Pipolo.it

Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Non insegnate ai bambini: Date fiducia all’amore, il resto è niente.

Rosario PipoloBuon compleanno, Zoe. Io e il tuo papà ci alleammo al terzultimo banco in un liceo della periferia di Napoli contro l’irrefrenabile nozionismo che voleva la recita a memoria di Natalino Sapegno. Scalpitavamo per percorrere altre strade e trapiantare nell’anima la letteratura italiana.

“Non insegnate ai bambini, non insegnate la vostra morale. È così stanca e malata, potrebbe far male. Forse una grave imprudenza, è  lasciarli in balia di una falsa coscienza. Non elogiate il pensiero, che è sempre più raro. Non indicate per loro, una via conosciuta. Ma se proprio volete, Insegnate soltanto la magia della vita”*.

Buon compleanno, Zoe. Ci pensi, Io e il tuo papà in piedi su una sedia, a fine lezione, in quello che fu scambiato per l’irriverente sfottò di due eccentrici e arroganti maturandi.
Invece no, fu la nostra protesta. Non ne potevamo più di inghiottire come rospi a quantità industriale versi latini e greci, per riempire i buchi dei programmi ministeriali della scuola miope e strabica dei nostri tempi.

“Non insegnate ai bambini, non divulgate illusioni sociali, non gli riempite il futuro di vecchi ideali. L’unica cosa sicura è tenerli lontano dalla nostra cultura. Non esaltate il talento che è sempre più spento, non li avviate al bel canto, al teatro, alla danza, ma se proprio volete raccontategli il sogno di un’antica speranza”.*

Buon compleanno, Zoe. In una mattina di primavera io e il tuo papà trasformammo l’odioso “filone” del liceale radical-chic in un viaggio a corto raggio: parlammo, condividemmo, sbottonammo  sogni futuri azzannando un panino caldo e mortadella, ci staccammo una volta e per sempre da quel provincialismo che premia i bagordi del vivere per apparire anzichè la sostanza dell’essere.

“Non insegnate ai bambini. ma coltivate voi stessi il cuore e la mente. Stategli sempre vicini, date fiducia all’amore, il resto è niente”.*

Buon compleanno, Zoe. Alzati da quella sedia, proprio come facemmo io e il tuo papà, svestendoci del pregiudizio di chi diceva che non potevamo farcela con le nostre forze. Giro giro tondo, cambia il mondo.

*Giorgio Gaber – Sandro Luporini, Non insegnate ai bambini, dall’album “Io non mi sento italiano”, CGD, Italia 2003

Da Franco Battiato a Mina, perché i loro compleanni ci appartengono

Rosario PipoloLe canzoni non solo ci fanno stare bene ma sanno essere per una minoranza di noi incisioni sulla vita per le scelte future. Per questo motivo i compleanni di chi ce le ha donate, vanno festeggiati.
Non si tratta però dell’odioso fanatismo che fa di ogni fan che si rispetti il cortigiano immaginario del proprio beniamino, piuttosto dell’incosciente leggerezza che lega la vita, la nostra appunto, a certe canzoni e di conseguenza alle voci che le hanno vendemmiate per noi.

Pensando a due compleanni speciali in questo marzo, le 70 candeline di Franco Battiato e le 75 di Mina Mazzini, mi chiedo se dopotutto bastano canzoni per arrogarci il diritto di sedere da commensale al tavolo dell’illustre festeggiato. Non sono complici un mucchietto di ricordi, messi in castigo all’angolo, a dare una sostanza a quelle voci?

Mi capitò con Battiato in un auditorium milanese: dopo l’esecuzione di Povera Patria mi alzai in piedi e lui sorridendo mi disse: “Assiettete”. In camerino, mangiucchiando della frutta insieme, ripercorsi con Battiato la via Etnea sperimentale che illuminò gli orizzonti perduti delle mie conoscenze musicali.

Per Mina mi capitò in una cucina alla periferia di Napoli nei pomeriggi dell’infanzia: mamma terminava le faccende domestiche e mi raccontava della signora Mazzini, di professione cantante, trasferita a Lugano per tornare a vivere la quotidianità lontana dalll’invadenza dei riflettori. Insomma, per farla breve, nel mio immaginario Mina è rimasta l’amica di mia madre che, tra lavoro di casalinga e la professione di mamma per Massimiliano e Benedetta, si chiudeva in sala di registrazione e incideva canzoni.

Il fanatismo tanto decantato, che alimenta il personaggio e lo mitizza, prima o dopo appassisce. Resta in soffitta impolverato tra ricordi e vecchi brani. Accade il contrario quando le voci di quelle canzoni prendono la forma di persone, cresciute accanto a noi nella loro fragilità e umanità.
Perciò crescendo, avvertiamo la necessità di entrare in contatto con loro. Non è fanaticismo feticista. Questo tratto lo colse mia cugina Elena, quando anni fa mi fece trovare una dedica di Mina, incorniciata come se fosse uno specchietto della mia vita.

Abbiamo il diritto di essere accanto a loro quando soffiano sulle candeline perché, nell’ultima fiammella accesa sulla torta, ci sono i quattro angoli del cielo della nostra vita.
Le canzoni non si liquefano come su Spotify ma, dopo essere stati appiccicati come bottoni su un pentagramma, si muovono con la leggerezza di una libellula. Finiscono per assopirsi su una brandina al vinile, avvolta da una copertina su cui era disegnato, ad insaputa nostra, ciò che avremmo voluto dal nostro futuro.

Oggi sono io, anche grazie a voi due. Buon compleanno, Battiato. Buon compleanno, Mina.

50 candeline per te: buon compleanno, cara Claudia Endrigo!

Rosario PipoloOltre le canzoni del tuo papà, cara Claudia, c’è una ricordo che mi lega a te: la maestra Iole che, all’alba degli anni ’80, ci insegnò in terza elementare i versi di Ci vuole un fiore.  E quando alcuni anni fa te ne parlai, annunciandoti che le stavamo organizzando una festa a sorpresa per la pensione, non te lo facesti ripetere due volte.
Mi inviasti una lettera dolcissima che le lessi in classe. Alunni e genitori esclamarono: “Hai letto con passione questa lettera di Claudio Endrigo. Si vede che siete amici di vecchia data!”.

Beh, io confermai. Dici che ho esagerato? In fondo, non ci siamo mai conosciuti di persona. Perché “amici di vecchia data”? Perché quando ti hanno scattato questa bella foto con il tuo adorato papà, il mio corteggiava mamma, regalandole le canzoni d’amore di Sergio Endrigo.
E poi vuoi mettere:  tu, graziosa signorinella, andavi a scuola con lo zaino nel viale delll’adolescenza ed io, bambino monello, che puntualmente fregava a mamma la paletta delle pulizie. Diventava l’asta immaginaria di un microfono per cantare Ci vuole un fiore su un balcone alla periferia di Napoli. Il Vesuvio “scostumato” mi mostrava le spalle, il monte Somma.

E poi c’era mamma che, tra una faccenda domestica e l’altra, mi faceva ascoltare le canzoni del tuo papà e mi parlava di lui come uno di famiglia. Una persona perbene, ripeteva. Guardandoti in questa foto di ieri e in quelle di oggi, posso dirti una cosa con franchezza?
Claudia, sei tutta tuo padre. In quella tua autenticità, in quel tuo modo di essere sincera, in quell’entusiasmo appassionato che ti fa affrontare la vita, lontana dallo star-system volgare di questi tempi. Anche allora però volavano i falchi. Sergio Endrigo invece era una meravigliosa colomba, che posava lo sguardo sull’interiorità dell’umanità.

Detesto gli auguri “in saldi”che raccattano consensi sui social network. Per questo biglietto di auguri, condiviso con i miei lettori, ho scelto le pagine del mio blog. Stasera, soffiando le candeline, sentirai in lontananza la voce di quel bimbo stonato che, impugnando l’asta del microfono immaginario, ti dedica: “Ma oggi devo dire che ti voglio bene. Per questo canto e canto te. È stato tanto grande ormai, non sa morire.”

Sono le parole che scrisse il tuo papà. Se torni nel giardino in cui fu scattata questa foto, troverai, incolume dal gelo di gennaio, una rosa che lui piantò per te nel giorno della tua nascita. L’amore di un papà non passa mai di moda perché non appassisce.

Buon compleanno, Claudia.

In viaggio verso la culla di Noemi

Rosario PipoloChissà se mi basteranno cento chilometri e passa di trenini locali per scriverti un biglietto d’auguri, forse uno dei primi che riceverai per essere venuta a questo mondo. Sì, proprio i treni, quelli a forma di buffi millepiedi che fanno ciuff ciuff.
E se non mi basteranno ne percorrerò altri come accade sulla strada della vita: Noemi, è lunga e faticosa ma ne vale la pena in ogni istante.

Noemi, la prima volta in fuga dalla culla sarà per scoprire a carponi quanto sia meraviglioso spostarsi, perché la condanna di restare immobili spetta ai vigliacchi. Noemi, muoverai i primi passi e non avrai paura di cadere perché, voltandoti indietro, troverai l’amore di mamma e papà a sorreggerti.

Noemi, la prima volta oltre la ringhiera del balcone,  sarà per  guardarti intorno nel cortile, sentire le carezze delle tue affettuose nonne, apprezzare il tuo vicino di casa che rinuncia al sabato e domenica ad Acquafredda per andare a protestare in piazza nella Capitale, sventolando una bandiera colorata: devi sapere che in questo mondo ci sono persone invisibili che lottano per un mondo più umano, più giusto.

Noemi, la prima volta in montagna sarà per raccogliere il muschio per il presepe insieme al tuo papà, come faceva lui da bimbo con tuo nonno carabiniere in Valmalenco.  E poi verrà Natale e non ci vorrà molto per capire che il colore della pelle del Bambinello non è né bianco né nero ma riflette la ricchezza della diversità dell’umanità.

Noemi, la prima volta su un piccolo triciclo sarà per guardare il paesaggio montavano dal confine della bassa Bresciana. I confini territoriali non esistono, li abbiamo creati noi umani per farci stupide guerre.

Noemi, la prima volta in bicicletta sarà per scappare dalle meschinità e dalle ipocrisie della provincia, dai pregiudizi  delle tribù, dalle palafitte delle comunità, dopo che ti sarai fatta beffa dello struscio domenicale, del passamani nell’acquasantiera, dei soliti sermoni che dagli altari ti vorrebbero in lista d’attesa per il Paradiso. Il paradiso può attendere, dobbiamo prima impegnarci ogni giorno a farlo nel nostro piccolo, qui su questa terra.

Noemi, la prima volta che urlerai “Dio, perché mi hai abbandonata?” sentirai invece che ti sta portando in braccio. I solchi che vedrai sulla terra sotto i tuoi piedi non saranno stati arati dai contadini della bassa bresciana ma dai passi del Padreterno, che ogni notte accenderà le stelle in cielo per darti la buonanotte.

Noemi, la prima volta che lui ti sussurrerà “ti amo” sarà “su quel ramo del lago” in cui si riflette Lecco. Lì, ai piedi di un grande albero, lui ti reciterà un passo dei “Promessi Sposi” e custodirete così la promessa del vostro amore. Prima del calar del sole, ti inviterà a danzare un lento sulle note dello sciacquettio lacustre.

Noemi, la mia “prima” volta di un lungo viaggio in treno verso una culla è stato per te. Avrei voluto cantarti una ninna nanna ma sono stonato. E sai perché stono?
Perché ho steso a modo mio la vita in un lungo viaggio fatto di esperienze; faccio famiglia con chi incontro sulla via; mi lascio alle spalle gli amici traditori; osservo la quotidianità attraverso gli occhi del cinema, parlo con le parole dei romanzi, ascolto con l’udito della musica, sogno dentro e fuori i sogni.

Buona vita, Noemi. Ti lascio questo biglietto d’auguri dentro la culla. Lo troverai un giorno e ti ricorderai di me, il primo vagabondo sul tuo cammino.

Perché non faccio più gli auguri di compleanno via Facebook

Rosario PipoloDa qualche mese appena apro la mia pagina Facebook ecco che spunta il solito promemoria: ti sei ricordato di fare gli auguri di compleanno ai tuoi amici? Devo ammettere che fino all’estate scorsa ero divenuto così abitudinario a farli a destra e a sinistra, che ci pensavo a prima mattina. Mi sono però sempre rifiutato di usare quel tipo di diavolerie a forma di app che inviano gli “Happy Birthday” al tuo posto.

Al ritorno dalle vacanze, mi sono soffermato ad osservare migliaia di auguri in formato social che rimbalzavano da una bacheca all’altra e mi sono detto: quanto tempo è che non sento più a telefono le persone a cui tengo davvero per gli auguri? Mi sono ricordato addirittura che, negli anni dell’adolescenza, scarabocchiavo auguri personalizzati su biglietti preparati da me, saltavo sulla mia vespa rossa e li andavo ad imbucare personalmente.

Insomma, il calendario di Facebook mi ha fatto da promemoria per evitare figuracce con la community a cui appartengo, ma allo stesso tempo ha svuotato un gesto significativo della mia quotidianità. I guru dei social network sostengono che augurare buon compleanno su Facebook migliori la propria reputazione social nella centrifuga infernale del virtuale. Aggiungerei però che deteriora anche l’essenziale e mischia in un unico calderone alcuni legami che ci circondano.
Me lo ha confermato una telefonata recente del mio amico di infanzia Antonio. Ci siamo sentiti per gli auguri, ma poi parlottando a telefono siamo finiti a condividere memoria e quotidianità, l’essenziale agli occhi di un augurio speciale. Torno a riprendermeli, spalancando la finestra e alzando la cornetta del telefono: “Pronto, sono Rosario. Buon compleanno…”

Diario d’estate: I sassolini di Luisa nella tasca scucita dei miei 40 anni

Rosario PipoloQualche settimana fa ho portato l’auto al lavaggio sotto casa. Quando sono tornato a riprenderla, un tizio mi ha detto: “Tenga, abbiamo trovato questo”. Era un sacchetto. Buttando l’occhio, vi ho trovato una miriade di sassolini. Cosa ci facevano nella mia auto?

Mi è tornato in mente il brano Le tasche piene di sassi di Lorenzo Cherubini. Pensavo a quanto una manciata di sassi possa appesantire la nostra quotidianità quando la vita minaccia di ridurre tutto ad “un mantello fatto di stracci”. Eppure non riuscivo a ricordare come fossero finiti nella mia auto. Assomigliavano a quelli che raccoglievo in un secchiello da bambino, nella mattine estive in riva al mare della Calabria. Sì, proprio quei sassolini.

Sono rincasato. Li ho lasciati cadere sul tappeto del soggiorno. Ho provato a contarli, ma erano tanti. In quell’istante mi è tornata in mente un pomeriggio della scorsa estate su una spiaggia marchigiana e lei che mi disse: “Guarda qui. Che bei colori. Toccali, è ancora appiccicato il profumo di mare. Ne ho raccolti tanti. Altro che souvenir, con tutti questi sassolini faremo un bel quadretto per ricordare la prima vacanza condivisa assieme”.

Ecco da dove provenivano, dal lungo litorale delle Marche. Erano rimasti imprigionati per un anno sotto il sedile della mia auto. Mi avevano tenuto compagnia quando ero al volante, senza lasciarmi mai solo. Quei sassolini, usciti fuori dalla tasca scucita dei miei 40 anni, non assomigliavano per niente a quelli della canzone di Jovanotti, ma avevano ricopiato gli auguri di compleanno che Luisa mi aveva lasciato dentro un mantello fatto di stelle: “40 anni, solo un anno in più ma l’animo è e sarà sempre lo stesso. Auguri a te persona unica e speciale, uomo che ti sei costruito da solo, che vivi di passioni, che combatti per ciò che vuoi, che realizzi ciò che desideri, che accogli gli altri così come sono, che fai famiglia con le persone che incontri, che rendi speciale una giornata uggiosa, che rendi una semplice passeggiata un viaggio inaspettato. Vai verso il futuro con la carica del passato e la spinta della curiosità a scoprire cosa l’avvenire ti riserverà”.

I sassolini di Luisa dell’estate scorsa calcavano il tracciato di questa mia prima estate da quarantenne, sotto il cielo della notte magica  di San Lorenzo in cui anche un sasso torna ad essere una stella cadente.

Diario di compleanno: Il bimbo “pirata” e i 50 anni della cassiera della Standa

Rosario PipoloAlla fine degli anni Settanta aprirono una piccola Standa, nel centro storico del mio paese. Mentre fuori il territorio metteva i tappi alle orecchie per non sentire i colpi roventi della criminalità di allora, io in quel supermercato capii come guidare il carrello e mi vantavo di riconoscere i prodotti della spesa di mamma attraverso i colori delle confezioni. Quando imparai a leggere, mi divertivo a decifrare le etichette ad alta voce e spesso attiravo l’attenzione di un gruppo di ragazze carine che lavoravano lì.

Ce ne era una che mi colpiva. Era spesso al reparto cosmetici. Mentre allestiva la vetrinetta, riuscivo a strapparle un sorriso. Ai tempi mi sentivo un bimbo occhialuto e per giunta “pirata”: Il Prof. Marcello Gaipa mi aveva piazzato un benda sull’occhio sinistro e quella era l’unica via di salvezza per il mio occhio pigro. Tornando alla ragazza della Standa, una volta all’uscita da scuola, la trovai alla cassa. Avevo il broncio. A scuola non avevo trovato nessuna damigella per il ballo di Carnevale. La cassiera della Standa mi chiese se avessi la fidanzata. Ed io, indicandole l’occhio bendato, le feci segno come a dire chi mi avrebbe mai preso conciato in quella maniera. Prese una manciata di caramelle e la mise nel palmo della mia mano, smaltendo tanta tenerezza in un filo di voce rassicurante: “Quando toglierai la benda, il tuo occhio guarirà e tornerai ad essere il bambino più bello del mondo”.

Le caramelle finirono e la Standa, a ridosso della vecchia piazza San Pietro, chiuse i battenti quando mi tolsero la benda. Volevo farmi vedere dalla cassiera, ma lei non c’era più. Infilando la mano nel grembiule trovai una caramella, l’ultima, che non avevo mai scartato.
Oggi la ragazza della Standa compie 50 anni. L’ho ritrovata nella notte del suo compleanno e le restituisco l’ultima caramella che ho conservato in tutti questi anni, regalandole questo aneddoto da libro Cuore. A quel tempo ero un cucciolo addomesticato, oggi sono un randagio vagabondo che però non ha mai strappato le pagine del suo diario. Non conoscevo il nome della cassiera della Standa, ma visto che a volte il destino ci mette del suo per farci ritrovare le persone che hanno sfiorato la nostra infanzia, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, posso scegliere liberamente e legittimamente come chiamarla: Buon compleanno, zia.

70 volte, papà!

70 volte, papà è il numero delle volte in cui mi sono chiesto cosa ci facesse mio padre con quella tuta addosso: per me non era l’indumento di uno caposquadra dell’Enel, quella degli anni in cui precedettero la spietata e feroce privatizzazione. Era piuttosto la divisa di un supereroe, che si arrampicava sui pali della luce come l’Uomo Ragno e toglieva migliaia e migliaia di persone dal buio come Superman.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui mio padre ha circoscritto i giri del suo tempo, della sua gioventù, in un sogno sociale per mettere in disparte l’individualismo che ci incatena e spingersi sempre nell’ottica della comunità, della terra che lo ha generato ed allevato: il suo Sud.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui ha tentato invano di raddrizzarmi, di indicarmi una strada. Eppure io raggiravo sempre l’ostacolo e mi inventavo un nuovo percorso, perché nessuno potesse mai dire “tale padre, tale figlio”.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui da figlio ha attraversato i sogni pudici degli anni ’50, da giovane le rivoluzioni mitologiche degli anni ’60, da marito gli spari silenziosi degli anni ’70, da papà i miti fasulli degli anni ’80, da lavoratore le scalate tecnologiche degli anni ’90, da pensionato le minacce global del nuovo millennio.

70 volte, papà è il numero delle pedalate in bicicletta che lo staccavano ogni mattina all’alba dalla madre Rosa, che restava lì sull’uscio della porta di casa finché non diventasse un puntino. Poi venne il giorno crudele dell’ultima pedalata e l’indomani la nonna sull’uscio di casa non c’era più.

70 volte, papà è il numero dei libri che non ha mai letto, dei film che non ha mai visto, delle canzoni che non ha mai ascoltato. L’ho fatto io al posto suo, ma da nessuna parte ho trovato la ricetta di come si riesca ad essere un buon figlio, senza finire nella trappola di riscattare ciò che i nostri genitori non sono stati.

70 volte, papà è il numero delle volte che non ho mai contato per paura di imbattermi in chi un padre non lo ha mai avuto o lo ha perso prima di potergli scrivere in bella copia un biglietto d’auguri.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui questo tempo infame vuole farci assomigliare tutti, rendendoci tutti manager dell’omologazione, schiavizzati da affannose rincorse che rischierebbero di trasformare il 20 gennaio in un giorno qualunque. No, non sarà così, nonostante gli strizzacervelli ci indichino la strada per ottimizzare i tempi, sopravvivere per obiettivi, perdendo di vista ciò che siamo e saremo ogni volta che scriveremo da qualche parte “70 volte, papà”.

70 volte, papà con una bomboletta spray sulla parete della nostra stanza più segreta, per disegnare un murales dai colori tenui come le 70 candeline che spegnerà mio padre oggi, nel giorno del suo settantesimo compleanno.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=Q29YR5-t3gg]

Ecco il 2011: il mio Capodanno con il bimbo lottatore per la vita

Botti, spumante, euforia, brindisi, abbracci e baci per dare il benvenuto all’anno nuovo. Come sarà il 2011? E chi lo sa, mica noi blogger abbiamo la sfera magica.
Io voglio muovere i primi passi in questo nuovo anno assieme ai “lottatori per la vita”. Sono essere minuscoli che, dentro o fuori il grembo materno, combattono a denti stretti per restare qui con noi. Il miracolo della vita è qualcosa di incredibile e me lo sta ricordando un essere piccino piccino che in questo momento è in un’incubatrice. Lui sta lottando perché quel micro spazio diventi una culla. Voglio condividere con lui questo passaggio. Il mio sguardo si appanna sullo scivolo del Capodanno. I suoi occhietti semichiusi sono rivolti al soffitto di chissà quale ospedale, di chissà quale nido, mentre un filo di latte lo alimenta goccia dopo goccia. Lui non sa chi sono io e nemmeno io conosco il suo nome.
Attraverserò in silenzio tutte le corsie degli ospedali italiani per scovare quei bimbi come lui che non mollano la presa. Voglio festeggiare il Capodanno con tutti loro, perché appena nati sono stati capaci di darmi una gran bella lezione: resistere. Non ci sono avari sorpassi sociali, lavorativi, economici che tengano a confronto del miracolo della vita. Correndo correndo non ne abbiamo più tenuto conto.
Voglio resistere al tuo fianco, piccolo bimbo, affinché il miracolo della vita trasformi quell’incubatrice in una splendida culla. Buon Anno e tieni stretto il tuo orsacchiotto!

Diario di un blogger attraverso il 2010

Quando un altro anno se ne va via, un blogger ha un vantaggio dalla sua parte: un diario bello e fatto da poter sfogliare per ripercorrere a modo suo questo 2010. La scrittura è sempre farcita di emotività e di vita quotidiana, ma mi pare l’occasione per rivivere gli ultimi 12 mesi dell’anno.
Ricorderemo il 2010 per quella diavoleria tecnologica dell’iPad , ma anche per l’euforia di Facebook che a volte è diventata isterismo da “sindrome del mi piace”, onirico desiderio di calunniare, tenera strategia per corteggiare una donzella  o per festeggiare San Valentino . Le pagine del diario privato hanno preso il sopravvento nel calore della sciarpa di Antonia, nel disegno del dolcissimo Carmine, nei micro viaggi nei miei luoghi natali, in un racconto d’estate a puntate  o su un block-notes dopo la mia estate in Corsica. L’attualità mi ha ricordato la turbolenza della Fiat di Pomigliano , l’uccisione del Sindaco-pescatore, la guerra della monnezza a Terzigno  o la protesta degli studenti a Roma. Le buone o le cattive abitudini (dipende dai punti di vista!) mi hanno riportato nei matrimoni del Sud tra le bustarelle e le reunion familiari.
E poi ancora la delusione per l’uscita degli azzurri dai Mondiali, l’urlo dei ricordi per la Spagna campione del mondo, il sapore dello gnocco fritto di Ciano a Sabbioneta, Calabria on my mind, ed io autista per un giorno a Brescia.
Mi mancheranno tre volti noti che se ne sono andati nel 2010: Sandra Mondaini, Mario Monicelli e Enzo Bearzot.
Devo eleggere una persona dell’anno, rovistando tra i miei post? E’  Simona, l’educatrice tenace dei Quartieri Spagnoli di Napoli.  Con lei e con te, caro lettore, ho attraversato il 2010 e sono pronto per condividere  anche “l’anno che verrà”. Cin cin…