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Diario di viaggio: James Holmes, la strage di Denver e la colpa degli USA

Gli Stati Uniti restano una delle mete preferite dagli italiani, che poi finiscono nel solito cliché del vacanziero: la spiaggia di Miami, il parco giochi di Orlando, il memorial di Ground Zero o le luci della ribalta di Hollywood. Eppure c’è un’altra America, l’America per eccellenza, quella di “Non è un paese per vecchi” – raccontata spietatamente dai Fratelli Cohen nell’ominimo film. Forse in quella ciurma di farabutti ci starebbe bene pure il folle James Holmes, che ha messo in piedi la tragedia estiva d’oltreoceano: morti e feriti durante la proiezione di un film in un cinema di Denver.
Guardando in tv la faccia spaurita del killer, avvolta dai capelli rossi, mi è sembrato di rivedere il ghigno malefico di Joker. E ci risiamo, di nuovo a parlare di cinema. La strage di Denver è avvenuta durante la proiezione del nuovo Batman e quindi l’America prova a giustificarsi. Questo film è maledetto così come la pellicola del 2007 di Il Cavaliere Oscuro, in cui l’attore Heath Lodger vi trovò la morte.

Allora, non è che vorremmo addossare la colpa dell’ennesimo seme di follia yankee all’eroe a fumetti creato nel 1939 da Kane e Finger? L’America bacchettona degli anni ’50 mise a tacere la latente omosessualità che sprigionava Batman (il legame ambiguo con Robin sfiorava la pedofilia), mentre la generazione che si scatenava sulle note di Born in the USA di Springsteen ammise una volta e per sempre che “Il cavaliere oscuro” stigmatizzava le penombre di una nazione, incapace di fare i conti con le sue contraddizioni.

Tornando all’assassino, James Holmes è vittima o carnefice? Forse tutti e due assieme, perché è figlio di una landa desolata – This is America! – che condanna con la pena di morte i piccoli mostri che lei stessa ha generato, facendoli diventare giustizieri della notte. Gli USA, questo Barack Obama dovrebbe ricordarlo, ti permettono prima di andare in un negozio a fare scorte d’armi. Avvenuta l’apocalisse, si lavano le mani mandandoti al patibolo. La libertà statunitense, ammalata di malsano individualismo, può essere camminare con un’arma da fuoco in tasca? Non chiedetelo a James Holmes, ma ai singoli stati che hanno fatto passare la legge del pistolero.
L’America ha prodotto una marea di film e non solo per colorare i nostri sogni. E questa volta proprio il cinema le ha tirato un colpo basso.

Cartolina da Brescello: Io sto con Peppone e Don Camillo e vi dico la mia

A Brescello non c’è nessun manifesto elettorale, in vista delle amministrative del 6 e 7 maggio. Tuttavia, al centro della piazza del paesotto della provincia di Reggio-Emilia, ci sono due statue sorridenti. Sono quelle di Peppone e Don Camilo, i due personaggi nati dalla penna di Guareschi, che hanno fatto la fortuna di questo luogo attraverso l’interpretazione cinematografica  del francese Fernandel e dell’italiano Gino Cervi.

Julien Dunvivier volle questo posto come set della serie di film dedicati al simpatico parroco e al sindaco comunista. Da allora Brescello è meta di pellegrinaggi. Persino la curia locale si è trovata in serio imbarazzo, perché il crocefisso, all’interno della chiesa, è continuamente visitato. Miracoli? Forse uno e dietro una macchina da presa: quello di parlare al parroco Don Camillo.

Arrivare in questi luoghi, che sembrano essere incollati al bianco e nero dell’Italia del Neorealismo, ti fa uno strano effetto. A metterci la pulce nell’orecchio c’è il museo pieno di cimeli, valorizzato dalla Pro Loco, ma il resto lo ha fatto la storia locale. La piccola stazione deserta è identica a quella di ieri e sui binari si sente ancora l’odore delle rotaie dell’ultimo treno, quello che, nel film “Don Camillo”, portò via il parroco più amato della storia del cinema.

La Brescello di Peppone e Don Camillo apparteneva all’Italia povera, sincera, che allontanò i rumori delle bombe per raccogliere la speranza seminata di un futuro migliore. Il passaggio travagliato da sogni contadini a quelli della rampante civiltà del boom economico avrebbe avuto un caro prezzo da pagare: nascondersi senza prendere una posizione netta.
A quei tempi o stavi con Peppone o con Don Camillo, conservando comunque la lealtà verso sogni ed ideologie. Oggi invece finisci prigioniero di molte liste civiche, che sono la liquefazione della diarrea da Prima e Seconda Repubblica. E le prossime elezioni amministrative ce lo dimostreranno.

Il regime democristiano è stato censore al cinema quanto il fascismo, ma per fortuna Peppone e Don Camillo l’hanno scampata bella. E ritornare a Brescello, anche in una mattinata uggiosa, è l’unico modo che il viaggiatore ha per risanare la memoria dei nostri nonni dalle porcherie di chi vorrebbe farci credere che qualcosa sia cambiato.

 Brescello, il paese di Don Camillo e Peppone

 Visit Brescello

Il ricordo: Su e giù in ascensore con Tonino Guerra

Nel periodo dell’università chiesi il rimborso di un biglietto del cinema. Mi avevano tagliato i titoli di coda. Lo reputavo una mancanza di rispetto per tutti coloro che avevano contributo alla realizzazione del film. Il nome di Tonino Guerra non è un uno spasimo emotivo temporaneo da piazzista social, ma un’anagrafica dei titoli di testa delle pellicole, che hanno decisamente segnato la mia vita.
Più di venti anni fa, ero in ascensore all’Excelsior del lido di Venezia. Ero di corsa per una conferenza stampa. L’ascensore iniziò a fare su e giù. L’anziano signore che mi stava accanto, mi rimproverò con ironia: “Non guardare l’orologio. Godiamoci questo bel momento. Questo sali scendi mi riporta ai luna park della mia Romagna”. Non lo avevo riconosciuto. Poco dopo mi resi conto che l’uomo baffuto fosse Tonino, la penna poetica intinta nel cinema.

Tonino Guerra è riapparso sporadicamente negli anni avvenire: alla cena degli ottanta anni di Michelangelo Antonioni ero imbambolato ad osservare il regista semiparalizzato. Mi chiedevo: “Dov’è finito Tonino? Se si alzasse per abbracciarlo, lo libererebbe con la sua poesia dalle sbarre che lo rendono detenuto in un corpo malato”.
Pensavo a Tonino Guerra tutte le volte che volevo fuggire a Sant’Arcangelo di Romagna, perché lì Leo (de Bernardinis) aveva avvolto un festival di teatro con la spiritualità monastica che ci voleva per riabilitar la scena italiana.
Pensai a Tonino Guerra quando misi in piede un omaggio girovago a Federico Fellini, ma non ci fu l’occasione per farlo salire sul carrozzone.

Mi vien voglia di tornare su una giostra e guardare la vita da lassù. E’ tutta un’altra cosa, non ci sono prospettive prestabilite. Forse era proprio quello che voleva dire Tonino Guerra al giovanotto sconosciuto in ascensore. Il giovanotto sconosciuto ero io.
E da quel giorno non fu più un nome e cognome dei titoli di testa del cinema della mia vita, ma il signore che mi fece fare il primo passo per diventare attento osservatore della realtà e allontanarmi dalle distrazioni che ci privano delle vere bellezze della vita.

Colazione da Tiffany 50 anni dopo: Paul le scrive parole d’amore sull’iPad e Holly canta “Moon River” su Facebook!

Al di là delle celebrazioni che lasciano il tempo che trovano, i 50 anni del film “Colazione da Tiffany” di Blake Edwards stanno spopolando su i social network. A fare tanto rumore non è il restauro della famosa pellicola con la raggiante Audrey Hepburn e lo scanzonato George Peppard. Più o meno è la voglia di intrufolarsi tra le pagine del romanzo di Capote. Persino le ragazzine di ultima generazione sognano di assomigliare ad Holly.

Tuttavia, un modo originale per spegnere queste 50 candeline, potrebbe essere riadattare “Colazione da Tiffany” ai tempi nostri, nelle ore in cui l’Italia è allo sbando su tutti i fronti e si trova per giunta senza un Governo. Lo scrittore è lì che cuce pensieri e parole sul touchscreen del suo iPad e Holly non sente più il tic tac dei tasti della macchina da scrivere. Non sapendo che lui è a pochi metri, accende il PC e lancia sulla bacheca di Facebook la melodia di “Moon River”. Paul non vede il video, esce di casa e dimentica l’ombrello. Holly sbuffa, non resiste, sbatte la porta e girovaga nella notte.

Mentre il diluvio ricopre Genova di fango, Paul e Holly si incrociano sotto un acquazzone. Non si tratta di New York, ma dell’ennesimo paesotto di periferia, che fa da sfondo ad un lungo bacio tra i due, dopo che Holly si é lasciata alle spalle dubbi, delusioni, dolori. Il miagolio di un gattino ricorda a Paul che è il 9 novembre. Mette le mani in tasca, ma gli ultimi soldi sono diventati carta straccia dopo la chiusura della Banca d’Italia. Sul ciglio della strada si ferma in una bijoutteria, che di “Tiffany” non ha un bel niente. Baratta il suo iPad per una collanina di perline. La mette al collo di Holly e le sussurra: “Buon compleanno tesoro, oggi in due festeggiamo cinquant’anni”.

Hollywood non fabbrica più sogni così come quest’Italia cinica e cialtrona, che li ha chiusi a chiave in un cassetto. Allora ce li costruiamo noi, impugnandoli per restituire consistenza ai sentimenti. Perciò nella notte del 9 novembre prossimo non ci sarà un party, i soliti dolcetti e una torta gigante. Da qualche parte ci sveglieranno dal sonno i passi di un uomo e una donna, mano nella mano tra cinquanta candeline. E sarà “Colazione da Tiffany” come la prima volta, tra il ticchettio della macchina da scrivere di Paul e la voce di Holly che canta “Moon River”.

Doppio sogno: la favola ritrovata dei due gabbiani

C’era lei in lacrime accovacciata su un marciapiede. Mi sembrava di essere finito in una sequenza di Blade Runner. Nel sogno pioveva a dirotto: le lacrime si confondevano con la pioggia. Mi sono avvicinato e l’ho riconosciuta. L’ho cercata e l’ho ritrovata. Ho tirato fuori dalla tasca della giacca una paginetta che ho scritto tanto tempo fa, proprio in questi giorni di ottobre. Al risveglio me sono ricordato. Che buffa storia era quella, avrò avuto vent’anni quando l’ho messa giù, bivaccato sulla mia vespa rossa. Più o meno faceva così:

Due gabbiani si incontrarono in un giorno qualunque. Ham chiese ad Or se volesse proseguire assieme a lui. Lei accettò e si mossero nella stessa direzione. Poco tempo dopo Or non se la sentì più. Ham soffrì molto, ma la lasciò libera. Lui continuò per la sua strada. Arrivò l’inverno. E vennero la pioggia, il freddo e i temporali. Quel gabbiano continuò impavido finché la primavera non spazzò via le nuvole ed Ham si ritrovò Or al suo fianco. I due gabbiani, nonostante tutto, si incrociarono sulla stessa traiettoria, perché in tutto quel tempo avevano continuato a viaggiare assieme inconsapevolmente. Finirono su una spiaggia al calar del sole e decisero di amarsi. L’unico modo era trasformarsi in esseri umani.
Quella notte ci pensò la luna a fare il resto e l’indomani al posto loro c’erano un ragazzo e una ragazza. In fondo alla spiaggia c’era un grotta con una luce. Quella era la loro meta. I due notarono che avvicinandosi, la meta si allontanava. Dal mare si udì una voce che disse: “Perché vi ostinate ad andare laggiù? L’amore non è in quella grotta. L’amore siete voi”.

I due si guardarono negli occhi e sulla sabbia scrissero i loro nomi uno a fianco all’altro. La bassa marea mise la “e” al posto della “h” e le cambiò posizione. Da quel giorno, su ogni spiaggia della terra, ogni volta che si intravedono due gabbiani all’orizzonte, il mare scrive sulla sabbia l’unico incantesimo che tiene legati gli essere umani: a-m-o-r-e.

Ho provato a cercare il foglietto su cui ho scritto quella stupida favoletta, ma non c’era. Sono uscito da casa, in un giorno qualunque. L’ho trovata sorridente, accovacciata sul terzultimo gradino. Me la ricordavo occhialuta. Invece non portava più gli occhiali. I capelli si erano allungati e disegnavano i contorni del viso. Abbiamo bevuto un caffè. Prima dell’ultimo sorso, ha aperto la borsetta e ha preso un foglietto scarabocchiato: “Per caso cercavi questo? Profuma ancora della pioggia dell’altra notte, la stessa in cui me l’hai dato”.

Doppio sogno.

Blade Runner di Ridley Scott

Doppio Sogno

 Anna e Marco

Diario di viaggio: Fondi, ricordo di un’estate

Resto sempre convinto che Ricordo di un’estate (Stand by me) di Rob Reiner sia uno dei film più belli sull’adolescenza. Non mi riferisco tanto alla storia, ma al fondale estivo che lascia un segno nei quattro ragazzi protagonisti. Ognuno ha il suo ricordo di un’estate: il mio è a Fondi. Vi sono tornato dopo più di vent’anni e mi è sembrato che il tempo si fosse fermato a quell’agosto del 1988. Certo, nel paesotto in provincia di Latina vi avevo trascorso una memorabile vacanza nell’82, proprio nei giorni in cui l’Italia vinse i Campionati del Mondo di calcio.
Tuttavia, l’ultima estate era stata diversa: non c’erano i miei genitori e forse fu proprio quest’assenza a farmi spingere, con la complicità dei miei cuginetti Massimiliano e Andrea, oltre i canoni dell’ingessata adolescenza, verso una forma di ribellione interiore che mi permise di vivere un legame profondo con le persone del posto, in una contaminazione affascinante tra campagna assolata e spiagge selvagge.
Sono tornato nella stessa casa e in quella bottega era rimasto quasi tutto uguale, ma al banco di lavoro non c’era più Guido. Mi piaceva osservarlo mentre grattugiava in silenzio le sue tavolozze di legno. Una volta me ne regalò una, accompagnata da un pensiero: “Faccio il falegname perché, tutte le volte che il legno prende forma, mi sembra di restituire l’anima anche all’oggetto più insignificante”. Sono tornato a Fondi perché avevo voglia di dire al mio amico falegname che quell’estate dell’88 mi trasformò da burattino in un bambino vero, proprio come nella favola di Pinocchio. Purtroppo non ho fatto in tempo, perché mi hanno detto che era partito per sempre. Pare che sia scomparso nello stesso mare in cui noi ragazzi nuotavamo e ci sentivamo liberi come mai saremmo stati.
L’ultima volta che ho lasciato Fondi, Mirella era affacciata al balcone, Dina seduta su una panchina e Gionathan accovacciato su un albero. Furono proprio loro i compagni d’avventura e i protagonisti del mio ricordo di un’estate. Riabbracciandoli ho ritrovato Guido, il loro papà, e mi sono convinto per l’ennesima volta che gli affetti nati sotto il cielo estivo durano per tutta la stagione della vita e ci fanno sentire forti anche quando il dolore e la tristezza tentano di offuscare le nostre esistenze. Risalendo sul treno, ho capito che i figli di Guido mi avevano restituito la fragranza dell’estate al posto di un tenero ricordo, allo stesso modo in cui il loro papà dava l’anima a tutti quei pezzetti di legno.

Il voto (non) è segreto: Pisapia e De Magistris i Sindaci che uniscono Milano e Napoli

Il voto è segreto! E’ un luogo comune, ma anche il titolo di un bellissimo film iraniano che ho visto in anteprima nel 2001 al Festival di Venezia. Su quel ring cinematografico facevano a pugni arretratezza e modernità così come avviene oggi, dopo questo uragano post-ballottaggio, che ridisegna la politica italiana. Non è più “un segreto” che l’Italia voglia lasciarsi alle spalle anche la Seconda Repubblica e questa volta a decidere le sorti di una faticosa virata ci sono due città geograficamente e culturalmente lontane, ma mai così vicine come adesso: Milano e Napoli. La Milano di Giuliano Pisapia e la Napoli di Luigi De Magistris, i due Sindaci neo eletti che stanno facendo tremare il nostro Paese. Per Milano e Napoli si chiudono con questa tornata elettorale due lunghi periodi politici. Sembra una contraddizione, ma la paralisi riguardava proprio il trasformismo istrionico del capoluogo lombardo e campano, che negli ultimi tempi non riuscivano più a tenere testa ai mutamenti in corso.
Adesso occorre fare i conti, anche se a qualcuno non tornano, perché né milanesi né napoletani si sono lasciati conquistare dalle storielle ecopass, parcheggi, abusivismo edilizio, miracolo bis monnezza. Terminati i festeggiamenti, Pisapia e De Magistris avranno due grosse responsabilità, che in caso di fallimento condurrebbero queste due città alla catastrofe: da una parte ricostruire una Milano sulla solidità del pensiero, frenando l’ascesa del paganesimo del dio denaro; dall’altra far tornare Napoli ad essere la capitale di un Mezzogiorno – senza il ricatto dei bassoliniani (falsamente) pentiti – che non ne può più di vivere di commiserazione, pietà, assistenzialismo. Dipende dai punti di vista: l’elettorato è tornato a prendere in mano il megafono e ha dato il benservito a chi ha fatto di tutto affinché il voto restasse segreto per tanto tempo ancora. E non ci voleva la sfera di cristallo per prevederlo in tempi non sospetti.

Sul tappeto: L’ultima volta che vidi Giulietta Masina

L’ultima volta che vidi Giulietta Masina fu in una scena straziante data in tv: lei in lacrime che con lo sguardo accompagnava il feretro del suo amato Federico (Fellini), compagno di scena e di vita. Con gli anni, nell’ottica di chi ha imparato a trasfigurare i sogni attraverso il cinema di Fellini, ho tentato di offuscare questa immagine, sostituendola con lo sguardo profondo di Giulietta nelle sequenze di “La Strada”. Nel personaggio di Gelsomina c’era una vitalità che usciva fuori soltanto se ti appiccicavi ai suoi occhi. Una quindicina d’anni fa, avevo messo in pausa su un primo piano il mio videoregistratore e mi ero attaccato con le guance allo schermo, sperando di leggere nella profondità dell’animo della protagonista del film. Esperimento non riuscito.
Poco tempo fa ero disteso su un tappeto. Guardavo il soffitto, mi sentivo libero. Attorno a me c’erano una serie di oggetti significativi che connotavano l’ambiente: mobili, fiori appassiti, fotografie. Erano il tappeto e la luce soffusa a non farmi sentire estraneo da quel mondo che non mi sarebbe mai appartenuto. Quando mi sono trovato guancia a guancia con un paio d’occhi mandorlati, ho ritrovato improvvisamente Giulietta Masina. Ed è stato lì che mi sono convinto: i veri incontri si fanno ad una distanza così ravvicinata da farti rapinare in un batter baleno l’ultimo fondale della persona che ti sta accanto.  Ci avete mai pensato veramente?
Provate a guardare una bella fotografia di qualcuno a cui siete particolarmente legati. Osservate la stessa persona nella quotidianità a più distanze. L’avvicinamento fisico vi restituirà più prospettive, finché non vi troverete appiccicati al suo sguardo. Non privatevi di quell’istante, perché è in quell’atto che capirete la densità del legame, che annulla il tempo o i soliti luoghi comuni che fanno del corpo l’unica strada maestra.
L’ultima volta che ho visto Giulietta Masina non è stato al cinema, con il filtro di uno schermo, colpevole di aver frenato la durata eterna dello scoprirsi reciproco. E’ stato lì su quel tappeto, nonostante i tanti passi e le aspirapolveri che ci passeranno tenteranno invano di cancellare. Cosa?  La prima volta che vidi (veramente) Giulietta Masina.

Cartolina da Napoli senza francobollo per Enzo Cannavale

L’ultima cartolina da Napoli arriva in ritardo di proposito. E lui, Enzo Cannavale, mi può capire perché negli anni ’50 del secolo scorso faceva l’impiegato alle Poste. L’ho spedita senza francobollo perché volevo che arrivasse dopo la notizia, il clamore, gli elogi funebri, il chiasso che facciamo quando qualcuno ci lascia, con il rischio che il tempo ci metta del suo e ne cancelli le tracce. Non esistono attori di serie A e serie B, non esistono attori comici o attori tragici, esistono gli attori: coloro che ogni sera indossano una maschera per far capire a noi comuni mortali che nella comicità della quotidianità si insidia una profonda tragicità.
Durante la mia irrequieta adolescenza, dedita completamente al teatro, Enzo Cannavale mi ha insegnato che a rendere professionista un attore non è soltanto la padronanza tecnica e la presenza scenica, ma l’umiltà che genera l’istinto dell’arte. Me lo faceva capire come se fosse una litania tutte le volte che mi nascondevo dentro il suo camerino, azionavo il mangianastri per registrare le nostre chiacchierate. E lui, dopo un pizzicotto bonario sulle guance, mi ripeteva: “Guagliò, stai ancora cca’ a perdere tiempo con me?”. Fu proprio allora che me ne scappai dal divismo ridicolo delle piccole compagnie di periferia, che dietro il sipario del teatro amatoriale, si pavoneggiavano nell’arroganza di fasulli capocomici che erano tutt’altro.  
Crescendo però ho assorbito l’amarezza: Cannavale di schiaffi in faccia ne ha presi e forse pure tanti, perché una volta chi faceva l’istrione per mestiere doveva lottare con la prepotenza di tanti capocomici. Una sera, al termine di uno spettacolo a fianco di donna Luisa (Conte) al Teatro Sannazzaro di Napoli, gli proposi di mangiare una bomba calda alla Nutella a piazza San Pasquale. E lui, uomo dalla battuta sempre pronta, mi rispose: “Guagliò, potrei capire un caffè, e tu cu na’ cos ‘e chella tanta me vuo’ fa’ saglì ‘o colesterolo ‘a mille!”.
L’ultima volta ci siamo incontrati prima che mi trasferissi a Milano, in occasione della Cantata dei Pastori, e mi rimproverò con una carezza: “Mmo’ pure tu te ne vai, e chi resta cca’?”. Caro Enzo, io me ne sarò pure andato, ma tu a Napoli ci sei rimasto per sempre, anche adesso che gli altri pensano che tu stia fermo al camposanto. Io lo so dove sei: lì sul terrazzino di casa tua, a goderti il tuo caffè caldo e a sbirciare il giornale, tra le coccole di tua moglie e i baci dei tuoi figli, mentre il golfo di Napoli si acquieta nei tuoi occhi.

Benvenuti al Sud, quello “mio”!

Benvenuti al Sud, non nell’omonimo film che ha sbancato al botteghino, ma tra gente vera, sapori e profumi sopravvissuti alla memoria, luoghi che nascondono storie dimenticate. Benvenuti al Sud tra Giovanna, che riempie il palmo della mia mano con una minuscola natività, e Annalisa – un dì scorazzava sul pianerottolo della mia infanzia – oggi un  vero parà dagli occhi di ghiaccio che gira il cucchiaino nella sua tazza d’orzo grande.
Benvenuti al Sud con Michele che fa il contorsionista tra reminiscenze filosofiche, idilli jazzati e un caffè a S. Agata dei Goti; con le lacrime invisibili di un’amica di vecchia data mentre suo figlio Joseph ha trovato nascosto nel gioco delle carte l’altro significato della vita; con l’immancabile combriccola dell’oratorio che rinasce dentro una reunion post-festiva tra il sorriso di Brigida e l’entusiasmo di Angela.
Benvenuti al Sud, ai confini tra Campania e Lazio, con Marcello che fa lo speaker radiofonico e fa sognare più province sulle onde di una radio locale; nei sapori delle golose Castagnole che per mano di pasticciere veneto arrivarono nel banco del Caffè Ducale di Sessa Aurunca; nella passerella goffa che fa della provincia il territorio ridicolo di ogni mondo che si rispetti.
Benvenuti al Sud nell’aperitivo con il prof. Tiziano, vecchio compagno di classe dai sogni messi a repentaglio dalla nuova scuola precaria e decadente; con Paolo che soffia 3 candeline, cammina a carponi tra i video di YouTube, fa le fusa alla caricatura sul mio blog; con nonna Antonietta che sbrina un’immagine sbiadita delle nostre comuni radici contadine: “Mariti e figlie comme e truove accusì te’ piglie” era la risposta delle mamme alle figlie che nel secolo scorso tentavano di fuggire dai mariti violenti e arroganti.
Benvenuti al Sud nell’anello che porta al dito la “Lei” con cui hai condiviso nove anni della tua vita: sta per sposarsi e così la neonata Giulia si ritroverà come zio acquisito quel bel damerino!
Benvenuti al Sud, cara Giulia, e visto che tu crescerai qui sai che ti dico: sarò stato pure un mascalzone e uno sbruffone squattrinato, ma mi prendo il diritto di restarti zio per sempre. Il mio viso da vagabondo saprebbe raccontarti che tornare indietro è un errore imperdonabile, ma guardare avanti riconoscendo i propri sbagli è l’unica scorciatoia per distaccarsi dal deplorevole mondo degli adulti.
Benvenuti al Sud, nel mio Sud, dove ogni volta che ci torno ritrovo un pezzo di me stesso che non mi ero accorto di aver perso. E questa volta l’ho perso per sempre.