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Diario di viaggio nella Londra di Get Back dei Beatles

Trent’anni prima della mini serie Get Back di Peter Jackson, che in questi giorni sta riportando in rete l’ondata emotiva della Beatles-mania, mi sono fiondato al numero 3 di Savile Row a Londra. Provai a fare la prima bravata da maggiorenne, salire sul mitico tetto dove John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr si erano esibiti per l’ultima volta, l’ex edificio della Apple, con le session tratte dall’album del divorzio Let it Be.

GET BACK E NOI FAN DI UN’ALTRA GENERAZIONE

Di quella mattina dei primi di agosto del 1991 resta questa foto scattata con la mia prima macchina fotografica a rullino. In realtà la strada del quartiere di Westminster, dove c’ero arrivato con una mappa beatlesiana acquistata a Liverpool l’anno prima, era stranamente desolata. Non riuscii a farmi aprire la porta d’ingresso dello stabile e la mia impresa non fu compiuta.
Oggi questa pagina da diario di viaggio mi sollettica una riflessione. Io appartengo alla generazione nata tre anni dopo lo scioglimento dei Beatles e che ha messo piede in Inghilterra la prima volta nel 1988. Fatevi due conti, non era passato soto i nostri piedi un tappeto così lungo dalla pubblicazione dell’atto finale Let it Be. In tanti della mia generazione hanno ottenuto il patentino di fan non per l’iscrizione a questo o all’altro club, ma perché hanno cercato e dato fisicità ad una band musicale e alla sua storia.

FISICITA’ IN QUEL LEGAME CON I BEATLES

Barcamenarsi a fare la cresta sulla spesa alla mamma per acquistare i dischi, correre ad un concerto di Paul McCartney, rincorrere Yoko Ono alla prima mostra in Italia dedicata a John Lennon, centellinare da minorenne ogni luogo natale in un viaggio da Bath a Liverpool in un treno inglese, bere una birra al Cavern in compagnia del primo manager che li portò ad Amburgo, fare un sit in nell’angolo di Central Park più vicino alla casa newyorkese di John e Yoko, entrare abusivamente negli studi di registrazione di Abbey Road, non sono stati atti di feticismo o follie di un ragazzotto di periferia. Sono stati piuttosto il tentativo sincero di dare fisicità a questo legame, approfondendolo, facendone un tassello di una vita, marinando noiose lezioni di greco e latino per tradurre e ritagliare le canzoni dei Beatles come facevo con i sonetti di Shakespeare: li lasciavo in anonimato sotto i banchi delle ragazze che mi piacevano per non apparire uno sfrontato romantico.

LET IT BE DI LINDSAY-HOGG SEME DI GET BACK DI JACKSON

Mi fa pena spulciare nei corridoi social commenti da bar triti e ritriti – da Yoko Ono ancora vista come la stregaccia cattiva alle idiote stroncature della discografia solista di un Beatles da parte dei mendicanti della bacheche facebookiane senza né arte né parte.
Surfando sull’onda emotiva dello straming disneyano di Get Back di Jackson, mi tornano in mente le sequenze rubate del documentario Let it Be di Lindsay-Hogg.
Nel 1990 mi rassegnai a vederlo pubblicato in VHS (le vecchie videocassette per i nativi digitali) dopo gli altri film dei Beatles o reperirlo nelle teche RAI che all’epoca lo aveva trasmesso. Nel ’94 mi fece un gran regalo un vicino di casa della famiglia londinese presso cui alloggiavo a Ealing Broadway. Tirò fuori dalla soffitta una videocassetta del fratello maggiore dove era registrato il documentario del 1969 con l’apparizione dei Beatles sul tetto di Savile Row.


IL MIO GET BACK

Un quarto d’ora prima della fine di Let it Be il nastro si attorcigliò nel videoregistratore e noi restammo a bocca asciutta. Nonostante la visione incompleta, il mio Get Back resta rannicchiato in quel pomeriggio londinese tra gli abbai del cane, la moquette puzzolente e l’afternoon tea servito dalla signora con dei biscotti fatti a mano in una casetta della working class.
Da allora “Whisper words of wisdom, let it be” da slogan McCartyano diventò per me stile di vita.

Quel concerto di Paul McCartney insieme a Fabrizio Frizzi

Il 19 febbraio 1993 al Forum di Assago io e Fabrizio Frizzi sembravamo il fratello minore insieme al maggiore venuti a spartirsi il concerto di Paul McCartney. Avevamo due cose in comune: la montatura degli occhiali e la passione sfrenata per i Beatles.

Io ero arrivato a Milano da Napoli, dopo una litigata furibonda con mio padre, non ancora ventenne. Lui aveva superato da un pezzo la trentina e aveva accanto la sua Rita. Lei mi sorrideva, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, mi disse che la sua preferita era Penny Lane.

In quella mezz’ora, prima l’inizio del concerto di Macca, Frizzi mi apparve improvvisamente come un fratello maggiore che ti faceva venire voglia di aprirti senza timore di essere giudicato. Rassicurò le mie perplessità da neo studente universitario senza né arte né parte con una sagace riflessione: “Le passioni sane vanno alimentate perché ci aiutano a far venire fuori il meglio di noi stessi”.

Al termine del concerto con il suo bon ton Fabrizio Frizzi mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliargli di più. Ci stringemmo la mano e poi lui scomparve lungo un corridio del Forum tenendo per mano Rita Dalla Chiesa.
Stasera ho tirato fuori dal mio archivio il biglietto di quel concerto memorabile. Glielo dedico dopo venticinque anni esatti insieme a questa bella fiaba che tanti anni fa lesse in chiusura di una trasmissione televisiva:

Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
“IO SONO LA PACE, ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!”
Così fu e, a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
“IO SONO LA FEDE purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me, non ha senso che io resti accesa”.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
“IO SONO L’AMORE non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!”
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

…Un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente.
“Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
“Non temere, non piangere: finchè io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA”

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA DENTRO IL NOSTRO CUORE…

…e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza,

la FEDE, la PACE e l’AMORE.

Cartolina dall’India: il sitar di Rikhi Ram tra i Beatles e Ravi Shankar

A pochi passi da Connaught Place, il cuore pulsante di Nuova Delhi, c’è una tana di strumenti musicali che ha segnato la storia. Rikhi Ram è un ponte che unisce un profondo legame d’amicizia, quello tra il quartetto musicale più famoso del mondo, i Beatles appunto, e il paladino dei suonatori di sitar, Ravi Shankar.

Ci arrivo per caso in questo posto magico, come se l’intuito del viaggiatore, che ha fatto della musica la colonna sonora dei miei vagabondaggi, tracciasse ogni spostamento.
Il nonno di Akhil, insieme a me in questa foto, fece il sitar al Ravi Shankar che a sua volta portò qui i Beatles nel ’66. Suo padre ha realizzato sitar per George Harrison fino al giorno della sua scomparsa.

Il mio primo viaggio in India, fatto di musica e immaginazione, lo tracciò proprio il suono del sitar di George Harrison che mi portò alla scoperta della discografia e delle sonorità del maestro Ravi Shankar. Tra le quattro mura di Rikhi Ram sai di non essere in un posto qualunque, perchè la polvere di stelle della memoria sa farti ritrovare chilometri e chilometri della strada del tempo, come se ci fossi stato anche tu.

Akhil mi mostra la collezione di sitar, apre la scatola di vecchie foto in bianco e nero che ritraggono suo padre e suo nonno con i grandi musicisti, mi fa sentire il suono dello strumento, facendomi scoprire lo stupore dell’impronta dell’artigianalità dentro ogni centimetro quadrato del legno lavorato.

I Beatles e la loro musica hanno accompagnato gli ultimi trent’anni della mi vita, ispirando tanti miei viaggi. Akhil lo ha capito appena ho messo piede nel suo negozio. C’è qualcosa di me che è rimasto lì. Non sono passato più a riprendermelo.

 

George Harrison è stato come un figlio per me. (Ravi Shankar)

9 settembre 2014: l’emozione di ascoltare in mono come allora il vinile dei Beatles…

Rosario PipoloFatevelo raccontare dalle nonnine di Liverpool cosa accadde nei negozietti di musica ai tempi del Mersey Beat quando apparve Please Please me, il primo album dei Beatles. Più di mezzo secolo fa la musica si ascoltava in mono e, oggi 9 settembre 2014, tocca capirlo anche alla generazione che divora canzoni in formato digitale. The Beatles in Mono, il lussuoso cofanetto dei Fab Four che ripropone i vinili orginali in versione mono, è più di un capriccio feticista.

Nell’agosto del 1990, in occasione della mia prima fuga a Liverpool ancora minorenne, incrociai un venditore di musica degli anni ’60. Mi raccontò delle file di ragazzine che si appostavano nel retrobottega alla vigilia dell’uscita di un nuovo album di John, Paul, George e Ringo. La Universal non è riuscita neanche a consegnare i Mono Box nei grandi store musicali di Milano. Segno che i tempi sono cambiati, che le file sono diventate flussi di acquisto su Amazon, che la crisi ci costringe a vedere un LP come superfluo.

Negli anni ’60 la musica era pura “monofonia” e le prime apparecchiature in  “stereofonia” erano davvero lusso. Ricordo quando da Liverpool mi portai una delle prime stampe di With the Beatles in mono e provai a metterla sul mio giradischi e percepirne le variazioni d’ascolto. Non si restaurano solo i film, ma anche la musica. Rispetto agli errori fatti sui remasters dei Pink Floyd, per i Beatles la faccenda è diversa. Tuttavia, la versione CD di the Beatles in Mono del 2009 aveva solo una pecca: il suono mono aveva come fonte i master digitali, perdendo fragranza e spontaneità.
Su questi vinili 180 grammi di oggi i Beatles tornano a cantare “nel mono di allora” grazie agli ingegneri del suono. Questa volta hanno lavorato al mastering sull’analogico.

A cosa serve tutto questo? A ricordare che un disco allora non era fatto soltanto di ascolto ma anche di tatto:  l’artwork, la copertina apribile, i testi delle canzoni. A ricordare che, lungo il marciapiede dei vent’anni dei miei genitori, bastava un disco per essere felice, lontano dall’ingordigia dei giorni nostri. A ricordare che sono in tanti quelli come me che hanno calcato i passi della propria vita sulle canzoni dei Beatles.
A me succede dall’età di 14 anni. Allora chiesi a mia madre i soldi per comprare tutti gli album dei Beatles. Fu un prestito mai restiutito che si trasformò in un regalo: quello di aver messo una passione legittima sul piedistallo della mia vita.

Paul McCartney all’Arena di Verona: Quando le canzoni cambiano il finale di Romeo e Giulietta

Rosario PipoloUn concerto può fare quello che il tempo non ha saputo fare, forse per pigrizia interiore o mancanza di coraggio. Uno sciame di canzoni dei Beatles, eternamente in volo, è diventato una massa di fili di perle grazie a Paul McCartney all’Arena di Verona. I fan all’occorrenza si perdono sempre il più grande spettacolo emozionale. Lo hanno avvistato coloro che sono cresciuti con i concerti di Macca in Italia, come chi vi ha depositato negli ultimi 25 anni i sogni, le speranze, gli schiaffi del passato e le carezze del futuro.

Ci vuole costanza e determinazione per trasformare una passione musicale in sacrosanta verità: Let It Be sfila l’anello dell’anulare e mette in ginocchio la promessa; Hey Jude squarcia il velo del tempio nel coro che esplode e taglia le distanze; The Long and Winding Road ferma il dondolo del tempo nell’istante preciso che dà voce al silenzio; Live and Let Die è una scusa bella e buona per uno spettacolo pirotecnico; Yesterday non è il manifesto della nostalgia, ma la presa di coscienza della determinazione della memoria futura; Maybe I’m Amazed è lo stupore di fronte alla magia di come l’amore possa dare una svolta alla vita; The End è l’iniezione della fine nel principio di un solco verso l’eternità con l’epitaffio “l’amore che dai è uguale all’amore che ricevi”.

Vallo a dire alla luna che Paul McCartney a 70 anni suonati ha sbeffeggiato la Big Moon di domenica scorsa. La luna è esplosa martedì sera su Verona, non era un effetto ottico e la hanno vista tutti coloro che c’erano. Lo sciame di canzoni dei Beatles ha rimesso mano alle pagine shakespeariane di Romeo e Giulietta, cambiando il finale. McCartney sussurrava al piano My Valentine e Giuletta, che tutti credevano morta, volava come un angelo sull’arena di Verona. Sapeva che Romeo era lì, vagabondo su quelle note musicali, a scacciare i demoni della vita che vorrebbero irridere il potere miracoloso della musica.

Nella sera dei miracoli di Macca gli dei si sono dovuti ricredere su quell’accusa di chi vorrebbe che la musica fosse l’oppio dei sognatori. Se pure fosse, lasciateci sognare. Lasciateci ricordare gli amici di gioventù come John e George in nome di quelle schitarrate tra il tanfo del porto di Liverpool. Lasciateci continuare a credere che, in un misto di laicità e religiosità, queste canzoni cambieranno il nostro destino, senza essere più vittime o carnefici di rimorsi e nostalgie.
Nel coro finale di Hey Jude ognuno ci ha infilato la sua smisurata preghiera, come l’urlo più esteso per arrivare alle orecchie di Dio. Da qualche parte c’era l’adolescente che scappò di casa per ascoltare Macca nell’89 al PalaEur di Roma. Romeo e Giulietta lo hanno riconosciuto e lo hanno fatto alzare in volo sull’Arena di Verona, appendendolo ai fili invisibili dei suoi sogni per trasformarlo in un uomo dai capelli brizzolati. Quello ero io.

50 anni con i Beatles oggi: Perchè un minorenne scappò a Liverpool

Non c’è nessuna icona della musica contemporanea che sia legata ai luoghi natali come i Beatles. In giro ci sono tante città-santuario, come la Graceland di Elvis Presley, ma non fanno altro che imbalsamare il mito. Per Liverpool invece è tutt’altra storia: quei posti sono vivi, Penny Lane o Strawberry Fields concimano nel territorio urbano la working-class di un tempo, tra dock e “ red bricks on the wall”.
Almeno lo erano fino a vent’anni fa, prima dell’invasione dei pellegrini del low cost di Ryan-air, prima che il comune optasse per la scelta infelice di cambiare alcune strade, di abbattere edifici fatiscenti, di dedicare ai Beatles tributi kitch qui e lì.

Io mi sono perso invece proprio tra quegli edifici fatiscenti, nell’estate del 1990, ancora minorenne, alla ricerca di posti e persone che avevano ruotato attorno ai quattro ragazzotti di provincia anglosassone: dalla vicina di casa di Paul alla birra con Williams, il primo manager; dall’abbraccio con un fantomatico zio di John alla passeggiata assieme ad una donna, figlia di una Anne che in gioventù aveva pomiciato con Pete Best.
Mezzo secolo fa, proprio oggi con il singolo “Love me do”, i Beatles entrarono nella storia personale di più generazioni; venticinque anni fa bussarono alla porta della mia adolescenza: ci sono entrati, ci sono rimasti per sempre, con costanza.

Sono stati la colonna sonora di gran parte della mia vita, ma non mi sono bastate le canzoni, gli album, i cimeli racolti nel tempo. Volevo guardarli da vicino, da giovanotti grezzi di periferia, prima che la Londra di Abbey Road li risucchiasse, trasformandoli in quattro baronetti metropolitani e sofisticati.
Mi accaparrai una mappa e scovai una cinquantina di posti, anche minori, che spesso parlavano più di quanto magari facessero Menlove avenue o il Cavern Club: una scalinata dove John e George si era fermati; il letto di un ospedale pubblico dov’era nato Ringo; un incrocio qualunque che aveva strappato via a John la madre Julia.

Le canzoni dei Beatles sono venute prima e dopo. Giusto in mezzo però c’è Liverpool, quella di vent’anni fa, che aveva raccontato un miracolo avvenuto nella Gran Bretagna del secondo dopo guerra: la classe operaria andò in paradiso con quattro sbarbatelli, cresciuti nell’Inghilterra “cafona”, che mischiarono sogni, poesia e musica come se fosse un gran bel gioco, destinato per volontà degli dei a non finire mai.

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Viaggio di 48 ore con Paul McCartney, dentro piccole storie tra Bologna e Milano

Esiste una maniera per riscattare il cliché del fan? Dopo 23 anni di flirt con Paul McCartney, ho deciso di trascorrere 48 ore con lui, facendo un mini viaggio a ridosso dei due concerti italiani: Bologna e Milano. Mi sentivo uno “studentello” senza né arte né parte, travestito da bagarino per acquistare il biglietto ad un prezzo stracciato. Al gelo e all’umidità la trattativa è andata a buon fine e sabato sera è stato memorabile.

Il primo comandamento del fan recitava che avrei dovuto appostarmi sotto lo scintillante hotel per braccare l’ex-Beatles. Piuttosto ero nel pieno della notte a raccogliere storie di ragazzi – molti venivano da Calabria e Sicilia – che avevano bruciato i loro risparmi per essere al concerto di Bologna.  Sentivo assottigliarsi lo stacco generazionale, così come la distanza geografica tra me e due studenti kosovari. Abbiamo condiviso il mio viaggio nei Balcani, i sogni rattrappiti delle vecchie e nuove generazioni dell’ex Jugoslavia, mischiati alle canzoni dei Beatles e McCartney. Non so se sul “il giradischi di Tito” girassero Yesterday e Band on the Run, ma Virtyt e Arber le conoscevano bene. Ci siamo lasciati con un patto, ripassando certe canzoni del concerto: impariamo a conoscerci sempre meglio, perché le follie dittatoriali e le cortine di ferro del passato ci hanno impedito di spartirci le nostre bellezze reciproche.

Notte insonne lungo questa Long and Winding Road. A far da guastafeste c’erano le Ferrovie e lo sciopero, con l’arroganza dei capotreni che volevano il supplemento per il cambio di treno, nonostante i disagi. Viaggio all’alba singhiozzante come in un film censurato tra Modena e Piacenza. Canticchiavo Eleonor Rigby e il caso calcava la mano sulle umane solitudini. In un bar piacentino osservavo un anziano pensionato: ha offerto un caffè ad una zingara e alla figlia. Avrebbe investito la sua pensione da 700 euro in cambio del matrimonio con la ragazza. Le due donne si sono guardate negli occhi e si sono fatte due conti in tasca. Intanto sul mio smartphone è sbucato un sms su cui era scritto: “Buongiorno, amore mio. Dove sei?”. Sentivo la voce di Paul che cantava All My Loving e ripetevo sottovoce che l’amore non si baratta, non si vende, ma accade quando c’è qualcuno che si preoccupa per te.

Ancora disagi e poi l’arrivo a Milano. Il tempo di fare una doccia e mettere qualcosa sotto i denti prima di un altro tentativo impavido: bissare il concerto al Forum di Assago. C’era nebbia fitta, sembrava di essere finiti in un racconto di Herman Hesse. I bagarini facevano affari d’oro, ma non mi arrendevo. Chi cerca, trova. Ancora un biglietto “svenduto”, ero dentro di nuovo, ho bissato il concerto e si è chiuso il viaggio.
McCartney non l’ho conosciuto neanche questa volta, ma l’ho ritrovato negli sguardi di sbieco dell’Italietta di provincia e nelle amarezze dell’Est Europeo. Fuori le canzoni ci sono ancora storie da ascoltare. Basta affacciarsi.

 Il fan finito sul Tg3

  Macca strega Bologna

  Diario di un fan: 19 anni prima…

Paul McCartney a Milano 19 anni dopo: sogni bagnati su quell’Espresso da Napoli

Sì, è stato così. Treno espresso notturno da Napoli a Milano, trentamila delle vecchie lire in tasca, un primo quadrimestre da schifo. Sono partito in queste condizioni 19 anni fa. Milano per me non rappresentava niente, a parte la scuola Paolo Grassi, santuario per chi sognava di diventare un bravo attore di teatro. Sapevo soltanto che a Milano c’era Paul McCartney, mi bastava questo.
Papà si arrabbiò, ma avrei mandato all’aria anche l’esame di maturità: non ne potevo più dei classici latini e greci. Le mie poesie erano state le canzoni dei Beatles, punto e basta. La sera ne recitavo una prima di andare a letto.

Milano mi spaventò: immensa, dispersiva, una macchina ad orologeria. Il Forum di Assago mi deluse, non era nient’altro che un palazzetto sportivo. Né più né meno. L’attesa dal primo pomeriggio assieme a tanti sconosciuti mi fece condividere la passione sfrenata per quelle canzoni. Allora non c’era Facebook o Twitter. Scarabocchiavo su un taccuino, volevo mettere nero su bianco le emozioni. E’ una parola!

Tra una chiacchiera e l’altra si mangiucchiava, poi l’entrata e ancora attesa. Mi avvicinai all’area ospiti e mi colpirono un uomo e una donna, mano nella mano. Erano Fabrizio Frizzi e Rita Dalla Chiesa. Lei mi sorrise, con Frizzi attaccai bottone e gli dissi che i miei compagni di liceo notavano una somiglianza tra me e lui. Parlammo delle canzoni di McCartney, dei Beatles, gli svelai qualche sogno e Fabrizio mi consigliò di accorciare i capelli se volevo assomigliarli di più.

Si spensero le luci, cominciò lo show. Mi lasciai travolgere per l’ennesima volta e mi convinsi che la musica univa e annientava i pregiudizi sociali, cultuali, religiosi, politici. Quando alla fine tutti esplodemmo sul coro di Hey Jude, finii disteso per terra sotto una pioggia di coriandoli. Per una volta pioveva a catinelle sui miei sogni di allora, gli stessi di oggi. I sogni hanno bisogno di essere bagnati perché chi apre l’ombrello è l’ultimo stupido che si priva di esistere, con o senza le canzoni di Macca.

Paul, 18 anni dopo!

La vita di Harrison in cineteca aspettando Macca a Bologna

 The Beatles Fans Italiani

paul mccartney e nancy shevell: il terzo matrimonio non seppellisce il dolore

Nell’estate del 1991 mi presentai al Marylebone Register Office di Londra, e richiesi una copia del certificato di matrimonio di Paul McCartney e Linda Eastman. Gli addetti mi guardarono stupiti quando si accorsero che si trattava dell’ex-Beatles. La spuntai e quella bravata di un ragazzotto incuriosì qualche anno dopo Red Ronnie. Mi invitò ad una sua trasmissione e lo mostrai per la prima volta in pubblico.

Col passare del tempo mi sono reso conto di non aver vissuto il documento come un cimelio, ma come il sigillo di una gran bella storia d’amore. Persino quando ascoltavo i primi album da solista di McCartney respiravo l’affiatamento della coppia. La mia visione infantile della fiaba d’amore si era trasferita in una casa di campagna inglese, dove il marito e la moglie condividevano amore, famiglia, passione per la vita e per il proprio lavoro. Ne ebbi conferma quando li vidi assieme sul palco la prima volta il 24 ottobre del 1989.

E’ complicato capire il dolore per la vedovanza, per la perdita della compagna di una vita. Nonostante il muro di vetro mediatico, abbiamo percepito il disorientamento dell’ex Beatles dopo la scomparsa prematura di Linda. Tuttavia, si fatica a guardare lo scatto di Paul McCartney invecchiato dopo la celebrazione del  terzo matrimonio con la ricca ereditiera Nancy Shevell, nello stesso posto dove si unì alla prima e adorata moglie. La mia non è né la sindrome di possessività del passato né l’attacco di panico nostalgico che potrebbe tornare riascoltando dal vivo  My Love. McCartney dovrebbe ricantarla il prossimo 27 novembre nella tappa italiana del suo tour al Forum di Assago.

E’ piuttosto il tentativo spicciolo di capire quale sia l’ultima strada da percorrere per un comune mortale o una rock star nell’amaro tragitto della vedovanza: seppellire sotto terra il dolore o restare da soli per condividerlo con il resto dei proprio giorni?

 Macca sposa Nancy

  McCartney in Italia: due date a Novembre

 Paul e Linda, Just married!

 

Ringo Starr a Milano e Roma: Io scassinavo salvadanai per i tuoi dischi!

Sono una minoranza gli adolescenti che si fanno travolgere dalla musica fuori dal proprio tempo. Mi sentivo parte di questo branco ristretto quando alla fine degli anni ’80 me ne andavo nei paesotti di provincia a cercare i tuoi dischi, caro Richard. Una volta girando a Liverpool – ero ancora minorenne e lasciai i miei in preda alle palpitazioni – nei posti in cui sei cresciuto, mi sono detto: cosa avevamo in comune? Anche tu eriun ragazzotto di periferia e non penso che, picchiando forte sulla tua batteria, avresti mai immaginato di attraversare il mondo.
La casualità, la mia compagna di viaggio prediletta, mi portò allora ad incontrare alcune persone a te particolamente legate, quelle che bussando alla porta di casa tua trovavano il cognome Starkey. Beh, rovistando in un negozietto di anelli poco distante da Penny Lane, mi sono chiesto come facessi ad andarne matto. Quella non era robetta da femminucce? Perlomeno ti sei trovato un buffo nome d’arte, Ringo, che ti confonde con un pistolero del Western.
L’epopea del vecchio West era passata da un pezzo, ma non quella delle navi che trasportavano sogni verso l’oltreoceano. E’ lo stesso tragitto che fanno i sogni incollati alle parole e alle note delle canzoni, formando i piccoli segreti della vita: “Every soul has a secret, give it away or keep it”.
Io l’ho tenuto il mio segreto: quello di aver fatto lo scassinatore di salvadanai per acquistare i tuoi dischi e sentire dal profumo del vinile l’ebbrezza del tempo che non passa mai. Avevo fatto la maturità quando sei venuto in Italia l’ultima volta. Mi dicevano che ero un matto ad assistere ad un concerto alla vigilia della prima partenza per gli Stati Uniti. Che rabbia, quando gli organizzatori fecero saltare la data di Roma!
Sono passati quasi vent’anni, ma resto la “capa tosta” di allora. E con lo spirito di chi si batte affinché la musica sia una gioiosa “festa sociale”, sono sicuro che in questa domenica e lunedì di luglio restituirai a Milano e Roma una carica di energia, mancante in questo momento. Gioco a fare il finto tonto: più invecchi, più assomigli un sacco a Ringo Starr, il batterista del Beatles!