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Manchester, il “Bataclan” del Regno Unito di Theresa May

La Gran Bretagna ha il suo Bataclan, la Manchester Arena, trasformata lo scorso 22 maggio dall’ISIS in una piscina di sangue innocente. C’è un orrore che viene prima di tutto: l’abitudine ai colpi bassi del terrorismo islamico, che ferendo a turno l’Europa, imbastisce la routine con l’orrore.
Ce ne accorgiamo con un groppo in gola appena apprendiamo la notizia e, dopo qualche minuto, riprendiamo normalmente la quotidianità, seppellendo dentro noi la spina nel fianco egoista che ci rasserena, perché abbiamo scampato il pericolo.

L’ondata emotiva dei social network non basta più, la duplicazione e omologazione dell’hashtag #JesuisCharlie si è svuotata dall’8 gennaio 2015, le solite frasi preconfezionate in rimbalzo da una bacheca all’altra di Facebook sono muffa, le foto dei teenager ammazzati e fan della musa teen Ariana Grande sono l’album di figurine accompagnate dalla didascalia “sono morti innocenti, sono soltanto dei ragazzini!”, come se poi essere vittima di un attacco terroristico sia una questione anagrafica.

Il viso pallido della Premiere Theresa May assomiglia a quello della signora Thatcher dopo le bombe dell’IRA, nel ricordo della mala gestione della questione irlandese, o meglio il filo spinato del regno conservatore della Lady di Ferro.
L’attentato di Manchester ha un precedente che non può essere offuscato neanche dalla tenera visita della Regina Elisabetta ai sopravvissuti: il video pubblicato poche ore dopo l’attentato di Westminster dal tabloid The Sun, in cui si vedeva la signora May fuggire incerta verso la sua auto, mostra le crepe di Scotland Yard e dei servizi segreti britannici.

La scomparsa di sir Roger Moore, l’attore inglese che ha prestato la faccia al James Bond dal ’73 all”85, a poche ore all’attacco di Manchester sembra davvero beffarda nel tempo dell’Inghilterra della Brexit, in cui gli 007 hanno fatto un buco nell’acqua e per niente al mondo sembrerebbero figli del Bond nato dalla penna di Ian Fleming.

La voragine dell’Inghilterra post-Manchster, trascorsi i giorni di lutto e dolore, segnerà il cammino del Regno Unito della Brexit che, pur avendo voltato le spalle all’Unione Europea, si troverà a condividere con il resto del Vecchio Continente le minacce dell’ISIS.
Mentre soffia il vento europeista sul patto d’acciaio Macron-Merkel, la signora May si avvia alle elezioni dell’8 giugno.
Dopo il prologo di Westminster, comincia un periodo buio per la Gran Bretagna, lontana anni luce dall’isola felice scoperta dalla mia generazione nelle vacanze studio d’oltremanica, protratte nell’illusione collettiva di aver trovato la terra promessa del nostro futuro.

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Diario di viaggio: Parigi non può essere più la stessa con un Ground Zero

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Bataclan, 6 gennaio 2017 (In memoria di Valeria Solesin e di tutte le vittime del 13.11.2015)

rosario_pipolo_blog_2Nel 1996 arrivai la prima volta a Parigi su un treno della SNFC francese. In vent’anni il mio via vai ha sigillato un legame continuativo con la capitale francese. Ci sono ritornato on the road con Ouibus, sentendomi per metà francese appena vi ho messo piede con le dovute distanze dal solito tam tam dell’Epifania e dello slogan deplorevole di “La Befana tutte le feste porta via”.

I controlli alla frontiera sono certosini, l’aria è tesa, vanno e vengono passaporti. Anche io, che sono italiano, sono sottoposto ad un mini interrogatorio, mi sento straniero in direzione di una Francia che invece mi appartiene.
La mia alba è a Place de la Bastille, il luogo in cui Parigi diede all’Europa la più grande lezione di civiltà, ghigliottinando una monarchia incapace, facendo soffiare sul vecchio continente i venti di Liberté, Égalité, Fraternité.

A pochi passi da lì il primo Ground Zero parigino, la vecchia redazione di Charlie Hebdo messa a ferro e fuoco dal terrorismo che il 7 gennaio 2015 spezzò la matita della libertà d’espressione. Mi incammino verso il numero 50 di Boulevard Voltaire. Davanti il Bataclan, la sala concerto che subì uno degli attacchi terroristici del 13 novembre 2015, resto pietrificato ripensando agli angeli che vi morirono, inclusa la nostra connazionale Valeria Solesin. Qui c’è la seconda fossa del Ground Zero Parisien, oltre la gelida lapide di marmo.

Entrando in Place de la Republique si scorge il memoriale corner con i fiori dedicato ai morti del terrorismo infame. Parigi ha smesso di essere acquerellata tra Torre Eiffel, Arco di Trionfo, Louvre – triangolo sopravvissuto soltanto nell’immaginario del turismo di massa distratto – e perde i suoi simboli da cartolina.
Il Ground Zero spezzettato sul cuore ferito della Ville Lumière scatena in ciascuno un indomabile sospetto: chiunque, a pochi passi da noi, potrebbe essere il terrorista del prossimo turno: l’uomo barbuto che legge il giornale; la donna minuta col burqa al forno per la solita baguette; il ragazzo che bivacca sulla panchina.

Questo “sospetto” mette a repentaglio il Nous somme unis, facendo correre ai francesi il rischio di risvegliarsi gli uni contro gli altri, come accenna tra le righe il meraviglioso film Tour De France diretto da Rachid Djaïdani, visto in anteprima insieme a Depardieu all’ultimo Festival France Odeon di Firenze.

Chi voleva ammirare Parigi dall’alto è andato sulla Torre Eiffel, senza rendersi conto che la foschia in una domenica di gennaio ne avrebbe impedito la vista.
Parigi non si lascia più guardare dall’alto, ma dal di dentro. Questo può avvenire soltanto dal basso e con lo sguardo diritto verso un Ground Zero che ci appartiene.

Cartolina da Parigi: Je suis Charlie, 7 gennaio ore 11.30

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rosario_pipolo_blog_2Una fuga a Parigi, per giunta senza preavviso, può essere anche defilarsi nel silenzio di rue Nicolas Appert. Ci sono due gradi sotto zero e alle 11.30, l’ora esatta dell’attentato terroristico a Charlie Hebdo, siamo poche anime davanti l’ex redazione del periodico satirico francese.

L’artista francese Christophe Verdon sale su uno scaletto e appiccica al muro l’insegna “Piazza della Libertà d’espressione”; ci sono alcuni fedeli lettori che lasciano commossi un fiore; poi arriva un gruppo di uomini e donne in divisa che lascia una preghiera per il collega poliziotto morto nell’attentato. È una commemorazione fatta di gesti spontanei.

Una fuga a Parigi, lontano dai “luoghi comuni” per il turismo di massa, può essere anche ribadire una riflessione messa nero su bianco due anni fa: “La libertà di una matita vale quanto quella di una penna”. Perciò oggi sono venuto qui a condividere con questo gruppo di francesi un momento toccante.

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Una fuga a Parigi può essere il pretesto per ammettere una volta e per sempre che questa città non è più la stessa e chi la conosce bene sa di cosa parlo, di cosa si prova. “Je suis Charlie” non è soltanto  lo slogan di un tragico giorno da non dimenticare, ma è soprattutto l’amara consapevolezza che c’è sempre un attentatore dietro l’angolo – mi riferisco alla nostra quotidianità – pronto a mettere in pericolo la nostra libertà di pensiero e di espressione. Questo non vale soltanto per chi fa il mio mestiere, ma per chiunque, ogni santissimo giorno, lotta affinché l’idea di libertà di pensiero non sia schiacciata dal becero qualunquismo dei giorni nostri.

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Per la prima volta, nel mio legame ventennale e privilegiato con la capitale francese, ho scalato l’anima segreta di una Parigi che mostra con dignità le proprie ferite aperte e lascia al tremolio della paura la chance per guardare avanti con gli occhi sulla schiena rivolta verso piazza della Bastiglia, da cui partì l’urlo di libertà che l’Europa mai dimenticò.

Oggi siamo qui anche perché non vogliamo permettere al terrorismo di cambiare le nostre abitudini, continuando a vivere Parigi con i valori che “la Ville Lumière” ci ha lasciato in eredità.

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Sentirsi “Charlie” non è un capriccio né una vendetta, è un mutamento interiore dell’essere parte attiva di una società civile. L’ho capito stamattina alle 11.30 al numero 10 di Rue Nicolas Appert.

Mai più ferite: Tifiamo per la Francia agli Europei di calcio 2016

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Rosario PipoloFuori dal campo, per non fare uno sgarbo alla nostra Nazionale Azzurra, tifiamo per la Francia a questi Europei di calcio 2016. Sugli spalti dello Stade de France c’è ancora il ricordo spettrale degli attentati di Parigi dello scorso novembre.

La minaccia del terrorismo è sempre dietro la porta e la Francia è in una posizione di difesa nei giorni di una guerra che non vuole finire. I francesi hanno dato prova di grande forza, come i belgi del resto, nel ritornare alla quotidianità mettendo in guardia chi ci vorrebbe far vivere nella paura del recluso.

Non siamo reclusi, vogliamo continuare a viaggiare, a guardarci nelgi occhi a lume di candela in un ristorantino del X arrondissement, a sentirci legati al nostro Paese sullo spalto di uno stadio, ad ancheggiare abbracciati stretti stretti ad un concerto al Bataclan.

Tifiamo per Parigi a questi Europei di calcio, sorridendo davanti alla Torre Eiffel che palleggia – proprio come nel doodle che oggi Google dedica all’evento sportivo – e sospirando travolti dell’energia di questa fiumata di gente per strada.

Tifiamo per Super Victor, il bambino con il mantello e i super poteri in volo sugli stadi francesi di Euro 2016. Per tanti è una mascotte temporanea con il sorriso stampato sulle labbra, per i parenti delle vittime è il volto fanciullesco di chi rinasce tutti i giorni, in un ricordo, in un sogno tappato, in una storia taciuta dal dolore.

Tifiamo per la Francia a questi Europei di calcio 2016. Non è un capriccio, non è un omaggio strappalacrime, è piuttosto il ritrovamento di un germoglio seppellito dentro di noi che calpesta estremismo e populismo, colpevoli di insanguinare l’immaginario collettivo con l’aberrazione della multietnicità.

Pray for Paris, nel silenzio di Parigi il Ground Zero dell’Europa ferita

Rosario PipoloAvremmo dovuto sentire il tifo acceso parigino allo Stade de France per l’amichevole Francia-Germania. A Saint-Denise Parigi ha sentito lo stesso boato del massacro terroristico di Monaco di Baviera nel 1972.

Avremmo dovuto ascoltare fino all’ultimo arpeggio le chitarre graffianti degli Eagles of Death Metal. Parigi invece ha assistito incredula alla carneficina a freddo di un pubblico da concerto tra le mura del Bataclan.

Avremmo dovuto festeggiare senza troppi clamori il nostro anniversario al ristorante Petite Cambodge. Ci hanno servito invece colpi di kalashnikov e la Torre Eiffel non ci ha aspettati tutta illuminata come la prima volta per il romantico bacio di mezzanotte.

Il terrorismo si è preso beffa di tutte le misure di sicurezza dopo la prima avvisaglia dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo dello scorso gennaio. I terroristi del 13 novembre non hanno colpito le istituzioni, ma direttamente la libertà di tutta la comunità nei luoghi che rappresentano la quotidianità di ciascuno: lo spalto di uno stadio, la sala di un concerto, un ristorante.
E’ uno dei momenti più bui della Quinta Repubblica Francese e il più oscuro della traballante presidenza di François Hollande.

L’ISIS ha scavato con un bagno di sangue il Ground Zero europeo nel cuore di Parigi. L’Europa abbassa il capo ferita e nelle ultime 50 ore ha preso coscienza di avere il suo 11 settembre. La paura ha abbassato i livelli di sicurezza emotiva, non la sentiamo più neanche nei nostri bunker a forma di casa. Il pericolo lo corriamo tutti.

Lo sciacallaggio mediatico ha mostrato che in Italia basta poco per essere sconci: il titolo di un quotidiano fuori posto, la bega politica nel cortiletto televisivo o l’intervista insensata.
I social network
, che in questo weekend infernale hanno dimostrato per l’ennesima volta di essere bacino spontaeno di pubblica utilità, hanno supportato le famiglie delle vittime e dei dispersi attraverso l’hashtag su Twitter #RechercheParis.

Parigi non sarà più la stessa così come tutta l’Europa. Non è più tempo di crociate, di guerre mondiali e forse neanche delle guerre intelligenti, spiegate negli anni ’90 da Rossella Savarese in un saggio su cui mi sono formato. E’ tempo di affrontare con coscienza e senza l’istinto vendicativo o guerrafondaio la sordità dell’odio, quello che Kassovitz spiffera nelle sequenze dell’indimenticabile film La Haine.

In queste ore di fermo emotivo e silenzio si legittimano le riflessioni: i ricordi personali, che legano ciascuno di noi alla Parigi ferita, torneranno ad illuminare la Torre Eiffel, al buio prima della mezzanotte nelle ore del terrore sulla coda del 13 novembre.
Restituiremo a Parigi, attraverso la gratitudine e la riconoscenza di viaggiatori, anima e serenità, recuperati dal perimetro di un selfie, di uno scatto qualunque, di un momento speciale condiviso.

Vogliamo che la Torre Eiffel non sia ricordata come un ammasso di ferraglia spettrale, perché Parigi non resti un lager, ma una terrazza da cui guardare il futuro della memoria di essere europei nella gioia e nel dolore.

Je suis Charlie Hebdo: la libertà di una matita vale quanto quella di una penna

Rosario PipoloC’è un senso di sdegno e sgomento che ci fa sentire improvvisamente tutti francesi. L’attentato alla redazione del giornale satirico d’oltralpe Charlie Hebdo è stato disegnato significativamente in questa splendida vignetta di Philippe Geluck.

Partiamo da una digressione storica. La satira è stata sempre una spina nel fianco in un regime dittatoriale così come in una democrazia. Quando negli anni passati la matita del nostro Forattini fu improvvisamente messa alla gogna dall’editoria italiana per uno sgarro al politicante di turno, il disegnatore romano sottolineò: “La sinistra non accetta la satira quando le è rivolta contro”.

Questo per dire che la satira è pungolo per chiunque, per qualsiasi organizzazione, politica e non. Figuriamoci poi per terroristi ed estremisti.
Nel centro commerciale dei social network, tra gli scaffali delle banalità, ho letto pure di chi insinuava che Charb, il direttore di Charlie Hebdo, aveva calcato la mano e se l’era cercata.

Mettiamo in chiaro che la libertà della matita di un disegnatore vale quanto quella della penna di un giornalista. Se d’altro canto volessimo andare ad intercettare tutti i fiumi di inchiostro omofobi, razzisti e guerrafondai, dovremmo aspettarci “bombaroli” in azione in ogni angolo del mondo.

La libertà di pensiero, messa nera su bianco, non si riduce banalmente ad essere solo un capisaldo di civiltà e democrazia ma è la molla che fa anche della “satira più spietata” il territorio fertile di denucia, attribuendo al perimetro di un foglio bianco lo spazio di una una rivolta senza sciabola ma a matita.

La violenza e l’integralismo si sconfiggono con intelligenza. Meglio stare alla larga dall’imprudenza estremista di Madame Le Pen che vorrebbe, attraverso la pena di morte, riportare la Francia al terrore della ghigliottina, o dalla flemma di Monsieur Hollande che dovrebbe fornire ai francesi spiegazioni su come, in termini di sicurezza, si poteva evitare questa strage.

Le due matite al posto delle torri gemelle di Geluck lasciano spigoli di riflessione a chi come me ha scelto di inserire nel proprio picprofile l’urlo solidale Je suis Charlie, doloroso hashtag su Twitter che ci porteremo appresso nel corso di questo 2015 e orribile sequenza di un film mai girato da Claude Chabrol sul massacro di un gruppo di intellettuali che, con le loro matite e le loro vite, hanno difeso dal bavaglio la storia della satira francese. La strage di Parigi è una cicatrice che la Quinta Repubblica francese non rimarginerà così come sarà per la politica di Hollande, il più flaccido inquilino all’Eliseo. 

Dov’eri quel maledetto 11 settembre di dieci anni fa?

Caspita, sto pensando a dov’ero quel maledetto 11 settembre di dieci anni fa. E tu? Dalla parrucchiera; col culo incollato alla scrivania dell’ufficio; per strada illudendoti che fosse un giorno qualunque; a telefono afflitto dalle solite cazzate; a sbuffare sul divano perché ti toccava fare in fretta, se volevi recuperare l’interrogazione di latino del giorno dopo; in coda all’ufficio postale per inviare un pacco posta-celere ai cugini italo-americani; a litigare col tuo ragazzo; a dare la poppata a tuo figlio.
Dove c**** eri quel maledetto 11 settembre di dieci anni fa? Me lo vuoi dire sì o no?
Io a Firenze, rinchiuso in una sala cinematografica, a recuperare una vecchia pellicola in occasione di un convegno a cui avevo relazionato. Sono uscito tra il primo e il secondo tempo. Pensavo al discorso anti-americano del Nobel Harold Pinter pronunciato il giorno prima. Aveva imbarazzato tutti gli accademici. Mi sono girato, ho buttato l’occhio alla tv e ho visto un aereo schiantarsi nelle Torri Gemelle. Il solito film di fantascienza! Sono rientrato in sala e ho continuato come nulla fosse successo.
Al termine della proiezione, mi sono detto: che c**** ho fatto? Questo non è uno scherzo. E dopo dieci anni mi interrogo: chissà se ci fosse stato Twitter, come sarebbe andata. Chissà se l’uragano social avrebbe raddrizzato il marasma confusionario mediatico, svoltando oltre il cine-documentario alla Micheal Moore.
Gli dei hanno giocato sporco e nessuno ci ha fatto caso. A casa di mio zio Mimmo – che dopo dieci anni non c’è più – ho trovato un vecchio libro sul Cile di Allende. E mi sono ricordato dell’11 settembre, quello del ’73, in cui ero lì beato nella culla, mentre a Santiago del Cile prendeva il potere Augusto Pinochet. I cileni vissero un dolore e un dramma che ci hanno costretto a dimenticare. Forse è ora che ce ne ricordiamo in occasione di quest’altro anniversario.
Dove c**** sarai il prossimo 11 settembre? Io voglio starmene da solo, da qualche parte, a vagabondare come un eremita che si ostina a non credere che “tutto cambia per rimanere come prima”.

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Vick Arrigoni, ecco l’agnello di Dio…

Terra amara, terra piena di contraddizioni quella lì. Lo stesso territorio in cui più di duemila anni fa si vendevano per pochi denari i pacifisti e si crocifiggeva chiunque non fosse allineato con i palazzi del potere. Il movimento pacifista è nato paradossalmente lì e vogliamo legittimarlo a pochi giorni dalla Pasqua Cristiana. La storia torna e fa i suoi giri: c’è sempre qualcuno che se ne lava le mani, c’è sempre chi tradisce, c’è sempre chi finisce in croce.
Vick, il pacifista barbuto e tatuato, è stato fatto fuori senza neanche battere ciglio, senza nemmeno una finta e mostruosa messa in scena processuale che lo condannasse perché era un libero pensatore. E poco importa del surriscaldamento emotivo che infervora la rete, tra blog e social media, perché Vittorio Arrigoni nel suo slogan “Restiamo umani” aveva detto tutto. Aveva capito che le dittature invisibili palleggiavano tra il pugno di ferro di Israele e l’ombra bombarola di Hamas; aveva capito che la striscia di Gaza era più di una borderline: era un piccolo ombelico del mondo in cui travestiti da blogger si potevano raccontare storie quotidiane che a noi sfuggono. Arrigoni aveva preso una posizione netta che, al di là della condivisione o del’appoggio ideologico, lo aveva distanziato da chiunque volesse appropriarsi di lui.
Per rispettare la sua memoria, dobbiamo stare in guardia da chi vuole trasformare questo “agnello di Dio” in un pass-partout iconografico, spacciandosi per messaggero di pace. Sarà pure un imperdonabile sacrilegio, ma della salma di Vittorio Arrigoni poco importa, perché i liberi pensatori non finiranno rinchiusi mai in tombe buie e giammai avranno gelide lapidi. Vick è ancora lì, in quella terra straniera, tra chi vorrà essere un suo apostolo e continuare a portare avanti un pensiero, nell’ottica gaberiana della “libertà come partecipazione”. E noi non possiamo sempre tirarci indietro.

Sicurezza Aeroporti: tutta colpa di un bacio?

Mentre il sistema di sicurezza degli aeroporti americani va in tilt, l’Europa mette le mani avanti e riflette sul “mea culpa” di Barack Obama. Per non farla troppo lunga, la sicurezza vale più della “privacy” o della “salute”: dovrebbero arrivare anche nei principali aeroporti italiani i body scanner, quei mostricciattoli spioni pronti a mettere le minacce terroristiche nelle mani della tecnologia. Infallibili gridano gli esperti, anche per la gioia dei “guardoni” che dovranno farsene una ragione perchè di tette e culi ce ne saranno a bizzeffe. Speriamo che tra un controllo e un altro, non si finisca in un gioco gogliardico a stilare una classifica di chi lo ha “più piccino” o chi è in pole position per le forme più sexy. E se i “più pudici” cercheranno di evitare l’aereo pur di non sottoporsi alla tortura del bodyscanner, ci sarà chi in buona fede riuscirà ancora a prendersi gioco dei sistemi di sicurezza: è successo in uno scalo del New Jersey, dove un uomo ha scavalcato le transenne per strappare l’ultimo bacio alla fidanzata. Questa volta a creare scompiglio all’aeroporto di Newark non è stato né un folle dirottatore né un membro di Al Quaeda, ma un gesto azzardato tra romanticismo e galanteria. Basta un bacio a mettere sottosopra un  sistema di sicurezza che ogni anno costa agli americani milioni di dollari?

Piazza Fontana, quel lunedì dopo di 40 anni fa

Passando ieri in tram per piazza Fontana a Milano, non ho pensato al giorno della strage, ma a quel lunedì dopo. Di quel venerdì 12 dicembre 1979 ricordo solo il mio televisore in bianco e nero che vomitava immagini e parole. Eppure il lunedì dopo, al mio ritorno a scuola, mi è rimasto impresso il volto spaurito delle maestre. Milano era distante da Napoli, ma quella tempesta terroristica arrivò fino da noi, che vivevamo l’incubo delle stragi metropolitane della Nuova Camorra Organizzata. Il capitolo relativo a questa “strage di Stato” resta il più buio e il più zozzo nella storia del nostro Paese. I soliti bla bla bla e cerimonie commemorative non risollevano i parenti delle vittime, che morirono per colpa di quell’ordigno piazzato di fronte alla Banca dell’Agricoltura di Milano. Quanti di noi avvertono un senso di vergogna e di oltraggio al senso civico, dopo una sentenza che non condanna nessuno e getta gli scheletri nell’armadio? La grande beffa è scritta alla fine della nostra triste storia negli anni della “strategia della tensione”: i parenti delle vittime sono condannati “per legge” al pagamento delle spese processuali. E’ stato scritto troppo su piazza Fontana e sono legittimi le contestazioni e i fischi che hanno animato la cerimonia commemorativa.  Questo lunedì dovremmo invitare tutti gli insegnanti a parlarne ai nostri ragazzi. La “mia scuola”, nei primi anni novanta, mi negò un confronto su questo evento contemporaneo, per non rinunciare a quelle noiose ore di greco e latino, in nome del rigido copione che mortifica “il pensiero” e “redime” il nozionismo. I miei professori non sono stati all’altezza di misurarsi con i misfatti della storia!