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Mai più ferite: Tifiamo per la Francia agli Europei di calcio 2016

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Rosario PipoloFuori dal campo, per non fare uno sgarbo alla nostra Nazionale Azzurra, tifiamo per la Francia a questi Europei di calcio 2016. Sugli spalti dello Stade de France c’è ancora il ricordo spettrale degli attentati di Parigi dello scorso novembre.

La minaccia del terrorismo è sempre dietro la porta e la Francia è in una posizione di difesa nei giorni di una guerra che non vuole finire. I francesi hanno dato prova di grande forza, come i belgi del resto, nel ritornare alla quotidianità mettendo in guardia chi ci vorrebbe far vivere nella paura del recluso.

Non siamo reclusi, vogliamo continuare a viaggiare, a guardarci nelgi occhi a lume di candela in un ristorantino del X arrondissement, a sentirci legati al nostro Paese sullo spalto di uno stadio, ad ancheggiare abbracciati stretti stretti ad un concerto al Bataclan.

Tifiamo per Parigi a questi Europei di calcio, sorridendo davanti alla Torre Eiffel che palleggia – proprio come nel doodle che oggi Google dedica all’evento sportivo – e sospirando travolti dell’energia di questa fiumata di gente per strada.

Tifiamo per Super Victor, il bambino con il mantello e i super poteri in volo sugli stadi francesi di Euro 2016. Per tanti è una mascotte temporanea con il sorriso stampato sulle labbra, per i parenti delle vittime è il volto fanciullesco di chi rinasce tutti i giorni, in un ricordo, in un sogno tappato, in una storia taciuta dal dolore.

Tifiamo per la Francia a questi Europei di calcio 2016. Non è un capriccio, non è un omaggio strappalacrime, è piuttosto il ritrovamento di un germoglio seppellito dentro di noi che calpesta estremismo e populismo, colpevoli di insanguinare l’immaginario collettivo con l’aberrazione della multietnicità.

Vietato attraversare i binari: Casalnuovo di Napoli perde la sua Raffaella

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Rosario PipoloHo attraversato l’Italia in treno per centinaia di migliaia di chilometri e ho visto di sbieco persone di tutte le età attraversare i binari senza usare il sottopassaggio. Peggio ancora li ho visti a quei maledetti passaggi a livello, che non dovrebbero esserci più nei centri abitati, correre di corsa prima che il treno passasse.

A un mese di distanza dalla modella distratta dalla musica e travolta da un Frecciarossa attraversando i binari a Milano, ecco l’ennesima tragedia. Questa volta è accaduto dall’altra parte dello stivale, sulla linea ferroviaria Napoli-Caserta via Cancello che conosco benissimo. Raffaella, 20 anni, è morta sul colpo dopo aver attraversato i binari, al passaggio a livello del centro abitato di Casalnuovo di Napoli. L’intera comunità è sotto choc ed è legittimo dopo l’ennesimo accadimento che dimostra quanto manchi la cultura della sicurezza in Italia.

Qui, infatti, non è una questione di Sud o Nord Italia, ma di un Paese intero. Nel 2015 sono stati registrati 89 decessi di pedoni sui binari e la regione colpita maggiormente è la Lombardia.  La Campania è in quinta posizione. Quanto fanno le istituzioni locali per sensibilizzare sul tema giovani e meno giovani?

Il miglior modo per riscattare la morte di Raffaella non è lasciare mazzetti di fiori a ridosso del maledetto passaggio a livello, quanto convincere gli amministratori locali a finanziare una campagna di sensibilizzazione sul tema. Il buon esempio potrebbe partire proprio dai primi cittadini delle città con le stazioni sulla linea ferroviaria Napoli-Caserta via Cancello.

E’ vero, siamo noi i responsabili di questi accadimenti quando ci mostriamo irrispettosi delle norme di sicurezza. Tuttavia, diventano complici anche le istituzioni quando non mettono un territorio, distratto dal flagello di tanti disagi sociali, nelle condizioni di affrontare la vita di tutti i giorni con la consapevolezza che la sicurezza è un pilastro della nostra civiltà.

Trenord, la sicurezza in treno è un diritto di chi lavora e chi viaggia

Rosario PipoloPercorrendo in treno più di 30.000 chilometri all’anno attraverso la regione Lombardia, per giunta in qualsiasi fascia oraria, mi calza a pennello l’appellativo con cui mi incoronò un capotreno qualche anno fa: “L’instancabile viaggiatore su rotaie”.

L’aggressione ad un capotreno e un macchinista, avvenuta la settimana scorsa su un treno locale nella stazione di Milano Villa Pizzone, merita solidarietà e supporto non solo dei pendolari, i quali giorno puntano il dito contro la mala gestione locale di Trenord e i costi eccessivi dei titoli di viaggio.

Richiede un piano di intervento immediato dell’azienda, che ha il sacrosanto compito di garantire sicurezza ai propri dipendenti, mettendoli in condizione di svolgere al meglio il proprio lavoro, anche durante i turni serali e notturni. Richiede la voce grossa della Regione Lombardia, perché le istituzioni siano convinte che ora ci vuole il pugno di ferro, accartocciando la strumentalizzazione politica che vorrebbe la tolleranza sulla lancetta a Sinistra e l’intolleranza sulla lancetta a Destra.

Ho visto uomini e donne, tra i trenta e i cinquant’anni, nelle vesti di capotreno gestire criticità davanti ai miei occhi, da soli, persino sulle linee ferroviarie che, appena fa buio, si trasformano in un set dell’orrore: provate a viaggiare dopo le 8 di sera su un convoglio locale che da Pavia si spinge verso Genova o tra Lodi e Piacenza dove, a ridosso delle stazioni di Casalpusterlengo o Codogno, sembra di essere finiti nel vecchio West in attesa del momento migliore per l’assalto alla diligenza.

Dei soldi che ci spillano dall’abbonamento mensile o dal biglietto di una corsa semplice quanto viene investito da Trenord e Regione Lombardia per la salvaguardia della sicurezza del viaggio sui treni locali?
L’efficienza nel trasporto locale non si misura solo in manutenzione delle vetture ma nel far sentire chi lavora o chi viaggia al sicuro a qualsiasi ora, anche quando a fine ottobre si spegneranno le luci del luna park di Expo 2015.

Carlo Di Napoli ha rischiato di perdere un braccio e il suo compagno di sventura di morire. Chi sarà il prossimo? Lo slogan di Trenord “Your Way To Expo” con 380 treni al giorno si sbiadisce se viaggiare sui binari ci fa correre chissà quali rischi. Qui non si tratta di sgominare semplicemente una gang di criminali, ma di attivare un piano di intervento per la sicurezza che ci faccia tornare ad essere “instancabili viaggiatori su rotaie”.

Il 1° maggio nella tuta da lavoro di papà, amico dell’Uomo Ragno

Rosario PipoloDa bambino accostavo il 1° maggio, festa dei lavoratori, ad un indumento: la tuta blu che tutte le mattine mio padre si infilava per andare a lavoro. Provavo per quella tuta una sorta di amore e odio.
Da una parte mi piaceva, perché faceva assomigliare papà ad uno dei Fantastici 4; dall’altra la detestavo, perché me lo portava via e non mi restava che la sera per trascorrere del tempo con lui.

Mi raccontava di cosa faceva al lavoro con dei buffi scarabocchi, improvvisati al momento con una biro rossa e nera. All’alba dell’infanzia identificavo il lavoratore con papà che, nella mia visione, era un supereroe: si arrampicava sui tralicci, più alti del condominio dove abitavamo, e portava l’illuminazione ad intere città. Per non farla lunga, mi convinsi che papà era “amico dell’Uomo Ragno”, anche se lui stesso non ne faceva un vanto.

Ricordo una domenica notte di dicembre. Ci fu un nubrifagio che colpì parte del mio territorio, restammo senza luce e corrente elettrica per quasi due giorni.  Papà uscì di notte per l’intervento di emergenza e non si ritirò nei due giorni successivi. Ero spaventato. Nonostante fossi rassicurato dal fatto che papà fosse uscito con il suo casco giallo, dall’altra chiedevo al pupazzetto dell’Uomo Ragno di proteggerlo perché “da amico” doveva stargli vicino.

Fu a quel tempo che iniziai a percepire la minaccia degli incidenti sul lavoro.  Ho conosciuto diversi coetanei della mia generazione che non hanno visto tornare più il papà, perchè caduti da un’impalcatura e finiti nella tragica lista delle morti bianche.

Nel 2013, in occasione di una presentazione del mio romanzo nella zona in cui aveva lavorato papà, conclusi una lettura tenendo in mano la sua tuta blu. Fu un modo per ricordare  i tanti lavoratori che non sono tornati più a casa ad abbracciare i figli, con cui oggi voglio condividere il significato e l’essenza di questo 1° maggio.

A quarant’anni sono convinto ancora che mio padre sia “amico dell’Uomo Ragno”, con la differenza che dietro la la tuta del supereroe della Marvel si nascondano gli angeli “custodi” che Wim Wenders fece volare sopra Berlino in un film zeppo di suggestioni.

Alluvione, i social media tolgono fango a Genova e Parma. I bonus dei manager no!

Rosario PipoloIl Nord Italia è stato travolto dal fango tra Genova e Parma piegate in due dall’alluvione. All’inizio del 2014 scrivevo su questo blog: “L’Italia non è un paese di prevenzione, non lo è mai stato e non riesce ad esserlo al tempo in cui le casse degli enti locali si svuotano per i rimborsi truccati di qualche scellarato che collezione scontrini di carta igienica e albi a fumetti”.

Non è cambiato nulla e, per dimostrarlo,  bastarebbe fare un copia e incolla di vecchie conversazioni disperse tra Facebook e Twitter. Riscriveremo pari pari lo stesso copione. Amarezza e rabbia, basta. Le istituzioni, incapaci di prevedere e tutelarci da catastrofi ambientali di questa portata, dovrebbero prendere lezioni dai social media. In stato di emergenza sanno come far ritrovare uomini e donne di tutte le età, mettendoli di fronte al fatto compiuto.

Mentre a Genova “i manager dei disastri passati”, elencati da Corriere.it, si godono i premi ricevuti tra i 6 mila e i 17 mila euro, i genovesi tolgono il fango con la cantilena della voce da megafono in stile arrotino ambulante: “Non vi lasceremo soli”.
Piuttosto a non lasciare sola la città ligure sono i presidi social efficaci, dalla pagina Facebook Angeli col fango sulle magliette all’account twitter @farmaciaserrage, eccellenza digitale e caso unico in Italia di Farmacia social che fornisce continui aggiornamenti utili alla community in ambito salute.

In questo momento Genova e Parma sono travolte dall’insolito destino, quello di far parte di un Paese come l’Italia in cui il business del cemento prevale sulla politica della sicurezza del territorio e sulle bonifiche che non saranno mai compiute.

Io non nacqui “pastaiolo”: Nestlè, Buitoni e lo scempio alimentare della carne di cavallo

una scena dal film "Ratatouille"

Rosario PipoloPastaiolo si nasce e non si diventa. Ed io non lo nacqui, nonostante la cicogna mi abbandonò all’ombra del Vesuvio tra le coccole dei vermicelli Voiello e la pasta corta di Gragnano. E adesso che negli ultimi tempi mi stavo convertendo ai ravioli di brasato Buitoni, devo reprimere questa inclinazione padana. Diciamolo pure: da quando le multinazionali hanno messo le grinfie sui brand nostrani, anche la pasta si è trasformata in un “nemico pubblico”. Nestlé china il capo, fa marcia indietro e ritira dal mercato italiano ravioli e tortellini di manzo perché ci sono tracce di carne di cavallo.

Dal colosso svizzero vogliono rassicurarci che non corriamo pericolo, come se poi un ritiro repentino dagli scaffali fosse il gesto galante in materia di sicurezza alimentare. E sarebbe uno scacco matto di fantapolitica alimentare se scoprissimo che nei Baci Perugina, appena regalati a San Valentino, ci fosse chissà quale latte mischiato alle nocciole? E’ legittimo farsi prendere dalle fobie del consumatore medio e chiedersi perché l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare sia stata incapace di prevenire uno scandalo di tale portata.

L’Europa non è altezza del compito, in Italia chi ci tutela in tal senso? Dopo lo scandalo dimenticato delle mozzarelle blu, eccoci con scempio della carne equina. Il pranzo è servito. Mettiamocelo bene in testa: la diceria nazional-popolare della marca è andata a farsi benedire da un bel po’. Pastaiolo si nasce e non si diventa. Ed io non lo nacqui.

  Carne equina, Codacons attacca

Terremoto in Emilia-Romagna: La sicurezza si paga con il sangue

La prima nozione di geografia appresa alle scuole elementari fu: L’Italia è un paese sismico ed quindi soggetto a terremoti”. Questa pappardella mise la pulce nell’orecchio a tutti gli scolaretti che come me vissero il disastroso sisma dell’Irpinia del 1980. Io fui un bambino fortunato rispetto a tanti coetanei: la mia casa subì soltanto qualche lesione e non ci furono vittime tra i miei familiari.

Vivo in un paese smemorato e di questo ne sono consapevole ogni giorno che passa. Ci piangiamo addosso? All’occorrenza. Non sono bastati i campanelli d’allarme degli ultimi trent’anni – i terremoti in Umbria, Marche, Molise e Abruzzo – a farci prendere coscienza di prevenzione ed intervento.

Nei giorni bui che stanno facendo tremare l’Emilia-Romagna, sarà tornata agli ambientalisti la pappardella fatta inghiottire dalle nostre maestre e continuano a civettare per la messa in sicurezza del suolo italiano. Ci vorranno 15 anni, giusto la metà del tempo che i precedenti governi hanno utilizzato per sperperare soldi e portare avanti opere pubbliche inutili. Senza contare il peso sulle coscienze dei vecchi gendarmi della Prima Repubblica, che misero i terremotati dell’Irpinia per vent’anni tra le mura impietose di una baraccopoli, mentre loro se la spassavano in ville lussuose.

Infine, però lasciamoci con un appunto in merito a “la sicurezza”: il buio era già oltre la siepe quando gli operai sono tornati sul posto di lavoro e hanno trovato la morte. Non era stato fatto alcun controllo sull’agibilità delle strutture dove erano in corso attività produttive. E non raccontiamoci frottole: chi è tornato a lavoro lo ha fatto per scacciare il terrore di restare disoccupato ancora una volta ed essere vittima dell’ennesimo ricatto sociale.
Sembra azzeccata la riflessione di John Lennon: “Lavoro è vita. E senza quello esiste solo paura ed insicurezza”. E questa volta per aiutare i terremotati dell’Emilia-Romagna non basterà un sms da 2 euro o acquistare una forma di Parmigiano che stava andando a male. Gli aquilani ne sanno qualcosa.

Sabato di merda: L’addio a Morosini dall’Italia che sputa su Piazza della Loggia

L’Italia è ammutolita, tifosi e non, per la scomparsa in campo di Piermario Morosini. La morte del centrocampista venticinquenne del Livorno sabato a Pescara ha fatto il giro dei social in fretta e furia e su alcune bacheche di Facebook in molti si chiedevano: “Si può morire alla sua età faccia a faccia con un pallone?”.

Dall’altra parte della barricata era già bella e pronta la ramanzina. La prevenzione ha motivo di esistere quando si tratta di un arresto cardiaco? Mettendo da parte l’intralcio dell’auto dei vigili urbani, è legittimo un dubbio. All’interno di una macchina da guerra, pardon “da business”, come il calcio, quanto impegno spendiamo nel nostro Paese per tutelare la salute dei calciatori? Le malelingue risponderebbero che, con tutti i quattrini in tasca, i giocatori potrebbero permettersi il lusso di avere mezza clinica mobile ad personam.
Ci chiediamo se gli stadi siano davvero attrezzati come dovrebbero – senza distinzione di serie A o B – e quali siano in realtà gli investimenti in tal senso. Purtroppo viviamo in un paese in cui si agisce quando scatta l’allarme e può scapparci il morto. Senza mettere in conto l’adeguata formazione che manca ai soccorritori, in difficoltà al momento dell’insorgenza della criticità.

Tuttavia, nei tanti minuti di silenzio dedicati a Morosini lungo tutto lo stivale, ci siamo dimenticati delle vittime dell’attentato a piazza della Loggia a Brescia, i cui assassini l’hanno fatta franca una volta e per sempre. Quei morti, accartocciati nella memoria sbiadita degli Anni di Piombo, hanno subìto gli sputi dell’Italia assassina, quella ammantata nella stessa nonchalance di chi non avrebbe voluto sospendere il campionato, perchè dopotutto i calciatori devono essere macchine da guerra. E’ stato un sabato di merda, perchè siamo stati incapaci di unire un lutto sportivo a quello della nostra memoria civile.

Trenord e l’inferno sui binari: passeggeri “in ostaggio” sul treno Milano-Luino per quasi tre ore!

L’inferno sui binari: quello che è accaduto ieri in Lombardia poteva trasformarsi davvero in una tragedia. Un lunedì nero che noi viaggiatori non dimenticheremo e racconteremo ai nostri figli sotto forma di favoletta per dirla tutta: ecco uno dei motivi per cui vergognarsi di vivere in questo Paese, l’Italia, che si è scordata a casa il senso della civiltà. Sono ancora in frigo le bottiglie di spumante per il recente battesimo di Trenord, la società nata dalla fusione di Trenitalia e Ferrovie Nord, che già si brinda al flop più colossale degli ultimi dieci anni su una delle linee ferroviarie più trafficate della Lombardia: passeggeri in ostaggio sul treno Milano-Luino per quasi tre ore.
Ieri alle ore 17.45 il treno Milano – Luino è partito con qualche minuto di ritardo. A pochi chilometri dalla stazione di Rho, ci sono stati i primi rallentamenti e poi uno stop interminabile. Le vetture erano senza aria condizionata, le lancette dell’orologio avanzavano, ma il personale di Trenord non forniva alcuna informazione ai passeggeri sulla lunga e inspiegabile sosta. Intorno alle 18.35 si è saputo che il treno aveva subito un guasto ed erano in arrivo i soccorsi. Intanto, tutti i treni in direzione Varese e Domodossola subivano ritardi imprecisati.
Alle 19.10 tutto taceva e così tra i passeggeri c’è stato qualcuno che ha cominciato ad alzare il tono della voce, mentre una donna si è sentita male. Come gestire una situazione d’emergenza come questa? Affidandosi all’improvvisazione, perché era la soluzione più spicciola per essere degni di questa Italia folcloristica e chiassosa: il locomotore di soccorso non riusciva ad agganciare il treno guasto e, dopo due ore di prigionia nei vagoni puzzolenti di Trenord, era legittimo gridare: “Siamo in ostaggio. Ci avete sequestrati”.
Il treno è ripartito a passo d’uomo. A pochi metri dalla stazione di Vanzago, il personale di Trenord ha perso di mano il controllo della situazione e così sono state aperte le porte del treno. Un centinaio di persone si sono riversate sui binari, percorrendo a piedi gli ultimi metri per raggiungere la stazione, rischiando di finire stirati da un treno. Sono intervenute le forze dell’ordine, ma ormai erano superate le 20 e i passeggeri inviperiti hanno costretto il treno per Domodossola a fermarsi. Peggio ancora: l’altro treno, che viaggiava anch’esso con 140 minuti di ritardo, aveva l’aria condizionata così al minimo che alcuni passeggeri si sono sentiti male all’altezza della stazione di Busto Arsizio, mentre una bimba piccola piangeva disperatamente per il disagio. Se non fosse stato per la solidarietà di tutti i passeggeri, chissà quale brutta sorpresa ci sarebbe stata.
E adesso cosa ne sarà di questo vergognoso accadimento? Passerà inosservato come gli altri o sarà la buona volta che le associazioni a tutela dei consumatori e dei pendolari intervengano con serietà e determinazione?  Questa volta fosse pure un passeggero solo ad esporre denuncia, Trenord non deve far finta di niente.

Facebook per Alberto Bonanni, il musicista pestato a Roma

A Milano i maxi concerti sono nelle mani di ridicolo comitato anti-rumore, a Roma invece si finisce ammazzati se si suona. Insomma, spero di non rischiare anche io di brutto, quando la sera faccio sobbalzare (scherzosamente ed educatamente) il mio vicinato con la musica di Pearl Jam, Ac/Dc e Led Zeppelin.
Ad Alberto Bonanni, un giovane musicista di 29 ani, è andata davvero male. Era in un locale di Monti, nel cuore della capitale, quando è stato picchiato brutalmente da un branco di giovani. Perché? Un uomo era sobbalzato dal balcone, lamentando lo schiamazzo e inseguendo Bonanni con un bastone. La serata musicale a The Saylor’s si è trasformata in un incubo e questo pestaggio brutale è un altro segno dell’incoerenza e della prepotenza che si aggira nelle sere d’estate nelle nostre città
Alberto è in fin di vita ed si parla addirittura di “morte celebrale”. E questa volta a supportare gli agenti nella ricerca di quei maledetti assassini è stato proprio Facebook. Infatti, grazie al social network abitato da 20 milioni di italiani sono riusciti a risalire ad uno dei colpevoli, che ha ridotto in questo stato il chitarrista romano di una delle Tribute band degli Iron Maiden.
Intanto, su Facebook è stata presa d’assalto la pagina “Suonare per Alberto Bonanni pestato a morte a Roma” dove si segnalano diverse iniziative per dire basta a questi atti di violenza. Alberto non aveva fatto lo scassinatore di timpani, ma aveva appena smesso di suonare. Sulle corde di quella chitarra appesa ad un chiodo, chi strimpellerà i sogni di una vittima? Dove c’è musica, c’è socialità. Dove c’è socialità, c’è vita.