Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Cartolina da Agra: l’amore eterno custodito dal Taj Mahal

C’è ancora una mezza luna che brilla ad Agra. Non manca tanto alle prime luci del sole. Il Rajasthan è ormai alle spalle e nella regione indiana dello Uttar Pradesh sanno bene che bisogna arrivare prima dell’alba al Taj Mahal, affinchè la folla dei visitatori non faccia da gustafeste alla visita di una delle sette meraviglie del mondo.

Quando l’imperatore moghul Shah Jahan fece costruire il mausoleo in memoria della moglie preferita Mumtaz Mahal, l’India del XVII secolo non poteva di certo immaginare che questo sarebbe diventato il simbolo del Paese.
Incamminandomi verso il gioiello UNESCO, che a seconda della luce del sole veste sfumature colori diversi, mi sembra di rivedere le centinaia e centinaia di elefanti impiegati e fatti morire per trasportare il materiale per la costruzione.

Ciascuno di noi in pellegrinaggio in questo luogo si sente custode dell’amore eterno, perché le tombe dell’imperatore e della sua amata non sono altro che la sfida alla nostra esistenza segnata dall’epitaffio “finché morte non ci separi”.

Il Taj Mahal è l’ultimo baluardo dell’umanità convinta che l’amore per la propria donna, nonostante tutto, sia infinito nell’evoluzione che lo conduce a crescere, espandersi in tutte le fasi, dalla giovinezza alla vecchiaia.
Il Taj Mahal, attraverso la sua ala protettiva, libera questo amore eterno dalle convenzioni sociali che hanno affossato l’India sotto i ricatti delle caste.

Le convenzioni sociali non risparmiano nessuno di noi, nella lotta quotidiana ai ricatti degli assurdi e mostruosi riti sociali che vorrebbero dettare legge sulla nostra vita. Il turista se ne va con un mucchio di selfie in tasca, surrogati del narcisismo volgare dei social network.

Il viaggiatore si ritrova accovacciato in silenzio dinanzi al Taj Mahal, perchè l’amore resta un mistero così come la morte.

 

L’amore non bada a caste né il sonno a un letto rotto. Io andai in cerca d’amore e mi persi. (Proverbio indù)

“Stupendo, mi viene il vomito… Non lo so se sto qui o se ritorno.”

Svolta in quella strada. Rallenta, lo vedi il perimetro in cui ci siamo giocati la partita dell’infanzia, tra casa tua e quella di nonna? Forse questi trentott’anni d’amicizia li abbiamo fatti correre troppo velocemente come degli acrobati accovacciati tra le corde della strafottenza che ci accomunava.
Non era superficialità la nostra, piuttosto la leggerezza ribelle che ci ha fatti crescere sovversivi nella provincia mediocre infangata dal vivere per apparire.

Guardando una fotografia
mi rendo conto che il tempo vola
e che la vita poi è una sola…
E mi ricordo chi voleva
al potere la fantasia…
erano giorni di grandi sogni… sai
erano vere anche le utopie.

Fermati al semaforo anche se è verde, così i clacson delle auto impazzite orchestreranno l’ennesimo concerto del fuje fuje.
Guarda, alla tua sinistra, la panchina di via Diaz dove ti venivo a cercare nelle serate di giugno stiracchiata su quella vespa bianca. I tramonti d’estate, che avevano spettinato la fine dell’anno scolastico, ci facevano galoppare sui nostri sogni, sul futuro difeso a denti stretti, niente ce lo avrebbe scippato, neanche la morte.

Ma non ricordo se chi c’era
aveva queste queste facce qui
non mi dire che è proprio così
non mi dire che son quelli lì!

E ora che del mio domani
non ho più la nostalgia…

Andiamo contromano, non c’è nessuno in quella piazza, ci siamo io, tu ed Elisabetta che cantiamo a squarciagola Stupendo di Vasco, proprio come in quella sera d’autunno in cui la gente ci guardò come se fossimo ammattiti.
Poi sulla via del ritorno, dal sedile anteriore della mia 127 ciondolante, mi sussurrasti: “Ti piace la mia amica?”. Fu allora, sull’onda dei miei vent’anni, che mi convinsi: tu sapevi leggermi dentro, perforavi il mio cuore come solo una ragazza sa fare con un caro amico.

E cosa conta “chi perdeva”
le regole sono così
è la vita ed è ora che cresci!
devi viverla così…

Rallenta pure, guarda gli alberi, le foglie morte, come hanno ridotto il paesaggio della nostra adolescenza.
Li vedi quei faccioni sui cartelloni giganti che elemosinano voti per le prossime elezioni amministrative? Sono figli e nipoti di coloro che svendettero il diritto alla vita e alla salute in cambio di potere, poltrone, incarichi, posti di lavoro. Gli spargimenti di veleno nella nostra terra oggi generano morte senza pietà.

Però ricordo chi voleva
un mondo meglio di così!
ancora tu che ci fai delle storie…(ma dai)…
cosa vuoi tu più di così…

Siamo arrivati. Cosa fai, scendi dall’auto? Non chiedermi di guidare, di tornare indietro da solo nella terra dei fuochi governata da assassini in giacca e cravatta, non ce la faccio, sei la mia vita, sei la mia famiglia.

Mi viene il vomito,
è più forte di me
non lo so
se sto qui
o se ritorno.

Aspetto qui. Non voltarti indietro, Maria Grazia. Che luce abbagliante, allora Dio esiste davvero.

Rileggere “La Califfa” ad alta voce è il miglior elogio funebre per Alberto Bevilacqua

Rosario PipoloDovremmo rileggere La Califfa di Alberto Bevilacqua, scomparso poche ore fa a Roma all’età di 79 anni, per indossare di nuovo quella sottoveste che il Belpaese ha bruciato nell’ultimo ventennio di malessere politico e sociale. Ritrovare la sensualità di Irene, la protagonista del bestseller di Bevilacqua, diventato un celebre film, ci farebbe bene per scampare il subdolo pericolo di scambiarla con le nuove vedette alla Ruby che popolano la pattumiera della Seconda Repubblica tutta “Sex and Politics”.

La sottoveste è quella “operaia”, senza fronzoli o doppi merletti, che il Belpaese rinnegò durante i fasulli “happy days” del regime democristiano. La bella Califfa di Bevilacqua, cresciuta nell’Italietta di provincia delle rivolte operaie, protegge lo charme anche quando l’amore la porta in una direzione opposta, verso l’industriale cinico e avaro, che vorrebbe profumarla per toglierle di dosso l’odore sbriciolato di fabbrica.

Alberto Bevilacqua, figlio della Parma che dai granduchi fini nel palmo della mano operaia, ci ha lasciato un bel ritratto femminile, che oggi mette in evidenza lo squallore delle nuove dee della bellezza femminile, sottomesse e svendute agli orchi dei Palazzi di lusso. Vorremmo che da una di queste stanze uscisse l’erede della Califfa, con lo sguardo impavido di chi non si fa sottomettere al potere ed è pronta a ritornare nella terra che l’ha partorita, senza rinnegare le proprie origini.

Alberto Bevilacqua è morto e nessuno riuscirà più a smuovere quella penna per convincerlo che il tanfo operaio della protagonista del suo romanzo sia robaccia di altri tempi. Anzi no, di un solo tempo, quello in cui L’Italia rinnegava di essere stato un paese operaio, mentre noi uomini ci appostavamo ancora all’uscita degli stabilimenti per innamorarci di quelle donzelle che sapevano esprimere la propria femminilità anche sulla catena di montaggio.

Storie di casa mia: Se al ritorno dalle vacanze, il tuo vicino Silvio è partito per sempre…

Rosario PipoloI luoghi comuni recitano che i rapporti di vicinato siano quasi inesistenti al di là del Po e siano un’esclusiva del Sud. A dire il vero non ho mai amato “le comunelle” del vicinato chiassoso che nutrivano il folclore delle zone in cui sono cresciuto. Ho riconosciuto però, in diverse occasioni, il valore aggiunto di un buon vicino di casa.

Quando più di quattro anni fa ho cambiato casa, Silvio è stato il primo che ho incrociato. Il signore ottantenne conosceva ogni angolo della palazzina dove mi ero trasferito e mi offrì le giuste indicazioni, da come aprire il cancello alla gestione della raccolta differenziata. Nel giro di pochi mesi Silvio si rese conto che, oltre ad essere il condomino più giovane, ero anche quello più sregolato, che non aveva mai orari. Appena capitava l’occasione di incrociarmi, mi sussurrava: “Quando sento la musica ad alto volume, so che si aggira da queste parti”.

Il mio vicino sapeva porgerti persino un rimprovero con garbo ed era una piacevole sorpresa ritrovarmelo all’improvviso, come fosse l’ombra di mio nonno, accanto al garage o alle prese con il suo orticello. Spuntava nel momento in cui meno me lo aspettavo. Avrei conosciuto il suo passo lento ovunque. Al ritorno dalle vacanze, non ho sentito più i suoi passi e il bidoncino della spazzatura, che lui puntualmente mi metteva dentro, era rimasto lì.

Mi hanno avvertito che, proprio nelle stesse ore del mio rientro, Silvio se ne era andato per sempre: con garbo, senza far rumore, nel suo stile. C’eravamo salutati prima delle vacanze e, osservandolo mano nella mano con sua moglie, dicevo tra me e me: “Spero di arrivare alla sua età con tanto amore negli occhi per le mia donna”. Sì, perché Silvio nascondeva nel suo sguardo sterminato amore.
Rincasando stasera mi sentirò più solo, perché non ci sarà più l’anziano signore del piano di sopra che a modo suo si preoccupa per me. Allora metterò ad alto volume su un vecchio vinile una canzone dei Beatles, aspettando che Silvio bussi al campanello per chiedermi di abbassarlo. E se ciò non accadesse, sparerò ad alto volume un concerto Brandeburghese di Bach, l’unica musica che può arrivare in fretta alle orecchie di Dio. Sono convinto che da lassù Silvio dirà al Padreterno: “E’ il mio vicino di casa. Anche qui riesce a farsi sentire. Questa volta però non lo rimprovero perché questo è il suo modo stravagante di salutarmi”.*

*Dedicato a Silvio Minoli (1925-2013)

Dopo la morte del sindaco di Cardano Laura Prati non mi sento più “straniero”


Rosario PipoloLa notizia della scomparsa di Laura Prati, il sindaco di Cardano al Campo aggredito lo scorso 2 luglio dal vigile sospeso dal servizio, ha fatto uno strano effetto sulla pelle degli stranieri del territorio. Per “stranieri” intendo tutti coloro che non sono nati o cresciuti in questa zolla del varesotto, ma ci sono capitati successivamente. Mi ci metto pure io. Del resto fino ad un paio di settimane fa per me Cardano era il paesotto dove alcuni agenti immobiliari avrebbero voluto convincermi a prendere a casa o il posto dove si era spenta la mia adorata Mimì, Mia Martini.

L’effetto di cui accennavo all’inizio è quello di una rabbia straripante, che dovrebbe diffondersi più spontaneamente tra quelli del posto, che conoscevano da vicino l’impegno di Laura. Questo ritaglio di cronaca mi ha riportato ad un episodio di cui fu vittima tanti anni fa un medico del paese alla periferia di Napoli dove sono cresciuto. Fu aggredito da un paziente e scampò alla morte, ma con il prezzo di un’invalidità ad una gamba. La situazione è molto diversa, ma il contesto provinciale sembra simile. Sdegno iniziale, accompagnato da una punta pressapochismo che, il più delle volte in periferia, si trasforma in omertà mostruosa. E qualche volta occorre ingoiare pure il rospo di chi ti rimprovera dietro le spalle: “Se fosse stato più accondiscendente o avesse fatto finta di niente, non gli sarebbe accaduto nulla”.

La morte ingiusta di Laura Prati mi ha fatto sentire improvvisamente parte della comunità che l’ha vista crescere e occupare il ruolo di primo cittadino. Tenendo a bada il risentimento vendicativo che ci porterebbe al linciaggio del malfattore, penso che sia lecito chiedere giustizia. Nel nostro Paese purtroppo la giustizia è così opinabile da portare una “perizia psichiatrica” ad essere l’escamotage per alleggerire la pena. La famiglia di Laura Prati non ha bisogno del folclore scenografico che qualche volta prende piede ai funerali, come ho visto anche alla periferia dove sono cresciuto, ma di un supporto che si evolva nel tempo per evitare la vera tragedia: vestire gli ignudi, assiepati intorno al colpevole, con la follia pirandelliana e lasciare che il futuro abbia memoria corta*.

*Questo articolo è stato pubblicato anche dal quotidiano on line Varese News. Ringrazio il direttore responsabile e i colleghi della redazione.

Addio a Carlo Maria Martini, il Gesuita che avremmo voluto Papa

Il polacco Karol Wojtyla si era dimostrato un bravo talent scout e ci vide lungo nello sguardo algido di quel Gesuita, che sarebbe stato l’unico e legittimo successore. Carlo Maria Martini, l’Arcivescovo emerito di Milano, si è spento qualche ora fa a Gallarate, a pochi chilometri da Varese, dove da diversi anni combatteva contro il Parkinson. I non credenti hanno apprezzato il temperamento sobrio del filosofo, la sua apertura al dialogo verso le altre religioni; i fedeli invece l’integrità spirituale del padre Gesuita.

Carlo Maria Martini è stato capace di allenare una comunità, all’ombra del pontificato di Giovanni Paolo II, proteggendola dal conservatorismo che ha affossato la Chiesa, remando per mandare alla deriva il passato, guardando agli errori, simili ai peggiori scheletri nell’armadio, con le lenti del riformista. Battendo il pugno per affermare che “Dio non è cattolico”, il padre spirituale che era in lui ha ceduto il passo all’insuperabile biblista. Carlo Maria Martini aveva tenuto vigile lo sguardo sul futuro e sui cambi di stagione, fu sentinella mentre Milano usciva a fatica dal tunnel degli Anni di Piombo per finire affogata nell’ingordigia della movida degli yuppies e del rampantismo del tempo avvenire. Non lo aveva fatto però con lo scettro del sovrano despota, ma con l’intelligenza e la spiritualità che sanno fare di un Gesuita un principe e un essere davvero speciale.

Carlo Maria Martini è stato il Papa mancato, il Pontefice che alcuni di noi avrebbero voluto incrociare. E’ inutile girarci intorno, se non fosse stato per la feroce malattia, sarebbe arrivato a Roma con l’appoggio sacrosanto del Padreterno. E la manciata dei voti che ha fatto sogghignare i conservatori con l’elezione di Ratzinger, nella virata più a destra rispetto alle previsioni ottimiste, avrebbe consegnato la Chiesa nelle uniche mani che potevano tracciare la linea di continuità con il pontificato di Giovanni Paolo II.

Nel dicembre del 1998, in un gelido pomeriggio, lasciai in un angolo del Duomo di Milano un biglietto per lui. Quando tornai a Napoli, dopo una notte di treno, trovai una lettera che proveniva da Milano. C’era scritto pressappoco così: “Abbiamo trovato il suo biglietto nella Cattedrale. Il Cardinal Martini ha apprezzato le sue belle parole. Lui è vicino ai giovani. Rosario, non perda mai la speranza.” La conservai nella tasca del jeans e una settimana dopo risalii sullo stesso treno Espresso per tornare a cercare fortuna in una città che non era mia. Carlo Maria Martini, il Gesuita dalle ampie vedute, ha chiuso gli occhi a pochi metri da dove abito oggi. Di lui mi resta qualche goccia dell’ inchiostro che incoraggiò un ragazzotto del Sud a difendere valori e sogni dai paladini del cinismo.

  Habemus Papam vicino a Martini: Il gesuita moderato argentino…

Addio a Donna Summer che si porta via il sorriso della ragazza occhialuta

Vorrei aver fatto un brutto sogno. Mi sveglio e la regina della Disco si è dissolta dietro il sipario. Donna Summer ha perso la battaglia contro una brutta malattia che l’ha portata via a 63 anni. Speravamo di rivederla dal vivo, con quel suo charme e quell’energia black. Non glielo toglie nessuno il trono di Lady of the Night, come si intitolava una celebre canzone, perché le sue hit continueranno a smuovere le chiappe e le gambe di tante altre generazioni.

Me la ricordo nel piccolo televisore in bianco e nero che avevamo in cucina al tramonto degli anni ’70: sorriso raggiante, voce suadente, bucava lo schermo. E nonostante quelli della mia età fossero condannati ad ascoltare canzoncine per bambini, a me Donna Summer piaceva da matti.
Quando scoprii il significato della parola “razzismo”, mi sembrava tutto così assurdo perché per me gli uomini e le donne di colore avevano le voci più belle del mondo.

Donna Summer ha accompagnato casualmente un recente viaggio on the road. Mentre solcavo in auto la pianura padana con l’andamento di un lumacone, chiesi a bruciapelo alla mia compagna di viaggio: “Sei felice?”. E lei replicò: “Sì”. Prendemmo la rincorsa su una canzone della Summer che usciva dall’autoradio e fuggimmo via verso casa.
Adesso che la regina della Disco se n’è andata, forse si è portata via anche il sorriso della ragazza occhialuta. Le canzoni di Donna Summer continueranno a svolazzare dal mio autoradio così come quello sguardo disciolto in un paio di occhiali  costeggerà la mia vita per sempre.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=xmNaYCoF7vo&w=420&h=315]

Sabato di merda: L’addio a Morosini dall’Italia che sputa su Piazza della Loggia

L’Italia è ammutolita, tifosi e non, per la scomparsa in campo di Piermario Morosini. La morte del centrocampista venticinquenne del Livorno sabato a Pescara ha fatto il giro dei social in fretta e furia e su alcune bacheche di Facebook in molti si chiedevano: “Si può morire alla sua età faccia a faccia con un pallone?”.

Dall’altra parte della barricata era già bella e pronta la ramanzina. La prevenzione ha motivo di esistere quando si tratta di un arresto cardiaco? Mettendo da parte l’intralcio dell’auto dei vigili urbani, è legittimo un dubbio. All’interno di una macchina da guerra, pardon “da business”, come il calcio, quanto impegno spendiamo nel nostro Paese per tutelare la salute dei calciatori? Le malelingue risponderebbero che, con tutti i quattrini in tasca, i giocatori potrebbero permettersi il lusso di avere mezza clinica mobile ad personam.
Ci chiediamo se gli stadi siano davvero attrezzati come dovrebbero – senza distinzione di serie A o B – e quali siano in realtà gli investimenti in tal senso. Purtroppo viviamo in un paese in cui si agisce quando scatta l’allarme e può scapparci il morto. Senza mettere in conto l’adeguata formazione che manca ai soccorritori, in difficoltà al momento dell’insorgenza della criticità.

Tuttavia, nei tanti minuti di silenzio dedicati a Morosini lungo tutto lo stivale, ci siamo dimenticati delle vittime dell’attentato a piazza della Loggia a Brescia, i cui assassini l’hanno fatta franca una volta e per sempre. Quei morti, accartocciati nella memoria sbiadita degli Anni di Piombo, hanno subìto gli sputi dell’Italia assassina, quella ammantata nella stessa nonchalance di chi non avrebbe voluto sospendere il campionato, perchè dopotutto i calciatori devono essere macchine da guerra. E’ stato un sabato di merda, perchè siamo stati incapaci di unire un lutto sportivo a quello della nostra memoria civile.

L’uovo di Pasqua: “Sono piccola. Come farò adesso senza papà mio?”

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà guardarti diritta nei tuoi occhi azzurri e far finta di niente. È invece è successo prima che i tuoi sei anni bussassero alla porta dell’età adulta.
Solo gli sciocchi dicono che era già tutto previsto. Non era previsto un bel niente ed è legittimo il tuo sussurro di disperazione: “Io non sono grande, sono piccola. Come farò adesso senza papà mio?”

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà non versare lacrime di rabbia perchè questa volta la risposta bella e fatta non ce l’ha nessuno, né gli strizzacervelli di turno, né i predicatori o i preti. Si diradano le mistificazioni di chi vive nella gabbia di un luogo comune. La morte è roba seria.

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà far finta di esser forte per te, perchè da grandi dicono ch e la rabbia, mescolata al dolore, dovrebbe evaporare. È una bugia. Mi prende ogni volta che finisce tra le mani un pezzetto di carta, su cui ti sei esercitata a scrivere, evitando le solite zampe di gallina da prima elementare, “Sei forte, papà”.
Solo gli sciocchi dicono che era già tutto previsto. Era prevedibile il ritorno degli ipocriti, i cacasotto che un dì se la sono data a gambe. Adesso se la fanno addosso dai rimorsi e vorrebbero portarti a fare una scampagnata al parco. Le loro coscienze valgono quanto le pozzanghere, in cui ogni volta caschi tuffandoti dall’altalena.

Tu non lo sai quanta fatica mi costerà far finta che il cioccolato dell’uovo di Pasqua sia dolce e farti le fusa mentre ti insozzi il musetto. Mi perderò nei tuoi occhietti azzurri e mi ricorderò di quando all’età tua mi rassicurarono: La luce sarebbe tornata dalle ferite dell’ultimo “Cristo finito in croce”.

Per questa Pasqua, nonostante sia un deplorevole mendicante di parole, vorrei pregare a modo mio, affinché l’ultimo Cristo finito in croce lasci tornare il tuo papà per un istante soltanto. Quello in cui, da grande, vestita di bianco, ti avvierai all’altare come una bellissima principessa scalza e raggiungerei l’uomo della tua vita.
Ti accompagnerà chi ha sostenuto, fino all’ultimo respiro, la convinzione che solo l’amore tra un uomo e una donna diano significato alla nostra esistenza. Lo riconoscerai perchè sarà uguale all’ultima volta che ti ha fatto toccare il cielo con un dito: tuo padre.

Sei proprio un Taricone! Chi glielo dice a Sophie che papà non c’è più?

 

Non è fottuta nostalgia: Addio a Lucio Dalla, nelle tue canzoni la vita mia

Mamma, non si fa così. E’ morto Lucio Dalla. Era la voce che cantava, mentre tu facevi le faccende domestiche nei bei pomeriggi della fine degli anni ’70. Non è fottuta nostalgia, no. Sono le canzoni che ci accomunano, sono le “Storie di casa mia” a tornare vive attraverso le sue canzoni.

Avevamo il mangianastri che ti aveva regalato papà per fidanzamento, ma io volevo il vinile. La solita storia, la solita cresta sulla tua spesa. Andai a comprare un disco di Dalla sotto etichetta RCA in un negozietto di periferia. Spiegai al titolare che non avevo abbastanza soldi e me lo mise da parte.

Mamma, ricordi quanto odiassi il cappello di lana che mi infilavi tutte le mattine prima di andare a scuola? Poi un bel dì decisi che mi calzava a pennello, perché lo avevo visto sul capo di Dalla. Attraverso i suoi brani ho imparato ad osservare le storie di periferia, quelle che nascono e finiscono nella quotidianità, che fosse un sogno collettivo come Piazza Grande; una preghiera blasfema come 4/3/1943; un visionario disincanto come La notte dei miracoli; l’amore di Anna e Marco che premia i diversi; lo stupore per ciò che sarà di Felicità; la potenza della lirica fuori dai luoghi d’èlite di Caruso.
Ho trovato le radici della mia laicità imparando a memoria Se io fossi un angelo; ho imparato a suonare la chitarra con gli accordi di L’anno che verrà; i miei 30 giorni di servizio militare sono finiti sulle note di Ciao.

L’ho conosciuto e incontrato così tante volte che, autografando i miei dischi, cambiò la dedica da “A Rosario” in a “A Rosario, amico mio”. Disse bonariamente che ero stato uno sfaccendato a buttare i miei risparmi per comprare i suoi dischi. Il ricordo più bello che mi lega a Lucio risale ad una sera d’inverno, al termine di una conferenza da Feltrinelli a Milano. Restai a parlottare con lui e la poetessa Alda Merini. Mi convinsi che si poteva essere grandi rimanendo piccoli.

A distanza di tempo, riesco ancora a sentirmi ciò che sono, perchè in tutti i miei traslochi c’erano gli album di Lucio Dalla a ricordarmelo. Sono felice di saper leggere l’italiano perchè senza il filtro di una traduzione posso arrivare nell’anima del suo canzoniere.