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Gallarate: la sicurezza in strada fa la dignità del cittadino

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Rosario PipoloIn un bar di Gallarate, in provincia di Varese, raccontavano che il papà di Valentino passava lì tutte le mattine a prendere le brioche. Di rado c’era anche il figlio e mi viene il dubbio di averlo incrociato qualche mattina. Da oggi Valentino non farà più colazione nel piccolo bar del varesotto, perchè ieri mattina è stato travolto da un autoarticolato con la sua bicicletta e ci ha rimesso la vita.

Questo potrebbe essere uno tra i tanti e dolorosi ritagli di cronaca che riguarda da vicino chi si muove in bici nel nostro Paese. In un report del 2012, l’ACI aveva rilevato 15.100 ciclisti feriti e 166 morti in ambito urbano, un dato che ci fa dubitare seriamente della sicurezza stradale, che tra l’altro mette a repentaglio la vita degli amanti delle pedalate.
La rotonda a Gallarate, quella della lunga e trafficata via Torino dove ha perso la vita il giovane di 27 anni, negli ultimi anni è stata teatro di tanti incidenti e sciagure.

Per giunta qui di mezzo ci sono gli autoarticolati che ogni santo giorno sfrecciano a velocità insensata verso la famosa superstrada di Malpensa, dimenticandosi di essere in un centro urbano. In orario mattutino ho visto sulle strisce pedonali accanto a questo maledetto rondò pedoni prendersi un bel vaffa dagli autotrasportatori furiosi, sgarbati e maleducati. Non sono più disposti neanche a perdere qualche secondo in più per concedere il legittimo “lascia passare”? Figuriamoci poi per un ciclista, che viene continuamente maledetto.

La sicurezza in strada fa la dignità del cittadino e ogni comune ha il diritto di farsi in quattro per garantirla. Dopo gli accertamenti delle forze dell’ordine, la triste vicenda di Valentino avrà il suo finale, ma ogn cittadino che si rispetti non vuole chiedersi più chi sarà la prossima vittima di quel rondò.
Ho sostituito la foto da cronaca del rottame a due ruote con questo mio scatto di sabato scorso. Forse proprio tra questi alberi tinti d’autunno pochi di noi si sono accorti delle ultime pedalate felici e scanzonate di Valentino.

Mi sentivo bresciano con i cornetti di “Frank” alla Mandolossa

Rosario PipoloI veri viaggiatori esplorano anche le periferie. Così una notte di tanti anni fa mio cugino mi fece scoprire un posticino fuori dal centro di Brescia dove poter mangiare cornetti, brioche e pizzette  a tutte le ore della notte.
Il gestore Francesco Seramondi, l’uomo freddato da due killer insieme alla moglie ieri mattina nella famosa cornetteria e pizzetteria della Mandolossa al numero 27 di via Vallecamonica, era conosciuto da tutti come “Frank”.

Lì, in mezzo al degrado della periferia bresciana, era Frank il “Re della Notte” e per i ragazzi era un punto di riferimento come il mitico locale Arnold nella serie televisiva Happy Days. La prima volta che ci capitai, Frank capì subito che ero originario del Sud. Attaccai bottone.
Mentre mi rimpinzavo di cornetti e pizzette in piena notte, il gestore esprimeva la simpatia per noi napoletani. Amava ripetere che avevamo una marcia in più e rideva ripensando ai cartelli sparsi sul territorio che, nella metà degli anni ’80, recitavano sgarbatamente: “Non si affittano case ai napoletani”. Prima che andassi via, lanciò un paio di monete nella macchinetta e disse: “Il caffè tocca a me”.

Da allora tutte le volte che ero in zona e a stomaco vuoto, chiedevo a mio cugino di portarmi da Frank. Quando Seramondi scoprì che ero un giornalista, tirò fuori una raccolta di ritagli di giornale dedicati a lui e alle sue ghiottonerie. Ne andava fiero.
Con una punta di ironia diceva che le sue brioche piacevano a tutti, anche “alle battone”. Una volta, dovendo prendere l’aereo all’aba da Orio al Serio, mi regalò un paio di brioche calde da portare in viaggio.

Frank era generoso, a chi aveva fame e tasche vuote non negava mai un cornetto e una pizzetta. Francesco Seramondi sapeva che prima o poi gli avrei dedicato un articolo, ma io non avrei mai immaginato di doverlo fare in questa triste e tragica circostanza. Adesso chi lo dice ai bresciani al ritorno dalle vacanze che il vecchio Frank, il re dei cornetti di Brescia e provincia, non c’è più?

Oggi anche io ho il diritto e il dovere di urlare #MéSoFrank, l’hashtag a lui dedicato dal popolo dei social network che chiede una Brescia più sicura.

Benedetto, angelo nella mia vita caduto in volo

Rosario PipoloLe penne dei miei colleghi colano inchiostro avido di notiziabilità tra ritagli di giornale, bagnati di lacrime dopo la tragedia consumata. Del fatto di cronaca con il tempo resterà solo lo spettro agghiacciante della lanterna volante, luminosa come il cuore di un giovane di periferia, il piccolo guerriero che aveva fatto della generosità l’arma per affrontare la vita.

La mia penna ha trattenuto l’inchiostro nelle ultime ventiquattro ore, affinché le lacrime non offuscassero la memoria in questa Milano, che ha visto piegarmi in due alla fermata del tram: è lì che si sono spaccati a metà i miei  40 anni.

Nella prima parte ho cercato di capire come questo angelo fosse capitato nella mia vita. Era scritto nel destino della terra sotto i piedi: i nostri nonni erano legati da un’antica amicizia, capace di trasformare una masseria in un cantiere di sogni futuri dal sapore contadino. E poi fu il tempo di vederlo crescere nel pancione della mamma; e poi arrivò la volta che lo reclutai per fare il pastorello in un presepe vivente inscenato da me e abitato da soli bambini.
Rosa, la sorella più grandicella, gli bisbigliava all’orecchio: “Mi raccomando, questa è una cosa seria. Siamo in un presepe”. Benedetto, faccia d’angelo, le diede retta. Rimase composto per tutta la rappresentazione.

Nella seconda parte dei miei 40 anni mi sono ritrovato un angelo cresciuto, assiduo mio lettore, che aveva fatto di tutto per regalare al papà il mio romanzo. Colse tante sfumature in quella lettura tanto che, alcuni mesi fa, in piena notte, gli mandai una vecchia foto scovata nel mio archivio.
Lo scatto ritraeva la sorellina Amalia tenuta per mano dalla cugina più grande, che fu l’amore della mia vita. Fu proprio il volto di Amalia la piccola – chiamata così in famiglia per distinguerla dalle omonime e dall’affettuosa capostipite nonna Amalia – ad ispirarmi la sagoma e le movenze di Giulia, il personaggio piccino del mio racconto.

Nel legame ritrovato con questo angelo abbiamo condiviso la passione per la vita e per il viaggio, opportunità di crescita e di cambiamento; le confidenze di un tempo che ormai sembrava lontano; le scorribande sulla mia vespa rossa messe a confronto con la sua moto da sogno; il sentimentalismo che ci accomunava, indicatore della traiettoria per cui l’amore davvero può fare cose grandi.

Oggi il mio angelo caduto in volo mi riporta a prendere per mano la mia piccola donna di allora, a tenerla stretta a me per condividere questo dolore comune, proiettandolo nella reciprocità del nostro amore riflesso in quello che continueremo a provare per lui p>

Ora posso dichiararlo pubblicamente, perché a 40 anni non si può essere vigliacchi con i sentimenti. L’angelo caduto in volo è mio cugino. Buon viaggio, Benedetto.

Dopo la morte del sindaco di Cardano Laura Prati non mi sento più “straniero”


Rosario PipoloLa notizia della scomparsa di Laura Prati, il sindaco di Cardano al Campo aggredito lo scorso 2 luglio dal vigile sospeso dal servizio, ha fatto uno strano effetto sulla pelle degli stranieri del territorio. Per “stranieri” intendo tutti coloro che non sono nati o cresciuti in questa zolla del varesotto, ma ci sono capitati successivamente. Mi ci metto pure io. Del resto fino ad un paio di settimane fa per me Cardano era il paesotto dove alcuni agenti immobiliari avrebbero voluto convincermi a prendere a casa o il posto dove si era spenta la mia adorata Mimì, Mia Martini.

L’effetto di cui accennavo all’inizio è quello di una rabbia straripante, che dovrebbe diffondersi più spontaneamente tra quelli del posto, che conoscevano da vicino l’impegno di Laura. Questo ritaglio di cronaca mi ha riportato ad un episodio di cui fu vittima tanti anni fa un medico del paese alla periferia di Napoli dove sono cresciuto. Fu aggredito da un paziente e scampò alla morte, ma con il prezzo di un’invalidità ad una gamba. La situazione è molto diversa, ma il contesto provinciale sembra simile. Sdegno iniziale, accompagnato da una punta pressapochismo che, il più delle volte in periferia, si trasforma in omertà mostruosa. E qualche volta occorre ingoiare pure il rospo di chi ti rimprovera dietro le spalle: “Se fosse stato più accondiscendente o avesse fatto finta di niente, non gli sarebbe accaduto nulla”.

La morte ingiusta di Laura Prati mi ha fatto sentire improvvisamente parte della comunità che l’ha vista crescere e occupare il ruolo di primo cittadino. Tenendo a bada il risentimento vendicativo che ci porterebbe al linciaggio del malfattore, penso che sia lecito chiedere giustizia. Nel nostro Paese purtroppo la giustizia è così opinabile da portare una “perizia psichiatrica” ad essere l’escamotage per alleggerire la pena. La famiglia di Laura Prati non ha bisogno del folclore scenografico che qualche volta prende piede ai funerali, come ho visto anche alla periferia dove sono cresciuto, ma di un supporto che si evolva nel tempo per evitare la vera tragedia: vestire gli ignudi, assiepati intorno al colpevole, con la follia pirandelliana e lasciare che il futuro abbia memoria corta*.

*Questo articolo è stato pubblicato anche dal quotidiano on line Varese News. Ringrazio il direttore responsabile e i colleghi della redazione.

Quelli che partono: Il clochard del San Carlo di Napoli che gennaio si portò via

ph. di Camilla Crescini

“Quelli che partono”, foto di Camilla Crescini

Rosario PipoloNelle ultime ore di gennaio, cercai invano di farmi ascoltare. Bussai forte alla porta della ragazza, ma lei non rispose. Mi aveva lasciato un biglietto: era corsa a curare i bambini che erano stati abbandonati. Non so come riuscii a rintracciare la sorella, ma mi invitò a ripassare il lunedì successivo perchè era impegnata con le pagelle a scuola.
Scappai in cima alla salita, convinto che l’amico mi ascoltasse. Invece lui fece orecchie da mercante, stordito dalle inutili faccende che riempivano la sua noia. Da lontano vidi un prete, non mi diede neanche il tempo di accostarmi, che mi lanciò un’occhiata di rimprovero come a voler dire “non vedi che sto pregando”.

Nell’ultimo bistrot intravidi l’amica di sempre. La invitai a bere un caffè. Era una scusa per poterle parlare, ma lei si defilò perché stava finendo di preparare un concorso e mi chiese di pazientare solo una settimana. Nel parco c’era la bambina, che speravo non restasse indifferente. A stento mi riconobbe, era impegnata a pettinare l’ennesima bambola che le avevano regalato. Entrai nel solito supermercato, perché sapevo che lì avrei trovato la mamma. Provai ad urlare, ma non percepì il mio urlo perchè aveva la testa stordita tra gli scaffali delle offerte. Tentai con l’edicolante in piazza, ma stava chiudendo e non poteva dami retta così come il vicino che se la diede a gambe sulla sua Maserati di ultima generazione.

Non mi sentiva nessuno. Mi ricordai allora del clochard* che avevo incrociato qualche anno prima di fronte al teatro San Carlo di Napoli. Salii sul primo treno e mi misi alla sua ricerca. Arrivato sul posto, trovai la sua casetta di cartone, ma il barbone era sparito. Un uomo mi rimpoverò: “E’ arrivato troppo tardi. Il freddo di gennaio se lo è portato via. E pensare che un anno fa quel poveretto cercò di farsi ascoltare disperatamente, ma lei era troppo indaffarato per dargli retta. Il clochard voleva solo abbracciarla e raccontarle una storia, quella dell’indifferenza, la stessa che lei ha vissuto prima di precipitarsi qui”.

*Dedicato a Franco I., il barbone napoletano che adesso finalmente non soffre più il freddo perchè lassù c’è una casa tutta per lui.

Clochard morto davanti al San Carlo di Napoli

  Roberto Bolle e Twitter: Il ballerino che ha offeso clochard e napoletani

La penna di un blogger attraverso il 2012

Rosario PipoloI Maya non ci hanno azzeccato e, aspettando un altro pronostico per la #finedelmondo, eccomi a ripensare a questo 2012. Un anno fatto di tanti piccoli viaggi, per la maggior parte condivisi, a caccia di storie nascoste, che sono poi quelle che restituiscono il significato ad ogni minimo spostamento: dallo sguardo di Carolina a Sabbioneta al viaggio in autobus sotto un sole cocente per abbattere i pregiudizi; da Shalom Gianna in riva al mare alle goloserie marchigiane di Marco e Manuela; dal matrimonio lowcost a Viareggio al ritorno alla Mostra del Cinema di Venezia e al Moulin Rouge di Parigi dopo una valanga di anni.

L’apertura del 2012 assieme al “bambino senza famiglia”; il dolore per la perdita dell’ultimo disegnatore della Napoli da strada e lo smarrimento della piccola senza “papà suo”; le cinquanta candeline di una prof. del Sud Italia; il ricordo della notte “magica” prima degli esami di maturità.

E’ finita tra le mie mani la lettera commovente di un bambino dal futuro al suo papà; la polaroid di un giudice martire, l’ultima favola in una fabbrica di Pomigliano d’Arco per rispettare chi un lavoro lo ha perso e si sente “perso” nel vuoto. Qualche ritaglio di cronaca ci sta bene: la fine dei pesci lessi, quelli del Carroccio; il sangue versato dai lavoratori terremotati dell’Emlia; l’addio a Carlo Maria Martini e Lucio Dalla; l’offesa ai napoletani da parte di Roberto Bolle e del giornalista piemontese del tg3.

Una gran bella storia d’amore non finisce mai? Ho scritto così, prolungando il filo dell’amore oltre il varco dell’eternità nel racconto d’estate L’ultimo angelo in volo su Istanbul. E a proposito di svolta lavorativa, sono finito per una sera nello staff di California Bakery a Milano e se ne sono viste di tutti i colori.

E, infine, ancora una volta i social network sono stati protagonisti di questo 2012 con Facebook in testa, terreno fertile delle amicizie quaquaraquà. Prima o poi tocca scegliere da che parte stare, nella buona o cattiva sorte.

E’ già finito il 2012? Non me ne sono accorto. Sono tornato alla carta con una follia dell’ultimo minuto. Ho pubblicato il mio primo romanzo e brindo assieme ai miei lettori e ai personaggi di “L’ultima neve alla masseria”. Felicità a tutti.

No, non è finita: L’altro striscione per Pasquale Romano

Sabato sera il Napoli ha incassato la sconfitta della Juventus. Avremmo dovuto portare fuori dal campo di Torino l’ultima parola di Mazzarri: “Non è finita”. Avremmo dovuta spruzzarla su uno striscione e appenderlo nel punto dove è stato trucidato Pasquale Romano, ucciso per sbaglio dalla camorra nella faida di Scampia.
Mentre le immagini del match più atteso di questo inizio di campionato passavano sui maxi schermi allestiti nei vicoli di Napoli, saranno stati in tanti a dedicare un pensiero a Lino, che doveva essere pure lui da qualche parte a fare il tifo per il suo Napoli.

Nell’esclamazione dell’allenatore del Napoli c’è la verità che vale nel gioco come nella vita: la singola sconfitta non conta se all’urlo emotivo e rabbioso sostituiamo la riflessione. Che la rabbia per la morte di Pasquale Romano non resti “urlo da megafono” tra le fila di una fiaccolata come è accaduto per le altre vittime innocenti della camorra. Il quartiere di Forcella ricorda ancora la piccola Annalisa Durante, un altro angelo caduto in volo sotto la mano spietata dei killer.

Lo scrittore Roberto Saviano ha manifestato apertamente la sua indignazione dalle pagine di La Repubblica: “Con quel ragazzo ucciso a Napoli è morta anche la democrazia. Ignorato dal governo che non si è presentato ai suoi funerali, in un’Italia che non si indigna più”.
Tenendo da parte i cliché che fanno di Napoli la landa desolata della malavita e dei criminali, dobbiamo interrogarci sul senso di ricominciare una nuova settimana facendo finta di niente. Sarebbe mostruoso lasciare la morte di Pasquale Romano tra le braccia del cinismo, che permette a un fatto di cronaca qualunque di aumentare le vendite di un giornale.

Sarebbe stato sportivo e umano sentire dentro e fuori lo stadio di Torino un coro di voci per Pasquale Romano, invece del brutale razzismo che riapre polemica per il solito cliché.

No, non è finita.

  Razzismo da tifoso

  L’articolo di Roberto Saviano

Don Raffaè 2012: Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi e lacché

Io mi chiamo come mia madre mi ha fatto e sono finito nel carcere senza sape’. Avevo un nome straniero e sto a Poggio-Reale dal 2012. Alla centesima parola che non capisco, ho chiesto se c’era un uomo speciale che parlava con me. L’ho trovato al braccio speciale. Tutto il giorno vedo in tv quattro infamoni briganti, papponi, cornuti e lacchè. Che fetenzia quella faccia che sputa minaccia e se la prende con me, figlio dall’Africa nera. Perché lui là e io qui?
Ma alla fine mi sento meno solo, mi sbottono, leggo il giornale e chiedo spiegazioni al vecchio Don Raffaè. Mi spiega che penso e bevimm’ò cafè.

A comme è amaro ò cafè, neanche in carcere ‘o sanno fa, perché Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi, puttane e lacché.

Prima pagina, venti notizie inutili, cento ingiustizie nascoste e lo Stato che fa? Facebook si costerna, Twitter s’indigna, lo Stato s’impegna e poi finge di alzare la testa con gran dignità.
Mi scervello, capisco meglio il napoletano, per fortuna c’è chi mi risponde, a quell’uomo immenso io chiedo consenso al vecchio don Raffaè: Un falso galantuomo, eletto dal popolo, dovrebbe stare in carcere al posto mio, mentre guappi di cartone, che Dio li perdoni, spargono sangue tra infamie e miseria. A voi una volta bastava una mossa, una voce. Con rispetto s’è fatto le otto per guardare il tiggì, volite ‘a spremuta con la pillola per la pressione o volite ‘o cafè?

A comme è amaro ò cafè, neanche in carcere ‘o sanno fa, perché Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi, puttane e lacché.

Qui ci sta l’inflazione, la svalutazione, forse torniamo alla lira e la borsa ce l’ha chi ce l’ha. Io non tengo compendio che chillo stipendio non mi basta per le cure di mamma e papà. Aggiungete mia figlia zitella che serva-badante non vuole essere più. Non chiedo la grazia pe’ me, vi faccio la barba o la fate da sé. Voi tenevate un cappotto cammello che al maxi processo eravate ‘o chiù bello, un vestito gessato marrone così ci è sembrato su YouTube. Vi prego Eccellenza, ditemi se i disonesti stanno qui dentro o stanno fuori, perché altrimenti sapete cosa vi dico? Io resto qui.

A comme è amaro ò cafè, neanche in carcere ‘o sanno fa, perché Ciccirinella, ex compagno di cella, sta fuori, amministra palazzi, consensi, puttane e lacché.

Qui non c’è più decoro vacanze da lusso su isole lontane, ma chi l’ha mi viste chissà. Chiste so’ fatiscienti pe’ chisto i fetienti, se tengono l’immunità. Don Raffaè un dì voi politicamente, ma chi caspita sono questi falsi santi, ma ‘ca dinto io sto a pagà senza permesso di soggiorno e fora chiss’a. A proposito ho visto bravi laureati che da quindici anni stanno disoccupati, hanno fatto quaranta concorsi, novanta domande e duecento ricorsi. E adesso chi glielo darà il conforto e il lavoro?

Don Raffaè, che zoza ch’è chisto cafè.*

*Ispirato liberamente alla canzone “Don Raffaè” di Fabrizio De Andrè

 Fabrizio De André, Don Raffaè

  Testo originale

 Via del Campo

L’angelo caduto in volo: Yara non è un cadavere!

Un lunedì qualunque, ma a Napoli. Piove in continuazione, senza sosta e la storia è la solita: non si vede un autobus neanche a pagarlo, perché questa città ha perso il pelo, ma non il vizio mentre gli ex governatori se la godono ai tropici. Va in tilt per pochi schizzi d’acqua. Le prime pagine dei giornali, esposti all’edicola all’angolo di piazza Garibaldi, lacrimano inzuppati d’acqua. Sul quotidiano il Mattino campeggia il titolo che elegge le barbarie umane e ci ricorda che Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa il 26 novembre scorso, adesso è un cadavere. Questo non è un lunedì qualunque, perché fino a sabato scorso, abbiamo sperato che fosse da qualche parte, chissà dove a sognare, a progettare per il futuro che una ragazzina della sua età dovrebbe avere sempre a portata di mano. E l’Italia tutta è stata freddata dalla notizia, nell’ultimo sabato di febbraio che scivola via, egoista e avaro di buone notizie.
No, questa volta non ci stiamo. Non la vogliamo l’ennesima telenovela dell’orrore; non vogliamo sapere il numero di coltellate e giocarceli a lotto come se fosse un numero portafortuna; non vogliamo invadere la privacy della famiglia, rinchiusa nel bunker del dolore. Piuttosto vogliamo sapere perché non abbia fine la mostruosità dell’uomo, perché gli orchi e gli assassini, che sono tornati ad abitare la nostra quotidianità, siano ancora  divi della cronaca nell’uragano mediatico. Per favore, che la giustizia continui ad indagare per scoprire i colpevoli, ma noi vogliamo restarne fuori.
Vorremmo provare a capire cosa sia il dolore per la perdita di un figlio, la caduta che ti compromette tutto il resto della vita, come il travaglio interiore del protagonista del film “La stanza del figlio” di Nanni Moretti; vorremmo provare a capire se una canzone possa farci sperare che Yara abbia messo già le ali per diventare l’angelo della porta accanto; vogliamo capire se la storiella dell’inferno, che le suorine davano in pasto ai bambini monelli, fosse una crudele invenzione di altri tempi, perché i diavoli e gli inferi sono qui, sotto i nostri piedi.
No, non ci stiamo. Se dobbiamo coabitare con l’orrore, allora è legittimo vergognarci di appartenere alla razza umana e invidiare i nostri amici a quattro zampe che erroneamente vengono chiamati bestie. A Napoli continua a piovere, senza sosta, e chissà quante ragazzine come Yara in questo preciso istante stanno subendo un oltraggio, una violenza, mentre la comunità fa finta di niente nel guscio dell’omertà.
Allora stasera rincasando, soprattutto se siamo genitori, porgiamo l’orecchio ad un invito di Giovanni XXIII: “Cari figlioli, tornando a casa, troverete i bambini: date una carezza ai vostri bambini”. Facciamolo, e non perché resti soltanto un gesto d’amore, ma perché dobbiamo proteggerli a qualsiasi costo, senza compromessi. Sono loro a restituire dignità al miserabile mondo degli adulti.

Il gigante e la bambina, giustizia per Sarah Scazzi!

Al ritorno dalle vacanze avevamo incrociato  il volto di quella ragazza appiccicato ovunque:, dai muri sotto casa alle bacheche della rete. Il messaggio era chiaro: “Chiunque avesse trovato Sarah Scazzi era pregato di farsi vivo”. Nessuno però aveva diffuso l’annuncio all’incontrario, mettendolo giù così: “Chi prima trova l’orco cattivo, prima ci restituisce la speranza che Sarah sia viva”. E’ stato inutile perché il mostro era nascosto in famiglia ed aveva agito in un batter baleno, chissà con la complicità di chi. Svanita la speranza di rivedere Sarah tra le braccia di mamma e papà, oltre 60 mila persone di ogni età alzano la voce su Facebook e chiedono giustizia. Giustizia o vendetta? Forse vendetta, come quella che ci ha assaliti dopo la confessione dello zio Michele Misseri, forse rabbia come quella tra la folla dei funerali di sabato ad Avetrana.
Quindici anni fa un caporedattore mi rimproverò, perché avrei dovuto occuparmi di cronaca nera per crescere nella giungla dell’informazione. Un morto ammazzato valeva la prima pagina di un giornale più di un’inchiesta culturale o di una recensione di uno spettacolo.
Quel misuratore vale ancora oggi dove c’è l’assillo di far numeri ovunque, siano clic o audience. E in questi giorni, nel lavaggio mediatico della tragedia di Avetrana, il volto del carnefice ha preso il sopravvento rispetto a quello della vittima o addirittura compare al suo fianco. Il popolo del web non potrà prendere posizioni che spettano alla giustizia (costituirsi parte civile nel processo?), così come la televisione non può trasformare un delitto in una farsa di costume, facendoci credere che guardare “Chi l’ha visto?” sia come fare una partitella a Cluedo. Per non diventare tutti complici di questo oltraggio mediatico, abbiamo il sacrosanto dovere di delegittimare tutti gli operatori dell’informazione; tutti i salotti televisivi, dal fard dell’Arena di Giletti  al fondotinta di Matrix; tutti gli angoli del web che daranno spazio al dramma dello zio Michele, l’orco assassino da ergastolo rinato nei versi amari della canzone di Rosalino Cellamare Il Gigante e la bambina.