccontare dai genitori e dai nonni che “i napoletani puzzavano” quando uscivano dalle fabbriche di Torino. Di quell’odore ne andavano orgogliosi perchè, rincasando, potevano guardare negli occhi mogli e figli con la dignità di chi conosce i sacrifici e lo sfinimento della fatica.
Chi ha lanciato invece la scialba provocazione, dovrebbe imparare a memoria un’affermazione di Elsa Morante, che in questi dieci anni in cui vivo lontano da Napoli, recito tutti i santi giorni mentre mi guardo allo specchio e mi sento orgoglioso di essere stato partorito dalla mia terra: “Grande civiltà di Napoli: la città più civile del mondo. La vera regina delle città, la più signorile, la più nobile. La sola vera metropoli italiana”.

 

  Juve-Napoli, Rai sospende giornalista Tg Piemonte

Cosa faremo senza Emilio Fede dopo vent’anni di TG4?

Non sarà più la stessa cosa senza Emilio Fede. Ci ha abituati a vent’anni di spudorata e onesta faziosità. Non meravigliamoci se il TG4 perderà audience. Chi bersaglieremo adesso con gli immancabili sfottò? Finisce un’epoca, battezzata dal racconto dei primi bombardamenti su Bagdadh nel ’91, quando ancora le reti del Biscione si stavano preparando ad oltranza per entrare nell’olimpo dell’informazione.

Se fosse vivo Jim Henson, autore dei mitici Muppets, gli chiederemmo di realizzare un pupazzo e chiamarlo Emilio. Lo finanzieremmo con una questua tra le casalinghe tele guardone che, negli ultimi decenni, si sono intrattenute con le telenovele di Grecia Colmenares e informate con il tiggì del Fede(le). Perché non mandare in onda una striscia, prima del TG4, sulla falsa riga degli “Sgommati”, con tutti i siparietti e le gaffe che il giornalista ci ha regalato in tutto questo tempo?

Non si capisce bene cosa sia stata la molla che ha trasformato “la domus” di Cologno Monzese nello spietato buttafuori che non guarda più in faccia nessuno: l’età anagrafica, difficile da nascondere tra colpi bassi di lifting e l’arem delle letterine del telegiornalismo patinato; le bravate dei compagni di merenda Emilio e Lele; le malelingue sulle rubacuori o il malloppo seppellito in Svizzera.

Ad Emilio Fede va riconosciuto un merito, quello di aver navigato il vascello della tv privata allo stesso modo di quella Pubblica, ai tempi in cui in Rai si capiva a colpo d’occhio da che parte stavi. E forse da oggi non lo incroceremo più con gli occhi sbarrati al tavolo da gioco di un casinò, ma nel baretto paesano sottocasa, il posto trash che univa intorno ad un bicchiere di vino i vecchi democristiani nostalgici. Gli stessi che, nella belle epoque radio-televisiva del secolo scorso, se ne andavano su e giù per i corridoi di viale Mazzini a cercare il padrino con cui imparentarsi.

Chiamami ancora amore: Caro Prof. Vecchioni, ti scrivo…

Oggi non ho voglia di scrivere, non mi va. Ho piuttosto voglia di scriverti perché, quando sono partito per Milano otto anni fa, avevo in valigia una tua canzone: Sogna, ragazzo, sogna. In quelle rare occasioni in cui ci siamo incrociati, continuavo a ripeterti che al liceo sognavo di avere un professore come te. In fondo è come se tu lo fossi stato, perché attraverso i tuoi dischi ho imparato a guardare il mondo diversamente, facendo sempre intromettere il cuore nel cervello. A volte mischiare i sentimenti col pensiero non è un’idea così malvagia.
Quest’anno dalle ceneri di un bruttissimo Festival di Sanremo, è saltata fuori la musica che appassiona, perchè “tra il silenzio e il tuono” c’è letteratura, rispunta la poesia, si impone la forza di ogni singola parola sulla volgarità delle inutili canzoncine che lasciamo il tempo che trovano. Chiamami ancora amore, il tuo brano che ha vinto il 61 Festival di Sanremo, è un grande inno alla vita, ma anche il canto del cigno contro le dittature invisibili che viviamo giorno dopo giorno. Che dolore far finta di niente “per il poeta che non può cantare, per l’operaio che non ha più il suo lavoro, per chi ha vent’anni e se ne sta a morire in un deserto come in un porcile”.
Io non ci sto, anche se crescendo ho capito che camminare fuori dal coro costa rinunce, ma la bramosia della libertà vale più dell’urlo soffocato dalla stupidità, che si propaga nella mostruosità dell’omologazione. “Questa maledetta notte dovrà pur finire perché la riempiremo noi da qui di musica e parole”: allora rimetto lo zaino in spalla e sai cosa ti dico? Vengo con te, professor Vecchioni, a cercare uomini e donne per condividere il nostro sogno comune “perché le idee sono come farfalle che non puoi togliergli le ali; perché le idee sono come le stelle che non le spengono i temporali; perché le idee sono voci di madre che credevano di avere perso e sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo”.
In questa notte è necessario che io condivida la pagina del mio libro con quella sua, perchè anche se fossi l’ultimo uomo sulla terra avrei bisogno almeno di lei per “difendere questa umanità”. E tra trent’anni, invecchiato come sarò, voglio combattere per incrociare per l’ultima volta i suoi occhi e ripeterle in una notte stellata come questa il tuo pensiero: “Anche se non mi ha capito mai nessuno, non mi sono mai sentito solo. L’importante che mi hai capito tu. Grazie, amore mio.”
Allora sì che avrò attraversato il territorio del destino, lì mano nella sua mano, con l’unica donna che avrà dato un significato alla mia esistenza. Avremo respirato assieme questo “disperato” (bi)sogno… d’amore.

Sanremo 2011 Atto II: Il soldatino di piombo al Festival della Canzone

Rassegniamoci perché questo è un Festival di Sanremo da dimenticare. Ha deluso persino la categoria Giovani, mandata in onda poco prima della mezzanotte, quando i più insofferenti avevano spento già il televisore da un pezzo: passano il turno, graziati dal fantomatico Televoto, Serena Abrami che fa l’indossatrice per Niccolò Fabi e Raphael Gualazzi con lo swing da faccia da schiaffi che tira un rimbalzo al sound di Bublé.
Svestiamoci di tutto senza tralasciare un particolare: questo è il Festival della Canzone Italiana e non del cantante. E allora se con la dovuta spensieratezza emotiva vogliamo rincorrere un bagliore, stiamo dietro a Tricarico, che nonostante la sua esecuzione traballante, ha azzeccato il brano nel giubileo civico verso l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Tre colori è una filastrocca musicale, ben congeniata, perchè disegna i contorni a matita di piccole storie che sono quelle di ognuno di noi. Ho ripensato a mia madre quando una trentina d’anni fa si presentò regalandomi il libro illustrato del Soldatino di piombo. Attraversando la fiaba di Andersen mi ero illuso che chi indossasse la divisa era una miniatura giocattolo, che poi al momento opportuno sarebbe tornata nel cassetto. Altro che soldatini di piombo, quelli erano stati lì armati di fucili a farsi ammazzare per cucire quei tre colori.
E in uno dei tre della bandiera italiana si intrufola, sotto la ballata d’amore, il grido del professor Roberto Vecchioni: “Per il bastardo che sta sempre al sole, per il vigliacco che nasconde il cuore, per la nostra memoria gettata al vento da questi signori del dolore”. La storia si ripete e noi magari ci accontentiamo di mandarla giù a memoria, come se poi il dovere civico e la coscienza collettiva di un Paese si misurassero con molte frottole che affollano i tanti libri di storia. E qui “Chiamami ancora amore, chiamami per sempre amore” non è la sviolinata ricercata da dedicare a chiunque percorra senza saperlo il nostro cuore in questo momento, ma è il richiamo all’adunata, quella delle coscienze e di una presa di posizione precisa rispetto a tutto il resto, alle oscene banalità che scontornano l’essenza della vita. Cosa ce ne facciamo di un mondo finto, costruito a tavolino tra lacrime da coccodrillo ed euforia virtuale? Cosa ce ne facciamo di un mondo che ha rinunciato consapevolmente al sapore dell’amore? Chi corre troppo in fretta qualcosa se la perderà pure. Sanremo è il Festival della Canzone Italiana e non dei cantanti. Torno a ripeterlo. Così abbiamo l’unica chance di tornare sui nostri passi e accorgerci che dopotutto in qualche canzonetta è ancora nascosto il segreto per riappropriarci della collettività e scrollarci di dosso il nostro miserabile individualismo.