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Diario di viaggio: la mia festa del Ringraziamento con Ronnie Jones

Rosario PipoloLa mia prima Festa del Ringraziamento. Pensavo di essere finito in un music club del Village tra i polmoni della Grande Mela. Invece mi sono infiltrato al Memo a Milano. Cena assieme a Ronnie Jones, voce black trapiantata In Italia una miriade di anni fa. Rigorosamente senza “tacchino”, ma tra un boccone e l’altro, mi faccio raccontare le atmosfere del ThanksGiving Day. Lui è stato troppo “vagabondo” per essere un cronista impeccabile della landa che lo ha partorito. Ronnie Jones è il tipico musicista randagio, ma gli brillano gli occhi quando ricorda la sua Springfield, sperduta nel lontano Massachusetts.
“Ringraziare sempre, tutti i giorni per il grande dono che abbiamo ricevuto: la vita”
, dice Ronnie. Sembra un ringraziamento laico, invece è la condensa dello spirito di un discjokey che, nell’Inghilterra degli anni ’60, non smise mai di flirtare con un il soul, spiaccicandolo sulle piastrelle incollate con il funk.

Mi va un boccone di traverso quando, prima di arrivare al secondo, mi racconta che, cinquanta anni fa, pure i Beatles andarono ad ascoltarlo. I quattro sbarbatelli di Liverpool, che avrebbero tatuato la pelle della musica, si fecero trovare in un locale dove Ronnie suonava. Era il 1963, lo stesso anno in cui fu fatto fuori JFK. Morì l’America quel 22 novembre? No. Per Ronnie anche John Kennedy fece i suoi errori, ma quel giorno fu doloroso per tutti, americani e non. Dove viveva allora si fermò tutto e sentiva come “se le gambe si fossero paralizzate”.

E la musica? Non va mai fuori moda. Ormai sono finiti i tempi della tutela della grandi case discografiche. I dischi si vendono durante i concerti in Italia come negli Stati Uniti. Mannaggia, il sorbetto lo mangiucchio da solo. Ronnie Jones è già sul palco. Si spengono le luci. Dal buio il primo sussurro della sua voce. Sono al Memo music club a Milano, ma mi sento a New York.

International Week, l’happy hour a Milano tra cultura e ricchezza della diversità

Rosario PipoloStorie di vita che si incrociano in un happy hour a Milano dopo le otto di sera e ti trasformano in un viaggiatore. Lascio a casa la valigia, sorseggio un cocktail e conosco decine e decine di universitari stranieri che hanno deciso di passare una fetta del loro tempo nel nostro Paese. Alcuni pensano che sia uno studente dai capelli brizzolati “abbondantemente fuori corso”, quelli di International Week, capeggiati dagli ideatori Paolo e Matteo Giachino, sanno che sono un viaggiatore a caccia di piccole storie da raccontare.

L’aperitivo dovrebbe essere un momento di socializzazione piuttosto che uno sprofondamento nella solita grande abbuffata. Qui è tutto diverso. Mi imbuco nel covo dell’Old Fashion a Milano e ritrovo un pezzo della mia famiglia in Francia, parlottando con un gruppo di studentesse d’oltralpe. Mi sposto pochi metri e finisco in Australia, confessando ad una coppia di Sidney il mio progetto di un viaggio on the road nella terra dei canguri, alla mia maniera di esploratore squattrinato.

Poi tutti seduti intorno allo stesso tavolo e allora sì che mi sembra di accarezzare un mappamondo. Klodian, che ha in tasca due lauree e una gran cultura, viene dall’Albania. Condividiamo le polaroid del mio viaggio nei Balcani e l’accoglienza che ho avuto a Tirana. Attacco bottone con Faez: lui mi racconta della musica a Teheran, io di quella che ho vissuto nella Napoli sotterranea che mischiava le sonorità mediterranee. Faez non conosceva Persepolis, il graphic novel di Marjane Satrapi, che mi rese ai tempi dell’università turista in Iran, rincorrendo una delle storie a fumetti più belle che abbia mai letto. Bruno ha mezza famiglia che vive laggiù a Rio De Jaineiro. Sgrana gli occhi appena gli racconto per filo e per segno le mie interviste a Toquinho, Gilberto Gil e Daniela Mercury. Nella discussione si inserisce anche Vitor Junior, figlio del Brasile delle nuove tecnologie: è pieno di energie, saltella da una start up all’altra, perché la sua passione è lavorare dove tira il vento dell’Innovazione.

A tutti questi ragazzi devo qualcosa. Mi hanno arricchito con il loro vissuto in terre lontane da me. Sono proprio le lande che volevo esplorare quando, più di venti anni fa, mi iscrissi alla Facoltà di lingue straniere alla Federico II di Napoli. Quasi quasi stasera torno a rifugiarmi sotto il tendone di International Week. Voglio stringere amicizia con questo ragazzo nella fotografia. Mi ricorda un jazzista di colore, conosciuto ad Harlem nell’estate del ’92. Fu allora che ingoiai la bellezza e la ricchezza della diversità. Fu allora che barattai l’anima da sognatore di periferia con quella di cittadino del mondo. E non me ne pentirò mai.

Il saluto di Milano a Lea Garofalo: “vedo, sento, parlo” non resti uno slogan

Rosario PipoloIl volto rugoso di Milano, invecchiato tra notti brave, cocktail e festicciole dei rampolli dell’industria padana, è ringiovanito attraverso la memoria di Lea Garofalo, la ribelle alla ‘Ndrangheta che fu ammazzata il 24 novembre 2009. Più di un ritaglio di cronaca o di una pagina strappata da un noir, la storia di Lea è quella di una donna calabrese che sceglie di stare dalla parte della giustizia, di donare alla figlia Denise un futuro diverso, di indossare l’impermeabile del testimone per porre fine all’omertà comune e uscire fuori da un’organizzazione malavitosa.

Il volto rugoso di Milano ha allievato il dolore delle sue cicatrici nel sabato mattina del funerale civile di Lea Garofalo. Un oceano di uomini, donne e bambini erano appostati lì per dare un segno concreto, riconoscere l’eroismo di chi ha detto no alle regole dei clan. Il dubbio però ci lascia un rabbioso tremolio: non facciamo abbastanza in Italia per proteggere e tutelare chi collabora con la giustizia. Chi volta le spalle ai clan mafiosi, prima o poi perisce perché resta isolato. Quanti sono quelli che in questo istante rischiano di fare la stessa fine di Lea?

“Vedo, sento, parlo” non può rimanere uno slogan destinato a sventolare su una delle tante bandiere, ma una presa di coscienza. Il gesto di Lea è il coraggio di essere donna in un territorio come la Lombardia che si affilia sempre di più al business losco dei clan. Il sorriso di Lea assomiglia a quello di tanti calabresi che, pur non avendo lasciato la loro terra, si danno da fare nel quotidiano e nel loro piccolo per graffiare la ‘Ndrangheta.

Dopo i giardini dedicati ad un’altra donna impavida e ribelle, la giornalista Anna Politkovskaya, Milano ha un altro angolo verde per dare nuova linfa alla memoria. Non abbiamo bisogno più di slogan e bandiere, ma di continuità. E questo è l’urlo di Lea Garofalo dai giardini di via Montello a Milano.

Milano e le suggestioni del sottomarino #L1F3: da Yellow Submarine a Capitan Harlock

Rosario PipoloUn primo di ottobre che Milano non scorderà perché, aprendo gli occhi, si è ritrovata un sottomarino in via dei Mercanti. Che sia stato un colpo di genio pubblicitario o un bel capriccio di qualche bravo creativo, resta il fatto che il sottomarino #L1F3 abbia movimentato il capoluogo lombardo in un grigio martedì autunnale.

Nonostante fosse un’operazione di marketing, destinata ad innescare la viralità dei social network, a me ha solleticato minuscole suggestioni, al di là del ruolo di addetto ai lavori. Si è trattato di godersi lo stupore, la curiosità e l’entusiasmo dei passanti che si sono visti sbucare dal sottosuolo milanese un sottomarino vero, il primo che aveva impresso un hashtag social. E così quello che per me appariva come un meraviglioso set cinematografico, per molti altri era l’interrogativo legittimo della serie “Vero? Puoi mai essere?”.

Quando si è diffusa la voce che si trattava di una trovata pubblicitaria, il sottomarino #L1F3 ha continuato a destare curiosità, perché dopo tutto era diventato un vero simbolo per tutti i milanesi che sognano una Milano in stile Amsterdam e con i Navigli di nuovo navigabili. Torno a ripetere: la magia del cinema riesce a vestire di poesia anche i manichini o un totem da business. Per me fino all’altro ieri il sottomarino per eccellenza era Yellow Submarine dei Beatles, con lo strascico psichedelico tra musica e cinema della fine degli anni ’60.

Dopo aver incrociato #L1F3, mi è tornata in mente una stravaganza della mia infanzia: far volare nello spazio i sottomarini. Osservando il sottomarino di sera, nella penombra, ripensavo all’Arcadia di Capitan Harlock, ovvero l’astronave del personaggio di Matsumoto. Sognavo che Harlock passasse a prendermi e mi portasse con lui nello spazio a saltellare da una stella all’altra. E forse questa è la volta buona che il mio sottomarino prenda la piega di volare. Dopotutto #L1F3 si porta dietro l’immaginazione, l’unica ascia che può fare a pezzetti persino il pregiudizio che oltre lo steccato di un’operazione pubblicitaria non ci possa essere un batuffolo imbevuto di emozioni.

I giardini Politkovskaja a Milano: Da oggi Corso Como non è più l’oasi dell’happy hour stantio

Rosario PipoloOggi 12 giugno è tornata l’estate a Milano. Da stasera corso Como non sarà più l’oasi dei bagordi, della nightlife meneghina e della solita pappa degli happy hour. C’è un pezzo di verde che cambia la fisionomia della zona Garibaldi. Sono i giardini dedicati ad Anna Stepanovna Politkovskaja, la giornalista russa assassinata il 7 ottobre del 2006. L’impegno dell’associazione AnnaViva e dei suoi militanti, capeggiati da Andrea Riscassi, ha fatto sì che Milano avesse una zolla di terra su cui riflettere.

Riflettere e onorare la memoria di uomini e donne che hanno difeso la libertà di pensiero pagandola a caro prezzo: perdere la vita. Gli articoli della Politkovskaja, pubblicati sulle pagine del quotidiano russo Novaja Gazeta, sono stati un atto d’amore verso il suo Paese, quella Russia tornata in ostaggio dello zarismo tra delitti, pene, misteri irrisolti. Come la questione in Cecenia, di cui si occupò proprio la giornalista ammazzata nello stesso giorno del compleanno del Presidente Putin.

Stringere la mano al figlio Ilya e alla sorella Elena ha rappresentato per chi fa il mio mestiere un grande significato. In un’Italia incappucciata dall’omertà e dalla volontà di dare spazio al giornalismo al femminile “da velina”, il ricordo di Anna Politkovskaja smaschera tali oscenità. Anna è stata una donna contro il regime, nella terra di frontiera del vecchio maschilismo alle falde del Cremlino che la liquidò in questa maniera: “Se l’è cercata. Non le sarebbe accaduto niente se avesse svolto le faccende domestiche come ogni donna”.

Da oggi Milano non sarà più la stessa. E non perché sotto i riflettori ci sono passerelle, paninari e yuppies nostalgici, aperitivi stantii o la frenesia da movida. Oltre i riflettori del divismo della metropoli, ci sono i giardini Politkovskaja che colorano di verde la memoria grigia di questa città, fatta di tante ingiustizie irrisolte come piazza Fontana.
Ogni sera che passerò alla stazione Garibaldi a rincorrere il treno per rincasare, mi fermerò in questi giardini. Da scalzo calpesterò l’erba e sentirò sotto i talloni dei piedi il peso della libertà.

Bella ciao: L’elogio funebre a Franca Rame che oggi non leggerò allo Strehler

Rosario PipoloUna mattina mi son svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, una mattina mi sono svegliato ed ho trovato i violentatori. Pensavo tu fossi a teatro, immersa tra copioni e maschere, nella lunga notte che non vede mai il giorno arrivar. Invece eri lì sotto il branco, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, ma io quella mattina non mi ero svegliato per venirti a salvar.

O partigiana del teatro portami via che mi sento morir quando picchiano una donna, quando la schiaffeggiano, quando la sottomettono, quando il maschilismo arrapato ne mercifica il corpo, quando non ne riconoscono l’intelligenza, quando una carezza dell’alba diventa il pugno di ferro della sera.

E se io muoio da partigiano del teatro, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao, tu nella Palazzina Liberty mi devi seppellir: tra quelle mura in cui l’urlo col megafono ti ha trasformata da dea della bellezza a dea dei diritti civili, portandoti tra le piazze dietro gli striscioni, perché solo gli imbecilli pensano che il palcoscenico sia fatto di sterili clown.

Mi seppellirai lassù dove resterà acceso l’ultimo riflettore, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao e a tutte le genti che passeranno gli racconterai che sono figlio legittimo di una casalinga appassionata che mi svezzò con il teatro e mi raccontò di te fin da quando ero in fasce.

È questo il fiore della partigiana del teatro, bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, che con Enzo (Jannacci) e Giorgio (Gaber) ha già scatenato in uno spettacolo lassù la gioia di tutti gli angeli, alla faccia del clero benpensante convinto che finisse diritta all’inferno. E’ questo il fiore della partigiana della libertà, che adesso dorme tra le braccia di Dio.

Grazie, Franca.

Ti chiami Missoni se il tuo stile mette a tacere il frufrù che c’è in noi!

Rosario PipoloSe fossi stato in zona, mi avrebbe fatto un effetto strano passare davanti alla Basilica di Gallarate e incrociare il corteo funebre di uno stilista. La moda è così prepotentemente di proprietà di Milano da farci convincere che ogni fashion designer che si rispetti dovrebbe pianificare l’ultimo viaggio all’ombra della Madunnina. Dove sta scritto? Mica la moda deve ostinarsi ad essere il riflesso posterizzato di Il diavolo veste Prada?

Ottavio Missoni è stato un imprenditore intelligente e visionario, prima di essere uno stilista. L’arcobaleno voltò le spalle al cielo per distendersi nelle sue creazioni, tra citazioni da art-decò, zig-zag e tinte accese che incidevano sui tussuti il Technicolor dei vecchi western americani.
Qualche anno fa, poco prima di entrare ad una sfilata a cui ero stavo invitato, sentii due fashion blogger civettare come se fossero dal parrucchiere: “Ci vuole una penna al femminile per raccontare il mondo della moda”. Dopo aver deglutito questa idiozia zeppa di smancerie, scivolai sul solito clichè, sulla solita ghettizzazione come se essere frufrù fosse il cannocchiale per cogliere i dettagli.

Il tratto inconfondibile di Missoni lo accosta al disegno industriale e alla sua evoluzione nel nostro Paese, rompendo quegli argini che hanno fatto del Made in Italy una condizione necessaria di versatilità, stile, sobrietà. Negli anni ’80 regalai a mia madre un foulard firmato Missoni. Un ragazzino delle scuole elementari cosa ne poteva sapere che l’alta moda non fosse alla portata della tasca di una casalinga? Era un falso d’autore, lo scoprii diversi anni dopo. Missoni era così amato all’ombra del Vesuvio, da essere riprodotto ovunque.

Ottavio Missoni aveva il senso dello humor e una volta replicò scherzosamente: “Per vestirsi male non serve seguire la moda, ma aiuta”. Dipende. Se ti chiami Missoni però lo stile sobrio e senza fronzoli mette a tacere pure il frufrù che c’è in noi. Una mattina accompagnai mamma a fare la spesa. Indossava il fatidico foulard. Per un attimo mi sembrò di essere il figlio di una modella e Ottavio Missoni trasformò quel corso di provincia in una lunga passerella.

Addio Fnac Italia! Via Torino a Milano non sarà più la stessa…

Rosario PipoloAddio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. Uno come me divoratore di musica, film e libri non può che essere affezionato ai tuoi scaffali. Perché? Perché una parte del mio cuore è francese, essendosi trasferita nel Sud della Francia un pezzetto della famiglia di papà. Nel 1996 mia cugina Gabrielle mi portò per la prima volta in una Fnac, era quella di Tolone. Mi regalò alcuni libri di grammatica francese, che mi hanno giovato all’università. E poi era lì che, durante le estate francesi, andavo a rovistare per cercare a prezzi modici la musica di Serge Gainsbourg.

I miei primi dieci anni a Milano sono stati decisamente uno per uno “fnaciani”. Ricordo nel gennaio del 2003, appena sbarcato a Milano, mi precipitai a via Torino per scoprire la sede milanese – era la prima che visitavo in Italia – e cogliere al volo i cd con il bollino “Affare FNAC”. Pure con pochi soldi in tasca, riuscivo ad uscire con qualcosa di buono.

Addio Fnac Italia. E’ amaro, ma è così. I rumor ormai sono certezza e uno di questi giorni troveremo Trony al tuo posto. Via Torino a Milano non sarà più la stessa senza Fnac. Per me è come dire Parigi senza i Magazzini LaFayette. Mi mancheranno le chiacchierate con gli addetti del reparto musica, grandi conoscitori della materia, le mie incursioni in compagnia di mio cugino Massimiliano,  i sorrisi delle cassiere da cui ogni volta portavo via una piccola storia per il mio diario.

Lo so, Fnac Italia, che non bisogna essere sentimentali al giorno d’oggi. Mi toccherà espatriare in Francia, perché senza Fnac io non posso stare. Il motivo è uno solo: sulle tue scale mobili ho fatto salire e scendere un mucchio dei miei sogni. Alcuni li ho riposti nei tuoi scaffali, tra libri, dvd e cd. Un giorno tornerò a riprendermeli.

Perché racconterò la Milano City Marathon 2013 con la T-shirt “El purtava i scarp del tennis”

Rosario PipoloNon sarò mai un maratoneta. Questo lo so. Da qualche anno a questa parte però mi capita di raccontare la Milano City Marathon attraverso i social network. Ripesco così le mie origini di cronista d’assalto per i quotidiani e le mescolo a tutte quelle diavolerie tecnologiche, che poi sono gli attrezzi del mio mestiere. Nella mia “social marathon” di domenica 7 aprile indosserò la maglietta degli staffettisti in una versione unica e speciale, con la scritta sul retro “El purtava i scarp del tennis”.
È buffo pensare ad un napoletano che se ne va in giro per Milano con il titolo di una canzone milanese. Quando gli organizzatori dell’evento sportivo hanno presentato un prototipo di t-shirt per omaggiare Enzo Jannacci, scomparso la settimana scorsa, ne ho chiesta una tutta per me.

Sono stato esaudito. E non l’ho fatto per il legame privilegiato avuto con le canzoni del cantautore milanese e per gli incontri condivisi con lo stesso Jannacci nella Milano degli ultimi dieci anni. L’ho fatto perchè nella sportività della Relay Marathon, che fraziona il percorso della Milano City Marathon in più tappe, si intravede la generosità artistica di Enzo Jannacci. Le sue canzoni hanno attraversato Milano per mezzo secolo lasciando nei punti di cambio una staffetta per la generazione successiva: il valore del pensiero e della riflessione aggiunti all’ironia, alla surrealtà, all’ilarità. La staffetta si vince se c’è il team, proprio come il canzoniere di Jannacci, che continua a fare gioco di squadra con gli stati d’animo del nostro tempo.

“El purtava i scarp del tennis” non è solo il titolo del famoso brano che riascolterò puntualmente ad ogni punto di cambio della Relay Marathon. È soprattutto il titolo assegnato ad “un pretesto”, quello di “correre” con la fierezza di un podista ma che ha nel cuore le poesie musicate di Enzo Jannacci.

Quelli che…il sabato prima di Pasqua si svegliano senza Enzo Jannacci

Rosario PipoloOgni volta che sbucavo in camerino, mi ripeteva con il suo tono ironico e scanzonato che ero “una persecuzione”. Che cosa ci avrei fatto mai con quelle firme di Enzo Jannacci spiaccicate su vecchi 45giri e cd? Niente, mi sarei messo ad osservare la traiettoria dell’inchiostro, le curve, le microscopiche sbavature della penna che filtravano la consistenza del suo essere artista.

Enzo Jannacci è morto ieri in tarda sera, all’ombra di un Venerdì Santo. Milano resta davvero sola. Si sentiranno più soli quelli che come me sono venuti a cercar fortuna nella città che lo ha allevato ed ha fatto da sfondo alle sue storie. Jannacci, il medico chirurgo che sotto il camice aveva l’estro di un giullare, il cuore di un jazzista, l’anima del cantautore, ha cantato gli ultimi e i dimenticati, i poveri ed emarginati Lo ha fatto senza prendersi mai troppo sul serio. Quelli che come “Vincenzina” andavano in fabbrica, quelli che portavano “le scarp da tennis”. Jannacci le aveva sfilate zitto zitto alla borghesia invaghita che aveva rinchiuso la terra ambrosiana nel sogno fasullo della Milano da bere.

Le canzoni di Enzo Jannacci, da “Quelli che…” a “Vengo anch’io. No, tu no”, hanno investito la nostra anima della tipica teatralità che non puoi condividere con una persona qualunque. Devi sottrarla al torpore della massa e ficcarla nell’immaginario di chi continuerà a sognare da solo, attraverso le storie di Milano, diluite nel suo repertorio che recupera anche la bellezza e la magia del dialetto. Grazie ai fotoromanzi musicati di Jannacci abbiamo abbattuto gli stereotipi e avvistato lo stupore in certi angoli nascosti di questi luoghi, i suoi. E persino Rogoredo, sfinita nel tanfo della periferia, resta l’angolo popolare che dalla crudele realtà metropolitana gioca a nascondino nei versi dell’omonima canzone.

Se dobbiamo dire addio a Enzo Jannacci, facciamolo pure con una certezza: da oggi, ad un passo dalla Pasqua, assieme a Giorgio Gaber canterà le storie di noi umani al popolo di angeli, che forse ha perso da un pezzo le contraddizioni strampalate dell’umanità. Per fortuna, non siamo tutti uguali e pochi di noi hanno la fortuna di potersi incontrare nei versi di quella canzone: “Son s’cioppaa… son scoppiato dal ridere ma che pena vederti, fare finta di piangere. Son s’cioppaa, tu che neghi le Marlboro, tu che adesso hai capito come nascono i comici”. Abbiamo imparato la lezione di “come nascono i comici”, proprio quando ci ostinavamo a stare lontano dai nostri simili.

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