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WhatsApp e i legami affettivi tra ruggine e artificialità

Nel mondo oltre 3 miliardi di persone smanettano su app di messaggistica. Il Covid-19 ha contribuito al rialzo pazzesco di piattaforme come WhatsApp che solo in Italia nel 2020 è stata usata da 33 milioni di utenti (Fonte: Audiweb-Nielsen). Quanti utilizzano WhatsApp per tenere in caldo un legame affettivo, un’amicizia, non so una conoscenza?

LEGAMI TRA AUDIO FARFUGLIATI E CATENE DI SANT’ANTONIO

Il distanziamento sociale della pandemia ci ha impoltroniti e, cavalcando l’onda di quella stizzinosa indolenza, ci siamo tirati la zappa sui piedi: ridurre i legami affettivi a uno scambio di messaggi estemporanei, audio farfugliati, catene di sant’antonio che il più delle volte pisciano umorismo insulso, rimbalzi di foto come le noccioline che davamo in pasto agli scimpanzè allo zoo negli anni dell’infanzia.

SCIMMIOTTIAMO LA GENERAZIONE ALPHA DEI NOSTRI FIGLI

Ci siamo impigriti nelle relazioni e pensiamo che il gruppo su WhatsApp ci abbia messi al riparo dal vedere in cocci quei legami su cui pensavamo di campare di rendita. Scimmiottiamo la generazione Alpha dei nostri figli, apprendista stregone di contatti tutto sommato artificiali.
Infatti, le generazioni nate sotto l’ombrello della messaggistica istantanea sono stati svezzati da genitori che comunicavano con gli altri abbrozzandosi con la luce artificiale dello schermo di uno smartphone spiattellato in faccia.

VIA IL BUONISMO CHE ASSECONDA COMPAGNIE DA WHATSAPP

Quelli della mia generazione sono cresciuti sotto un’altra luce, il sorriso illuminante di quando papà e mamma trovavano il tempo per frequentare le persone a cui tenevano, coltivare i legami, affrontare la vita con una condivisione costruttiva che si ripercuoteva anche sulla nostra vita sociale.
Si generalizza dando sempre la colpa ai cambiamenti sociali, alla routine supersonica che ci stritola come sardine, al tempo che non è mai abbastanza, come se poi non fossimo noi i padroni del nostro tempo.  Basta con questo buonismo ipocrita che specula sui sentimenti e riprendiamoci un pizzico di vena polemica per vedere le cose come stanno: le minacce della solitudine dopo l’autoconvincimento che l’intensità delle nostre amicizie via WhatsApp sia direttamente proporzionale alla crescita delle visualizzazioni dei nostri stati.

Nei legami non esistono diritti acquisiti o tramandati. Non era chiaro neanche ai parenti che reclamavano attenzioni e considerazioni sula base di quest’ultimi. Parafrasando Kingsmill che ripeteva “Gli amici sono il modo in cui Dio chiede scusa per i parenti”, potremmo chiudere il cerchio così: I legami arrugginiti via Whatsapp sono il modo in cui siamo ingrati verso Dio per averci donato amici veri.

Torniamo ad essere costruttori di legami autentici.

Peppino, Peppino, figlio dell’amore in quale vicolo batterà il tuo cuore…

Questa foto antica degli anni ’30 mi riporta con prepotenza nel cuore della mia Napoli, tra le pagine di storie private che, mattone dopo mattone, hanno costruito l’Italia del secolo scorso.
Le persone comuni come Peppino sono state la calligrafia di queste pagine dell’Italia povera ma bella, prima sotto le bombe della guerra, poi sotto la luce della rinascita, il boom economico degli anni ’50, le feste fatte in casa degli anni ’60 a ritmo di twist, e poi ancora vita, vita, tanta vita.

Peppino, Peppino, figlio dell’amore
In quale vicolo o strada, batterà il tuo cuore
In quale culla di pietra pura
Imparerai, la vita è un’avventura

Peppino è stato questo e tant’altro ancora. Nel centro storico di Napoli lo scambiavano per un attore hollywoodiano. Pochi sapevano che dentro il diluito del suo sorriso si nascondeva l’amore infinito per la madre Concetta, il dolore per averla persa troppo presto, l’essere diventato da un giorno all’altro l’ometto di casa, la sua protettività per la sorella Giulia e il fratellino Ciro.

Peppino, Peppino, tu la dovrai amare
Amare è dura e senza frutti al sole
C’è più coraggio nella fantasia
La vita tua diventa mia

C’è una scena che mi torna in mente tutte volte che penso a Peppino. L’ho immaginata tante volte, decenni dopo, sulle gambe di nonna Lucia. Lui con il fratello e la sorella sul’uscio di casa di mia nonna, in silenzio, come in un fotogramma del cinema di Vittorio De Sica.
L’Italia della rinascita era fatta anche di questo, di accoglienza, dell’amore di una zia per i nipoti, che da quel giorno si fece amore materno, incommensurabile.

E da solo andrai verso il mio domani
Con i tuoi occhi e con i miei occhiali
E non sei solo, solo nell’amore
Peppino dai i tuoi occhi al cuore

Quando penso a quel gesto d’amore del secolo scorso mi convinco che la classificazione e i gradi di parentela restano un’effimera invenzione degli uomini. E oggi più che mai continuo a calpestare le briciole dei vaporosi legami coltivati nei fiumi delle chat di Whatsapp. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di vivere legami densi, come quello tra me e Peppino, deve reagire alla pochezza dei giorni nostri: la vera ricchezza della vita è fatta di legami d’amore costanti e questo tempo in cui sopravviviamo lo ha dimenticato, se n’è privato per rincorrere l’effimero.
Nel vuoto per non averlo salutato l’anno scorso tra lockdown e pandemia, mi sento risollevato dal ricordo come quella volta in cui, dal bancone di una profumeria in via dei Mille, mi prese in braccio e mi presentò con orgoglio al suo titolare.

Cani randagi nella notte scura
La vita, no, non fa paura. (antonello venditti)

Di Peppino ne resterà uno solo in questa vita. Peppino, mio zio.

Starsky e Hutch, si può essere amici per sempre?

Mi ha profondamente commosso uno scatto che da qualche giorno circola in Rete: un anziano signore dell’età di mio padre spinge la carrozzella dell’amico. Non sono due persone qualunque Paul Micheal Glaser e David Soul. La loro fama di attori è aver prestato il volto sul piccolo schermo a Starsky e Hutch, protagonisti della famosa serie televisiva dell’ABC che quelli della mia generazione aspettavano con trepidazione per continuare a sognare il primo viaggio negli USA.

Mentre i social network ci vomitano addosso scenette casalinghe di finti legami, pane per i denti del voyeurismo facebookiano, due vecchie glorie del cinema e della televisione americana sanno darci una bella lezione: le amicizie vere e durature possono nascere anche sul posto di lavoro, su un set televisivo dove lo star system fagocita competizione sfrenata, peggio del veleno dei serpenti, mettendo in secondo piano i valori dell’amicizia.

Oggi si può essere ancora amici per sempre? Questo bell’andare di corsa e chissà in quale direzione non è consolante perché abbiamo smesso di guardare negli occhi l’altro.
Ci accontentiamo di scarti, di misuratori virtuali, senza volere ammettere che qualsiasi tipo di legame, un’amicizia in primis, deve seguire le orme e i passi della trasformazione, della crescita e del cambiamento di ciascuno.

Paul, attraverso la spinta di quella carrozzella, ha prestato le gambe a David ricordandogli che, se papà da piccini ci faceva salire sulle spalle per riuscire a guardare il mondo, un amico autentico ti presta volentieri “le sue gambe” per farti percorrere l’ultimo miglio. 

Sì, può essere amici per sempre? Non occorrono trattati o le solite canzoni da masticare come un chewingum. Questo scatto può farci fare qualche considerazione, perché non si tratta né di un vezzo di tenerezza né di un fotogramma di Starsky e Hutch con la mano abile di uno sceneggiatore. Sono Paul e David, due amici cresciuti l’uno sulle orme dell’altro, in un arco di tempo che si chiama vita.

Nonni per sempre nella grande festa della vita

festa-nonni-2-ottobreLa mia vita è spaccata a metà. I primi 23 anni sotto la custodia dei miei nonni Pasquale e Lucia, gli ultimi venti senza di loro. Il dolore per la perdita immensa spettinò i miei vent’anni, li scapigliò e mi fece rendere conto che non avrei mai avuto bisogno di una festa dei nonni per ricordarli.

I nonni non si celebrano, si vivono, qualsiasi sia il rendiconto da pagare, anche quello di sovrapporli ai genitori. I parenti sono suppellettili, è legittimo svincolarsi lungo il corso della vita.
I nonni no, soprattutto coloro ai quali abbiamo consegnato la chiave d’accesso alla nostra nascita, infanzia, adolescenza, al nostro divenire uomini. E questo non perché li incoronai nonni  proprio con la mia nascita, all’alba dei loro cinquant’anni.

Non è questione di posizionamento, nonostante le dicerie popolane insistano che il primo nipote sia come “il primo amore”, non si dimentica mai. E’ questione di accoglierli nella propria vita come fari della quotidianità, senza ridurli alla coppia di anziani da andare a trovare qualche domenica a pranzo.

Ho lasciato che i miei nonni ingombrassero la mia vita con amore, saggezza, presenza quotidiana, coinvolgendoli in qualsiasi cosa facessi, senza l’odiosa soggezione che alza muri e barriere. Nonno Pasquale e nonna Lucia mi hanno fatto ricco, lasciandomi una grande eredità: i piccoli e grandi segreti di famiglia, un patrimonio della memoria per affrontare la vita e imparare a distinguere le persone mediocri da quelle altruiste, fatte di sostanza e non di apparenza gonfiabile.

Nonno Pasquale mi donò un’edizione del libro Cuore degli anni ’50, su cui aveva scritto il suo testamento: “Leggo e rileggo questo libro e più mi rendo conto che non tutti gli uomini sono cattivi verso il prossimo. Che Iddio non si dimentichi mai di me”. Dopo la sua scomparsa, nonna Lucia esaudì il mio desiderio di far scolpire queste parole sulla sua lapide.

Non ho bisogno della Festa dei Nonni o dei bagordi di una ricorrenza per fingere di essere stato un nipote premuroso. Loro restano sostanza del mio divenire e il vuoto vissuto per la loro perdita di allora si è trasformato nel dondolio di memorie e futuro. Ci ritroveremo un giorno, come se niente ci avesse mai separato, nella soffitta dell’eternità.

Benvenuta Eleonora Maria, che mi fai zio alla vigilia del compleanno

zio_nipotinaRosario PipoloQuando 40 anni fa mi svegliarono all’alba di una domenica d’autunno per portarmi alla clinica dov’era nata tua mamma, ero convinto di selezionarla attraverso la vetrata del nido. Chi mi aveva messo in testa che le sorelle si sceglievano come al supermercato?

In questi nove mesi, cara Eleonora Maria, ti ho aspettata in un trepidante silenzio, perché la volgarità e il chiasso di questo tempo mi hanno fatto rivalutare l’eloquenza della riservatezza. Si tratta di preservare fasi importanti della vita dalla dilagante estraneità appartenente ai tanti invasori del nido di intimità, che per fortuna culla, a nostra insaputa, la voglia legittima e continua di cambiamento.

Quarant’anni dopo lo sbarco dalla luna di tua mamma, che cambiò la rotta della mia crescita per scipparmi alla tristezza di restare figlio unico, arrivi tu dalla medesima luna, restituendo alla mia esistenza un ponte tra passato e futuro. Ad una manciata di ore dal mio compleanno, ci legano come un filo di spago teso lo stesso segno zodiacale e i rimandi dei nostri nomi alla ragazza madre di un grande profeta dell’umanità.

C’è chi fa lo zio per passatempo, chi per legame di sangue, chi per un ruolo sociale, chi per dovere morale. Io non riuscirò ad esserlo per nessuno di questi motivi. Da viaggiatore della vita, infilato nei panni del Corto Maltese della matita di Hugo Pratt, sono scappato dalla tribù e dai regimi sociali della famiglia, schivando l’altalena del vivere per apparire, per dare un senso ai legami costruiti strada facendo.
Io e te, Eleonora Maria, saremo fatti dello stesso impasto dei sogni della vita che condivideremo. Non sarò un compagno di viaggio noioso che vuole dare insegnamenti. Le lezioni della vita le ho cercate e ricercate, ho disobbedito alla scolastica dell’eredità, ho difeso a denti stretti la libertà individuale, perchè senza di essa non ci può essere libertà collettiva.

Eleonora Maria, difendila la tua libertà di esistere, a modo tuo, anche se un cantautore non riuscirà a scriverti una canzone, un regista a dedicarti un film, uno scrittore a farti giocare a nascondino in un romanzo, un pittore a farti specchiare su una tela.
Sii te stessa quando ti accorgerai di avere un paio d’ali per attraversare in volo la vita, senza perdere di vista i piccoli dettagli, perché sono proprio quelli a far della felicità il sottile equilibrio tra crescita e mutamento dell’anima. 

La tua bellezza abbaglia di luce questo nuovo giorno e tu sei il regalo di compleanno più bello della mia vita. Grazie per aver aspettato che mi staccassi dal PC  e dalla scrivania per vederti, alle 19.05 in punto, venire alla luce. Che sbadato, non mi sono presentato. Mi chiamo Rosario, sono tuo zio.

Buon viaggio nella vita, Eleonora Maria.

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La Festa della Mamma che verrà

Rosario PipoloOsservando diversi “pancioni” intorno a me, mi vien da pensare che questo 10 maggio annuncia la Festa della Mamma che verrà, quella dell’anno prossimo, quando il bimbo o la bimba saranno tra le braccia della neo mamma.

Tutto sommato si potrebbe condividere già un accenno visto che, nel grosso marsupio naturale, c’è il nascituro che scalpita per affacciarsi alla vita.
Prospettiva apparentemente diversa è quella del figlio, soprattutto quando accade che la mamma non c’è più e, ripensando alla Festa della Mamma dell’anno precedente, mai avremmo immaginato che sarebbe stata l’ultima condivisa insieme.

Da una parte scatta lo sgomento di non trovarla più al posto suo per farle gli auguri, darle un bacio, lasciarle sulla credenza del soggiorno il mazzo di fiori profumato che le piaceva tanto. Dall’altra fiorisce una rabbia istintiva,  perché non poter festeggiare la mamma è un’ingiustizia per noi figli.

Ecco che germoglia la festa della mamma che verrà. Non si tratta di un abusivismo nel giorno dedicato a tutte le mamme, piuttosto di un ampliamento di visuale ciclica che abbraccia passato e futuro.
Restiamo figli per sempre, anche quando abbiamo un nuovo nucleo familiare, anche quando ci ritroviamo randagi solitari dall’altra parte del mondo.

La Festa della Mamma che verrà non è recintata nella claustrofobia emotiva di una domenica, ma va al di là di ciò che è stato il nostro legame con lei nella quotidianità della vita. E’ ritrovare un rapporto unico e continuativo che galleggia nell’universo, un amore scritto all’alba della vita. Perciò la Festa della Mamma che verrà non è dedicata solo alle “mamme in dolce attesa”, ma anche a tutti i figli testardi e convinti che lei verrà.

Tradimenti e la parabola del backyard

Rosario PipoloTradimenti, piccolo perla della drammaturgia di Harold Pinter, ha quasi quarant’anni ma non patisce l’invecchiamento, soprattutto oggi che la labilità di qualsiasi legame è messa alla prova. Il tradimento verso gli altri e verso noi stessi, di qualsiasi entità, dovrebbe essere spedito al patibolo, senza “se” e senza “ma”.

Sulle bacheche di Facebook in tanti starnazzano, perché delusi dal piccolo o grande tradimento subìto dalla compagna, dal collega di lavoro, dall’amico di una vita, dalla moglie, dal vicino di casa, dal fidanzato, dal parente. Potrei andare avanti ancora tanto.

Quelli più insidiosi restano i “tradimenti minuscoli”, quasi impercettibili, che minano una relazione molto più di quelli eclatanti e che fanno rumore. Sfogliando le pagine della drammaturgia religiosa, il rinnegamento dell’apostolo Pietro, passato in sordina, è più infido rispetto al tradimento di Giuda Iscariota e alla svendita di un amico per trenta miserabili denari.

Attraverso i social network ci disabituiamo a tutelare una relazione autentica: ci illudiamo che una manciata di “like” o un paio di repost di vecchie foto patinante di nostalgia aggiustino tutto. Incide l’arroganza e la spavalderia 3.0, che ha abbattuto la colonna portante di un legame: entrare a far parte della vita dell’altro è un privilegio da non sciupare e non è poi così scontato il reintegro.

Il backyard di una casetta inglese mi lasciò una lezione durante il primo viaggio in Inghilterra nel 1988: si chiuse la porticina della cucina e finii nel cortiletto posteriore senza riuscire più a rientrare. Pur facendo ancora parte dell’unità abitativa non avevo più accesso alle mura domestiche.

Questo episodio mi ispirò la parabola del backyard, ovvero la parabola dell’isolamento senza saldi, resoconto perfetto di cosa capita a chi viene allontanato improvvisamente dalla nostra vita, in silenzio, senza sollazzi chiassosi.

Tornando alla commedia di Harold Pinter, nel ’78 Tradimenti fu un feroce attacco contro l’ipocrita middle-class britannica. Oggi invece che la crisi globale ha sbiadito i contorni della classe media, la pièce teatrale è un punto di partenza per una riflessione generica sul tradimento, la molla che può far scattare in noi la legittima voglia di calpestare la mediocrità, lentamente e in silenzio, senza sconti.

Aznavour Anthologie, un bagno di musica nel legame con Lilina Bazin

Rosario PipoloE’ complicato mettere mano al repertorio musicale di Charles Aznavour, monumento della musica francese e d’oltralpe. Universal Music Francia è riuscita nell’ardua impresa, raccogliendo nel meraviglioso cofanetto Aznavour – Anthologie, prodotto in soli 10.000 esemplari numerati, i 45 album del cantautore francese arricchiti da altri 15 cd tra inediti, rarità, duetti e interpretazioni di classici in italiano, spagnolo, inglese e tedesco.

Ci sono due momenti del mio lavoro che mi riportano all’autore di successi come A ma femme, Il faut que savoir, Tous le visages de l’amour (She): la recensione del concerto del 2010 in piazza San Marco a Venezia e l’incontro a Milano di alcuni anni prima. Del concerto ho il ricordo di un’ugola che, in prossimità dei 90 anni, castigò l’orchestra che non riusciva a stargli dietro, regalando un memorabile canto a cappella.
A Milano invece Aznavour era venuto a presentare un libro. Mi feci strada tra la gente e, a pochi metri da lui, spalancai la copertina apribile di un vecchio disco Barclay. Interruppe il rito degli autografi. Fece cenno di farmi passare. Gli occhi gli brillavano. Io e Charles Aznavour restammo in silenzio faccia a faccia. Mi tolse il pennarello da mano e mi firmò il vinile senza che aprissi bocca.

In quel silenzio, così come in questo bagno di musica, la voce di Charles Aznavour si lega inesorabilmente a quasi un secolo di storia francese, dalla grande illusione della Quarta Repubblica alla dolorosa Guerra d’Algeria, dalle contraddizioni del Gaullismo al socialismo machiavellico di Mitterand, dalle ombre di Chirac sulla rivolta delle banlieue parigine ai gossip di Sarkò.

Il tempo barerà pure ma non riuscirà mai ad importi le canzoni. Quelle di Charles Aznavour hanno accompagnato la vita di tanti francesi adottati come Lilina Bazin, il cui ricordo mi restituisce legami e affetti che non hanno bisogno di inutili schemi.
La musica non inganna. Ti aiuta a superare i momenti difficili, perché una canzone non si ascolta mai da solo. La spartisci sempre con qualcuno o con il ricordo di un momento vissuto ma con la piena coscienza che l’intensità dell’attimo è fuggiasca. Aznavour era figlio dell’Armenia, Lilina era figlia del Sud Italia, concimato nella famiglia messa al mondo nel Sud della Francia.

E oggi questo bagno di canzoni francesi, da cucire e ricucire, da tradurre e ritradurre, è un buon pretesto per ricordarla non solo come zia sensibile e premurosa ma come punto di riferimento per chi come me trovò, proprio grazie a lei, una parte delle radici perdute nella Francia cantata da Charles Aznavour.

Diario di viaggio: I bambini ci guardano

Rosario PipoloAvevo pressappoco l’età di Joseph quando vidi la prima volta il film di De Sica I bambini ci guardano. Quel titolo mi rimase impresso e me lo sono ritrovato spesso tra i piedi. Joseph – anglofonizzai il suo nome di battesimo appena lo vidi girovagare per casa a carponi – nacque qualche anno dopo il mio trasferimento a Milano. Conosco sua madre da quando aveva 13 anni e andavo a trovarla con la mia vespa rossa.

Joseph è cresciuto vedendomi comparire a casa sua di rado. Non ero un viso assiduo e riconoscibile. Fino a poco tempo fa pensavo di essere stato negli anni della sua crescita una comparsa. Mi sbagliavo. Il mio andare e venire mi aveva fatto dimenticare una piccola verità: I bambini ci guardano, appunto. Tre anni fa trascorsi una serata a casa sua. Mi staccai dal gruppo e me ne andai nella sua cameretta. Mentre lui giocava alla playstation, gli parlai di me, gli raccontai di ciò che avrei dovuto fare e non riuscivo più a fare. Era tardi ormai. Joseph interloquiva con me, ma mi parlava di tutt’altro: dei suoi giochi, della noia dei compiti nelle vacanze, di sua madre che era in soggiorno con gli ospiti.

Qualche settimana fa mi sono ritrovato Joseph alla presentazione del mio libro. Lo osservavo mentre mi ascoltava. Era proprio lui, era diventato un ometto. E quado abbiamo fatto la foto assieme, mi sono ricordato che “i bambini ci guardano”. Ed è come se il figlio della mia amica avesse compreso che, tra le pagine del mio romanzo, fossero assiepate le confidenze che gli avevo fatto anni addietro. L’indomani sono passato a casa di Joseph. Prima di andare via – non lo aveva mai fatto prima – mi ha afferrato per un braccio e mi ha rimproverato: “Adesso riparti. Quando ritorni?”. Per la prima volta da quando lo conosco, Joseph aveva mollato i suoi giochi e le sue cose per trattenermi.

I bambini ci guardano, appunto. Io e Joseph eravamo cresciuti assieme ed avevamo condiviso un dolore comune: il distacco da ciò che ci apparteneva. Con due significati diversi era successo quando avevamo cambiato casa. Io e il piccolo Joseph non eravamo più comparse, ma eravamo tornati ad essere protagonisti della reciprocità del nostro legame.

I bambini ci guardano, appunto. Mi sono voltato e ho visto scomparire Joseph dietro il cancello. I suoi occhioni scuri mi hanno sussurrato: “Stringi i denti. Vai, insisti. Chi ama, non sbaglia mai.”

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Diario di viaggio: “Senza pregiudizi, così vorrei amare”

Sono arrivato nel loro studio alla periferia d Napoli in un lunedì d’estate. Sarà stata la scusa di chiedere ad una psicologa ed un’educatrice come si può fare a cancellare la sindrome per cui, nel primo giorno della settimana, sono assalito dall’ipocondria. Scherzi a parte, il motivo della mia visita era un altro. Anna Riva ed Eugenia Russo trasformano storie di vita vera in fiabe.
Lo slogan “Una fiaba per te” è una sorta di provocazione terapeutica che potrebbe aiutarci a raccontare i legami intensi che ci fanno affrontare meglio il quotidiano. Sappiamo bene che un legame è in continua trasformazione e una fiaba invece lo coglie nella sua sospensione.

Senza far passare la nostra conversazione per un’intervista, ho chiesto in modo sfrontato: “Cosa impedisce ad una fiaba di staccarsi dal ramo della sospensione e tornare ad essere una foglia di vita vera?”. Anna ed Eugenia tengono a precisare che non danno risposte attraverso i loro racconti, ma provano a guidare il lettore. Allora mi è venuto in mente il pregiudizio di chi continua ad alimentare la diceria che una fiaba sia robetta per bambini.

A questo punto ho fatto una riflessione: sono proprio i pregiudizi a privare una fiaba di tornare ad essere uno stralcio di vita vera, di quotidianità vissuta, perché sono loro che impediscono a qualsiasi legame di crescere. Il pregiudizio che chi ci sta di fronte non sarà mai capace di cambiar rotta con l’aiuto dell’altro; il pregiudizio che la diversità non sia lo stimolo dell’arricchimento reciproco; il pregiudizio che nel rapporto di coppia uno dei due debba per forza finire sul banco degli imputati.

Lasciando lo studio di Anna ed Eugenia, mi è tornata in mente una canzone di Giorgio Gaber. L’ascoltai per la prima volta nel ’94 in occasione del teatro-canzone E pensare che c’era il pensiero. Da allora non ho mai smesso di riascoltala al buio, fissando gli occhi sulla lucina rossa del mio giradischi: “Quando sarò capace d’amare mi piacerebbe un amore che non avesse alcun appuntamento col dovere; un amore senza sensi di colpa, senza alcun rimorso, egoista e naturale come un fiume che fa il suo corso”.
In camerino con il Signor G parlai proprio di questo brano, Quando sarò capace di amare per l’appunto. E forse oggi mi lascerebbe chiudere questa meraviglia a modo mio: “Senza pregiudizi, così vorrei amare”.