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Perché non faccio più gli auguri di compleanno via Facebook

Rosario PipoloDa qualche mese appena apro la mia pagina Facebook ecco che spunta il solito promemoria: ti sei ricordato di fare gli auguri di compleanno ai tuoi amici? Devo ammettere che fino all’estate scorsa ero divenuto così abitudinario a farli a destra e a sinistra, che ci pensavo a prima mattina. Mi sono però sempre rifiutato di usare quel tipo di diavolerie a forma di app che inviano gli “Happy Birthday” al tuo posto.

Al ritorno dalle vacanze, mi sono soffermato ad osservare migliaia di auguri in formato social che rimbalzavano da una bacheca all’altra e mi sono detto: quanto tempo è che non sento più a telefono le persone a cui tengo davvero per gli auguri? Mi sono ricordato addirittura che, negli anni dell’adolescenza, scarabocchiavo auguri personalizzati su biglietti preparati da me, saltavo sulla mia vespa rossa e li andavo ad imbucare personalmente.

Insomma, il calendario di Facebook mi ha fatto da promemoria per evitare figuracce con la community a cui appartengo, ma allo stesso tempo ha svuotato un gesto significativo della mia quotidianità. I guru dei social network sostengono che augurare buon compleanno su Facebook migliori la propria reputazione social nella centrifuga infernale del virtuale. Aggiungerei però che deteriora anche l’essenziale e mischia in un unico calderone alcuni legami che ci circondano.
Me lo ha confermato una telefonata recente del mio amico di infanzia Antonio. Ci siamo sentiti per gli auguri, ma poi parlottando a telefono siamo finiti a condividere memoria e quotidianità, l’essenziale agli occhi di un augurio speciale. Torno a riprendermeli, spalancando la finestra e alzando la cornetta del telefono: “Pronto, sono Rosario. Buon compleanno…”

40 anni di sogni da vagabondo

Io e mia sorella Rossella nei primi anni '80

A modo mio lo farò in questo giorno che non assomiglia a nessun altro. Forse solo a quello in cui soffiai su una barchetta di carta e la feci andare a largo, appesantendola con i sogni di un bimbo occhialuto. 40 anni di sogni da vagabondo, duellando con il destino che mi voleva ragazzo rammollito di periferia nella landa della provincia, che predilige il vivere per apparire, lungo gli argini della desolazione dei ruoli sociali.

I parenti mi hanno insegnato che i legami e gli affetti non si sottoscrivono all’ufficio anagrafe, ma negli incontri casuali lungo la strada della vita. Perciò non si può restare nello stesso posto. Quello che per gli altri sarebbe stato un privilegio, per me sarebbe stata la peggior condanna che possa accadere ad uno zingaro felice.

Gli angeli, che da bambio incantato osservavo affrescati sulle pareti, mi hanno insegnato che non hanno le ali, non volano in alto, camminano nel basso, ci restano accanto e sono coloro a cui spesso neghiamo l’attenzione. Perciò si deve sempre “restare con i piedi per terra”.

I ribelli mi hanno insegnato che la sottomissione è dei vili e che dobbiamo tirar fuori l’urlo rabbioso affinché il prossimo istante sia migliore dell’utopia stretta al cuore.

I viaggi mi hanno insegnato che tutto cambia al momento del ritorno, che la diversità è una ricchezza immensa per andare incontro ad un giorno nuovo e che il significato del tragitto è più importante della meta stessa.

I sogni mi hanno insegnato che sanno essere leggeri come i palloncini colorati in volo e consistenti come le emozioni che danno un valore aggiunto alla vita.

I soldati e i civili morti in guerra mi hanno insegnato che Dio, nel tardo pomeriggio, gira le spalle agli altari e va ad appisolarsi in cima alle montagne, tra le trincee. Lì l’ho visto la prima volta con i miei occhi.

L’uomo in croce mi ha insegnato che donare la vita al prossimo può redimere il peggior farabutto pochi istanti prima che tutto sia finito.

Gli amici mi hanno insegnato che non sono fatti su misura per tutte le stagioni della vita. I cambiamenti spazzano via i recinti ed incidono sul bisogno di legami diversi, più acuti e profondi.

I borghesi piccoli piccoli mi hanno insegnato ad accelerare la fuga dalla famigliola alla Mulino Bianco, profumata negli spot pubblicitari, ma puzzolente e fradicia nello scorrere dell’insignificante routine.

I morti mi hanno insegnato che non se ne vanno via, ma ci restano accanto. I fantasmi non esistono, sono le proiezioni delle nostre coscienze indifese. Al contrario le persone che abbiamo amato continuano ad esistere in ogni piccolo gesto che maschera il ghigno della memoria e svela il segreto del nostro destino.

La musica ha sottratto la sordità al mio udito; il teatro ha fatto sì che il legno del palcoscenico fosse la quercia attraverso cui piantare le mie radici; il cinema ha cancellato la cecità della mia coscienza civile.

Il lavoro mi ha insegnato che a spuntarla è colui che non accartoccia la propria essenze e non tradisce mai le proprie passioni.

L’amore mi ha insegnato che non sono le distanze anagrafiche a separare, ma le barriere culturali e sociali. Non bisogna mollare o ripiegare, perché esiste una sola strada per i sentimenti: quella che, attraverso il cuore, conduce alla felicità in uno scintillio che spalanca lo sguardo dell’altro sulla condivisione.

Oggi, 17 luglio 2013, sono arrivato in cima alla montagna, a modo mio. Il sentiero non mi è stato indicato dai “maestri santoni”, ma dalla quotidianità. E da questa posizione guardo sospeso 40 anni di sogni da vagabondo. Li ho vissuti istante dopo istante e provo lo stupore di chi ha dato finalmente un nome allo spettacolo più incredibile dell’universo: la vita. 

E la mia ha 40 anni.

Diario di compleanno: Il bimbo “pirata” e i 50 anni della cassiera della Standa

Rosario PipoloAlla fine degli anni Settanta aprirono una piccola Standa, nel centro storico del mio paese. Mentre fuori il territorio metteva i tappi alle orecchie per non sentire i colpi roventi della criminalità di allora, io in quel supermercato capii come guidare il carrello e mi vantavo di riconoscere i prodotti della spesa di mamma attraverso i colori delle confezioni. Quando imparai a leggere, mi divertivo a decifrare le etichette ad alta voce e spesso attiravo l’attenzione di un gruppo di ragazze carine che lavoravano lì.

Ce ne era una che mi colpiva. Era spesso al reparto cosmetici. Mentre allestiva la vetrinetta, riuscivo a strapparle un sorriso. Ai tempi mi sentivo un bimbo occhialuto e per giunta “pirata”: Il Prof. Marcello Gaipa mi aveva piazzato un benda sull’occhio sinistro e quella era l’unica via di salvezza per il mio occhio pigro. Tornando alla ragazza della Standa, una volta all’uscita da scuola, la trovai alla cassa. Avevo il broncio. A scuola non avevo trovato nessuna damigella per il ballo di Carnevale. La cassiera della Standa mi chiese se avessi la fidanzata. Ed io, indicandole l’occhio bendato, le feci segno come a dire chi mi avrebbe mai preso conciato in quella maniera. Prese una manciata di caramelle e la mise nel palmo della mia mano, smaltendo tanta tenerezza in un filo di voce rassicurante: “Quando toglierai la benda, il tuo occhio guarirà e tornerai ad essere il bambino più bello del mondo”.

Le caramelle finirono e la Standa, a ridosso della vecchia piazza San Pietro, chiuse i battenti quando mi tolsero la benda. Volevo farmi vedere dalla cassiera, ma lei non c’era più. Infilando la mano nel grembiule trovai una caramella, l’ultima, che non avevo mai scartato.
Oggi la ragazza della Standa compie 50 anni. L’ho ritrovata nella notte del suo compleanno e le restituisco l’ultima caramella che ho conservato in tutti questi anni, regalandole questo aneddoto da libro Cuore. A quel tempo ero un cucciolo addomesticato, oggi sono un randagio vagabondo che però non ha mai strappato le pagine del suo diario. Non conoscevo il nome della cassiera della Standa, ma visto che a volte il destino ci mette del suo per farci ritrovare le persone che hanno sfiorato la nostra infanzia, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, posso scegliere liberamente e legittimamente come chiamarla: Buon compleanno, zia.

50 anni di Rolling Stones: da un’audiocassetta al concertone con 15 euro!

Negli anni ’60 o stavi con i Beatles o con i Rolling Stones. Non esistono le mezze stagioni, nella musica come nella vita. Per la mia generazione è stato diverso. I Beatles si erano sciolti da un bel pezzo, mentre Mick Jagger e compagni con alti bassi continuavano a darci dentro, anche in maniera pesante.
I Rolling Stones festeggiano 50 anni in questo afoso 12 luglio. Per me questo non è il solito anniversario nostalgico, annacquato dal marketing della discografia musicale, ma la solita scusa per propagandare che certi brani balzano di striscio nella nostra vita e ci cambiano dentro.

Ho conosciuto gli Stones attraverso un’audiocassetta Maxell 60 che mi fece ascoltare Bob Bridger nel 1988. Succedeva proprio in questi giorni: era il mio primo viaggio in Inghilterra, a Ramsgate nel Kent. Sul lato A c’erano i Beatles e su lato B gli Stones. Ero un adolescente irrequieto e romantico, mi attaccai alla gonnella delle canzoni dei baronetti di Liverpool. Eppure Mick Jagger e compagni non mollarono mai la presa, me li ritrovavo sempre, soprattutto quelli degli anni ’70, che nel mio ciclo universitario fecero da scudo a chi invece, tifando per il rock grezzo e potete del Vasco di Zocca, diceva che le canzoni andavano ascoltate in italiano.
Cavolo, figurati se uno studente come me di Lingue Straniere si sarebbe sottomesso ai ricatti linguistici. Io la pensavo in tutt’altro modo: anche se non conoscevi l’inglese, certe canzoni aggressive dei Rolling Stones si scioglievano dentro di noi come l’acido. Per loro rischiai l’ultimo esame di Inglese all’Università: dinanzi ad una mini partitura tra le prime pagine dell’Ulisse di Joyce, me ne uscii con questa affermazione: “Se Joyce fosse venuto parecchi decenni dopo, forse qui ci avrebbe piazzato una canzone dei Rolling Stones per esprimere lo smarrimento di Leopold”.

Forse il prof. fece finta di non sentire e non mi buttò fuori dall’aula. Quando li ho visti dal vivo a Milano l’11 luglio del 2006, acquistando il biglietto a 15 euro e beffeggiando chi voleva far passare la musica live come roba da ricchi – scrissi alla fine della recensione: “Fuochi d’artificio, lapilli di luce, schegge irrazionali per dirci che l’incantesimo è finito, che per una volta ci siamo sentiti invincibili perché abbiamo varcato la soglia dell’eternità. E se questo è stato un sogno, un sogno collettivo adesso appartiene a tutti. Teniamocelo stretto”. Mezzo secolo ce lo siamo fatto scivolare dalle dita con errori e mostruosità. I sogni e le canzoni però teniamoceli stretti e non solo nel giorno di un compleanno.

Cartolina dal Sud: Alla mia prof per i suoi 50 anni

L’ho vista scarabocchiare in una piccola stanza di un paese di periferia. La mamma accompagnò la sua mano e così quei buffi segni diventarono una “B” gigante, iniziale del suo nome.
L’ho vista mano nella mano con il papà mentre si chiudeva il passaggio a livello. E lui le disse: “La vedi questa piccola stazione? Non è mia, è di tutti. Ricordati sempre di lottare per ciò che è di tutti”. E poi fischiò e quel treno partì con lo sguardo rivolto verso il Vesuvio.
L’ho vista che si prendeva cura dei due fratelli. Quel giorno ci fu un temporale. Loro si spaventarono. Lei afferrò lo scialle della nonna e li avvolse come se fosse stata una giornata di sole.
Mentre Renato Zero cantava lo splendore delle emozioni, l’ho vista raggomitolata tra i sogni di una liceale e il peso di quei dizionari, riflettendo sulle radici e sulla memoria che sprofondavano fino all’alba di civiltà lontane.

L’ho vista sgomenta, nel mezzo degli anni ’70, mentre alle falde del Vulcano il Professore assassino spargeva sangue ovunque, senza sapere che “le idee sono come il sorriso di Dio in questo sputo di universo”.
L’ho vista in quella manifestazione in cui distribuivano tra uomini e donne garofani rossi. In quel fiore c’era il sogno di un mondo migliore, più giusto. Lei ne impugnò uno e, alzandolo al cielo, si ricordò delle parole di suo padre: “Difendi i più deboli, anche se resterai da sola”.
L’ho vista spaesata correre per il Rettifilo a Napoli, sulla strada verso l’Università, ma così determinata a trasformare lo studio in passione, nel riscatto della volgarità umana.

L’ho vista correre giù per le scale appena lui le fece un fischio. La portò a fare una passeggiata a San Marzano e le offri un’aranciata. Poi staccò il cerchietto della lattina e glielo infilò al dito. Le diede un bacio e le sussurrò: “Vedrai un giorno diventerò ingegnere e disegnerò io stesso la casa in cui vivremo con la nostra famiglia”.
L’ho vista in cattedra in quel liceo a difendere la Scuola Pubblica e a consegnare la dignità ad ogni studente. Dietro uno di quei banchi c’ero anche io.

Ho trovato un dono nel fazzoletto di questa terra, il mio Sud: la mia professoressa di Greco e Latino che è scesa dalla cattedra e per vent’anni ha custodito, senza giudicarlo, un suo alunno, forse il peggiore, quello segnato da un “5” in Greco nel primo quadrimestre a ridosso della Maturità. Man mano che si cresce non c’è più nessuno che si preoccupa per te. Lei per vent’anni si è preoccupata di me, ovunque io fossi, in qualsiasi angolo della terra. Mi ha lasciato un grande insegnamento: non avere mai paura di ammettere di amare, perché solo l’amore rende gli uomini liberi dalle brutture della vita e li allontana dalle vigliaccherie.  Prima di ripartire, mi ha lasciato l’ennesimo dono: “Noi qui siamo sempre gli stessi. Torno quando vuoi. Va’ e non accontentarti”.

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L’extra-terrestre e i 18 anni di una principessa umana

Qui, sulla faccia della terra, mi hanno scambiato per un clown. In realtà sono un marziano. Diciotto anni fa mi convocarono e mi dissero: “Prepara la valigia. Ti hanno già fatto il biglietto per andare sulla terra, in un piccolo paesino nel sud di uno stivaletto su una sfera”. Io a dire il vero non ci stavo capendo più niente. E come erano insistenti. Volevano farmi diventare il marziano custode di una bimba appena nata. Mi chiedevo: Non c’erano gli angeli a svolgere queste mansioni? Mi risposero: “Gli angeli custodi a volte sanno essere scontati e noiosi. Chi meglio di un extra-terrestre come te può custodire Annagioia? Entrerai in quella casa travestito da animatore e ci resterai fino ai prossimi 18 anni.” E così accadde.

Il 16 marzo del 1994 mi trovai ad alloggiare nel corpo di un ragazzo ventenne. Non mi sentivo a mio agio in quella carcassa, con i capelli lunghi e un paio di occhiali tondi. Nessuno mi riconobbe. Tuttu mi scambiavano per un clown buffo che sapeva soltanto far divertire. Che strani erano gli umani: ti etichettavano tra le sbarre della prigione del vivere per apparire.

Crescendo, soltanto lei mi disse in un pomeriggio d’estate: “Tu sei diverso, non sei come gli altri”. Allora mi resi conto che mi aveva riconosciuto. Poi mi guardò fisso e aggiunse: “Alla mia festa dei 18 anni, dopo mio padre, voglio ballare un lento con te”. Non sapevo che gli umani festeggiassero la maggiore età. Man mano che volavano gli anni, notavo i suoi cambiamenti. Era diventata una donna, una principessa. Mi faceva effetto. Sul mio pianeta il corpo non ha sostanza, ha consistenza l’interiorità, perché non ci sono le sbarre delle distanze temporali e anagrafiche.

Il fatidico giorno è arrivato, è il suo diciottesimo compleanno. Oggi non posso essere alla sua festa, perchè dal mio pianeta mi hanno tirato una gran bella fregatura. Tornerò ad essere un marziano prima che lei soffi le candeline. Lascerò il mio corpo da umano per fare ritorno nella mia terra dei sognatori, lì dove non esistono ipocrisie, guerre, cattiveria, meschinità. Vorrei portarla via con me, ma non posso.

Posso solo ringraziare Annagioia, perchè i suoi 18 anni hanno dato un volto umano alla mia vita da extra-terrestre su questo strano pianeta. E in questa notte soffierò forte su una sua foto, una delle poche che ci ritrae assieme. Così voleremo nelle galassie lontane per l’eternità e diventeremo in questo 16 marzo l’extra-terrestre e la sua principessa, liberi in una danza infinita tra le stelle brillanti.

Happy Birthday, Radio DeeJay: Che “cacarella” sotto quella notte…

Mia madre era seriamente preoccupata nel 1983. Andò dalla maestra Iole e le confessò le mie stranezze, perlomeno per un bambino di dieci anni. Appena tornato da scuola, mi fiondavo davanti al televisore a guardare i video musicali, proposti da DeeJay Television su Italia 1. Niente cartoni animati insomma, se non quelli infiltrati in sequenze epocali come The Wall dei Pink Floyd. Al mondo di Radio DeeJay ci sono arrivato per vie traverse, infilandomi nel tubo catodico.

Radio DeeJay festeggia oggi 30 anni: e chi lo immaginava che mi sarei ritrovato al brindisi per la mega festa al Forum di Assago con Linus, Albertino, Jovanotti, Fiorello, Gerry Scotti, Claudio Cecchetto e tanti altri. C’è un episodio bizzarro che mi riporta dalle parti di Linus & compagnia bella e ancora mi fa venire la “cacarella” sotto.
Nella prima metà degli anni Novanta finii, alla guida della mia Panda, in una via desolata alla periferia di Napoli. Mi ero perso e non sapevo più come venirne fuori. Niente navigatore, niente cellulare.

Ero sintonizzato su Radio DeeJay. Poco distante mi accorsi che si era appostata un’altra auto. Ebbi paura. Alzai il volume dell’autoradio al massimo, sperando che qualcuno mi notasse. Il tizio uscì dalla macchina e si accostò: “Ehi, anche tu di notte su Radio DeeJay? Hai alzato il volume e pensavo ti servisse aiuto”. Scoppiai a ridere e gli confessai che me la stavo facendo addosso dalla paura, perché temevo volesse rapinarmi. Insomma, in mezzo ad una campagna sperduta, alzo il volume dell’autoradio per difendermi e guarda chi spunta: un fan scatenato di Radio DeeJay. Mi mostrò l’adesivo appiccicato sul cruscotto che gli era arrivato da Milano poco tempo prima.

Ai tempi leggevo sporadicamente Dylan Dog e forse le troppe storie dell’indagatore dell’incubo mi avevano dato alla testa. Tuttavia, penso pure che Radio DeeJay mi abbia sottratto agli incubi nostalgici, senza farmi perdere la rotta del mio presente, quello che va oltre una semplice canzone e si svela dietro l’energia di un disc jokey. Per questo le devo qualcosa!

 Buon compleanno, Radio Deejay!

70 volte, papà!

70 volte, papà è il numero delle volte in cui mi sono chiesto cosa ci facesse mio padre con quella tuta addosso: per me non era l’indumento di uno caposquadra dell’Enel, quella degli anni in cui precedettero la spietata e feroce privatizzazione. Era piuttosto la divisa di un supereroe, che si arrampicava sui pali della luce come l’Uomo Ragno e toglieva migliaia e migliaia di persone dal buio come Superman.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui mio padre ha circoscritto i giri del suo tempo, della sua gioventù, in un sogno sociale per mettere in disparte l’individualismo che ci incatena e spingersi sempre nell’ottica della comunità, della terra che lo ha generato ed allevato: il suo Sud.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui ha tentato invano di raddrizzarmi, di indicarmi una strada. Eppure io raggiravo sempre l’ostacolo e mi inventavo un nuovo percorso, perché nessuno potesse mai dire “tale padre, tale figlio”.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui da figlio ha attraversato i sogni pudici degli anni ’50, da giovane le rivoluzioni mitologiche degli anni ’60, da marito gli spari silenziosi degli anni ’70, da papà i miti fasulli degli anni ’80, da lavoratore le scalate tecnologiche degli anni ’90, da pensionato le minacce global del nuovo millennio.

70 volte, papà è il numero delle pedalate in bicicletta che lo staccavano ogni mattina all’alba dalla madre Rosa, che restava lì sull’uscio della porta di casa finché non diventasse un puntino. Poi venne il giorno crudele dell’ultima pedalata e l’indomani la nonna sull’uscio di casa non c’era più.

70 volte, papà è il numero dei libri che non ha mai letto, dei film che non ha mai visto, delle canzoni che non ha mai ascoltato. L’ho fatto io al posto suo, ma da nessuna parte ho trovato la ricetta di come si riesca ad essere un buon figlio, senza finire nella trappola di riscattare ciò che i nostri genitori non sono stati.

70 volte, papà è il numero delle volte che non ho mai contato per paura di imbattermi in chi un padre non lo ha mai avuto o lo ha perso prima di potergli scrivere in bella copia un biglietto d’auguri.

70 volte, papà è il numero delle volte in cui questo tempo infame vuole farci assomigliare tutti, rendendoci tutti manager dell’omologazione, schiavizzati da affannose rincorse che rischierebbero di trasformare il 20 gennaio in un giorno qualunque. No, non sarà così, nonostante gli strizzacervelli ci indichino la strada per ottimizzare i tempi, sopravvivere per obiettivi, perdendo di vista ciò che siamo e saremo ogni volta che scriveremo da qualche parte “70 volte, papà”.

70 volte, papà con una bomboletta spray sulla parete della nostra stanza più segreta, per disegnare un murales dai colori tenui come le 70 candeline che spegnerà mio padre oggi, nel giorno del suo settantesimo compleanno.

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Colazione da Tiffany 50 anni dopo: Paul le scrive parole d’amore sull’iPad e Holly canta “Moon River” su Facebook!

Al di là delle celebrazioni che lasciano il tempo che trovano, i 50 anni del film “Colazione da Tiffany” di Blake Edwards stanno spopolando su i social network. A fare tanto rumore non è il restauro della famosa pellicola con la raggiante Audrey Hepburn e lo scanzonato George Peppard. Più o meno è la voglia di intrufolarsi tra le pagine del romanzo di Capote. Persino le ragazzine di ultima generazione sognano di assomigliare ad Holly.

Tuttavia, un modo originale per spegnere queste 50 candeline, potrebbe essere riadattare “Colazione da Tiffany” ai tempi nostri, nelle ore in cui l’Italia è allo sbando su tutti i fronti e si trova per giunta senza un Governo. Lo scrittore è lì che cuce pensieri e parole sul touchscreen del suo iPad e Holly non sente più il tic tac dei tasti della macchina da scrivere. Non sapendo che lui è a pochi metri, accende il PC e lancia sulla bacheca di Facebook la melodia di “Moon River”. Paul non vede il video, esce di casa e dimentica l’ombrello. Holly sbuffa, non resiste, sbatte la porta e girovaga nella notte.

Mentre il diluvio ricopre Genova di fango, Paul e Holly si incrociano sotto un acquazzone. Non si tratta di New York, ma dell’ennesimo paesotto di periferia, che fa da sfondo ad un lungo bacio tra i due, dopo che Holly si é lasciata alle spalle dubbi, delusioni, dolori. Il miagolio di un gattino ricorda a Paul che è il 9 novembre. Mette le mani in tasca, ma gli ultimi soldi sono diventati carta straccia dopo la chiusura della Banca d’Italia. Sul ciglio della strada si ferma in una bijoutteria, che di “Tiffany” non ha un bel niente. Baratta il suo iPad per una collanina di perline. La mette al collo di Holly e le sussurra: “Buon compleanno tesoro, oggi in due festeggiamo cinquant’anni”.

Hollywood non fabbrica più sogni così come quest’Italia cinica e cialtrona, che li ha chiusi a chiave in un cassetto. Allora ce li costruiamo noi, impugnandoli per restituire consistenza ai sentimenti. Perciò nella notte del 9 novembre prossimo non ci sarà un party, i soliti dolcetti e una torta gigante. Da qualche parte ci sveglieranno dal sonno i passi di un uomo e una donna, mano nella mano tra cinquanta candeline. E sarà “Colazione da Tiffany” come la prima volta, tra il ticchettio della macchina da scrivere di Paul e la voce di Holly che canta “Moon River”.

Festa di compleanno: pago io o il festeggiato? Paghiamo noi, punto.

Una quindicina di anni fa il mio caro amico Armando, persona pacata e a modo, fu travolto da una crisi di nervi: prese a calci la ruota di un’auto parcheggiata nel centro di Napoli. Motivo? Lo avevano invitato ad una cena di compleanno e davanti al conto gli chiesero di pagare la sua parte. Il povero Armando non sapeva di questa nuova usanza e rimase come un pesce lesso. Anzi, si beccò pure il rimprovero: “Guarda che in Padania si usa così. Prendiamo il buon esempio”.

Oggi è nella norma. Sbuca l’invito per il compleanno e sei pronto a tirar fuori la doppia quota: regalo e festa, con l’augurio che il festeggiato porti almeno torta e spumante. Ci piaccia o no, anche il giorno del nostro compleanno è diventato un business. E qui la riflessione non nasce sul taglio da 10 euro per un aperitivo in compagnia, ma per quelli che oscillano tra i 25 e 50 euro. Facebook ha reso tutto più easy per gli organizzatori: ti trovi l’invito di sconosciuti che organizzano la festicciola a sorpresa dell’amico in comune. Ed io chiedo: “Come pago con carta prepagata o con PayPal? Verso direttamente sul conto del festeggiato?”.

Che “fessi” noi terroni: ci sbattevamo per organizzare un party dignitoso a nostre spese. E poi ci sono modi e modi. No Money, no Party. Restringiamo gli inviti o improvvisiamo qualcosa a casa. Dopo la bustarella al matrimonio, questa è un’altra tendenza fastidiosa. Mi sa che dopo questo appunto rischio di brutto: nessuno mi inviterà più alla festa di compleanno.

Pazienza, vuol dire che me ne rimane una sola, quella a cui parteciperò nel 2012 nel mio Sud. La mamma della festeggiata, a cui sono particolarmente legato, mi ha confessato l’estate scorsa: “Abbiamo rivisto il budget familiare. L’anno prossimo ci teniamo a farle la festa, senza seguire le regole dell’apparire, ma quelle che ci permettono di condividere questo giorno speciale con chi veramente ci appartiene”. E forse dovremmo sforzarsi di restituire al giorno della nostra nascita il valore che merita e non sprecarlo con il primo che capita.

  Matrimonio alla napoletana: o la busta o non mi sposo!