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Berlinguer, ti voglio bene

Rosario PipoloBerlinguer ti voglio bene, perché l’11 giugno del 1984 rubai a papà un giornale. Sulla copertina primeggiava un sorriso, il tuo, e la scritta “Ciao, Enrico”. Cosa si poteva chiedere ad un ragazzino, a ridosso degli esami delle Elementari, a cui gli anni del riflusso avevano messo in mano i robot giocattolo di Goldrake e Jeeg Robot? Conservare quelle pagine di carta e sfogliarle quando sarebbe cresciuto.

Berlinguer ti voglio bene perché, quando malavitosi e criminali nascondevano sotto le acquasantiere delle chiese “i pizzini” con le istruzioni per votare i papponi democristiani, l’Italia fetida abbassò lo sguardo davanti al sequestro di Aldo Moro: “da una parte l’uomo inserito, che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo. Perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo”.

Berlinguer ti voglio bene, perché in quella chiacchierata con Giuseppe Bertolucci ritagliai tante piccole storie accadute sul set che trasformarono un film con Roberto Benigni nel manifesto di una generazione.
Ed io, allevato da un operaio e una casalinga al tempo dei misfatti del Pentapartito, me la giocai all’università tanti anni dopo, durante l’esame di Storia Contemporanea. Da dilettante azzardai in quella seduta le orme di una partita scacchi per un confronto di crescita con il compianto Aurelio Lepre, non in qualità di professore della Federico II di Napoli ma di uno dei più grandi storici marxisti del nostro Mezzogiorno.

Berlinguer ti voglio bene, perché la classe politica di questa Seconda Repubblica sembra uscita dal deposito di un burattinaio, confermando il presagio che “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”.
“Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona”,
canticchiava Gaber sulle note della sua chitarra. E chi non era comunista allora – aggiungerei oggi – era un sognatore, perché Berlinguer era una brava persona.

Berlinguer ti voglio bene, perché le ideologie prima o poi finiscono in pasto al revisionismo, a differenza delle persone che si sono messe di traverso al destino, facendo dei sogni la profezia per avere un mondo più giusto, umano, equo, vivibile, in cui l’essere protagonisti non riguarda una ristretta minoranza.

Ricomincio da Massimo Troisi vent’anni dopo

Fonte: Repubblica.it

Rosario PipoloDi quel 4 giugno del 1994 ho un doppio ricordo: da una parte la telefonata ricevuta a casa dalla redazione, in cui mi comunicavano che sarei stato io a scrivere un pezzo sulla scomparsa prematura di Massimo Troisi. Dall’altra il concerto di Pino Daniele, Eros Ramazzotti e Lorenzo Jovanotti allo stadio San Paolo di Napoli aperto così: “Sono passato a casa di Massimo ma mi hanno detto che lui era già qui”. Il lungo applauso e la commozione sulle note di Quando.

Detesto gli anniversari che il più delle volte concimano nostalgie canaglie come le ricorrenze obbligate a cui è quasi irrispettoso sottrarsi. La maschera di Massimo Troisi, rivissuta all’ombra del Vesuvio sotto tante sembianze e a volte sottomessa alla volgorità del kitsch, resta quella dell’ultimo Pulcinella dell’età contemporanea. Me lo ricordò in un’intervista Ettore Scola, che lo aveva diretto in Il viaggio di Capitan Fracassa. Il cinema ci rende ombre immortali, il palcoscenico ci consegna nelle mani degli dei che sanno come farsi beffa di noi comuni mortali, il cabaret ci libera dagli schiamazzi dei populisti.

Troisi in effetti non ha bisogno di commemorazioni, perché non se n’è mai andato. Quando chiacchierai con Lello Arena ed Enzo De Caro, in occasione della pubblicazione di Enaudi della Smorfia nella collana Stile Libero, notai che i due compagni di viaggio di Massimo ne parlavano sempre al presente. E persino all’anteprima del film Il Postino al Festival del Cinema di Venezia, intravidi negli occhi commossi di colleghi ed addetti ai lavori in Sala Grande un Troisi in essere.

Massimo Troisi resta ispirazione necessaria per lasciarsi alle spalle la Napoli chiassosa e volgare, depressa e minacciata dagli stereotipi. Persino quando lo incrociamo disegnato sul cartone di una pizza da asporto, Troisi sa ricordarci la sua napoletanità sottovoce che, attraverso uno scalpitio garbato, sa ancora come illuminarci scrollandosi di dosso l’odioso vittimismo. Meriterebbe di essere studiato a scuola nelle ore di filosofia. Perciò noi figli di quella generazione in esilio da Napoli dalla fine degli anni settanta, per rincorrere i sogni e le illusioni del Nord industrializzato, ci chiamiamo Ugo e non Massimiliano. Abbiamo imparato la lezione.

Scrivere per 20 anni: dai primi passi con Domenico Di Meglio allo slogan “Vai da Spoto, lui ti salverà!”

Rosario PipoloIl 18 febbraio 1994 arrivai di buon mattino all’edicola del molo Beverello di Napoli. Acquistai la copia del quotidiano Il Golfo e vi trovai il mio primo articolo. Mi fece effetto vedere un pezzo firmato da me che primeggiava nella pagina Cultura e Spettacolo. Si trattava di un’intervista a Milva, rilasciatami in un camerino del teatro Diana di Napoli, che avevo battuto con una Olivetti Lettera 35 fregata a mia sorella.

Cominciò proprio vent’anni fa un’avventura che, oltre a divenire una professione, mi ha procurato il beneficio di conoscere tanta gente, viaggiare, acuire lo spirito di osservazione. Domenico Di Meglio, il compianto direttore ischitano che aveva seguito i miei primi passi, continuava a ripetermi: “Se vuoi sopravvivere in questa giungla, vuoi capirlo che devi occuparti di cronaca e lasciar perdere musica, teatro e cinema?”. Si rassegnò quando, alcuni anni dopo, ricevetti una lettera da Milano firmata da Ugo Ronfani, che mi ammetteva nell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Ero tra i più giovani in Italia.

Oggi i ricordi si affollano, si attorcigliano, mi abbracciano in un lungo flashback. Quella notte a sbobinare l’intervista, il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere, la compagnia del fedele registratore a cassette, l’arrivo a casa con la copia del giornale. Nonna Lucia era in cucina a preparare la cena. Mi chiese di leggerglielo ad alta voce. Mi diede una carezza e poi, qualche anno dopo, prima di andarsene via mi strinse la mano, sussurrandomi con l’ultimo filo di voce: “Te la caverai sempre. Stringi i denti e va’ per la tua strada”.

Oggi, proprio come allora, torno nelle edicole del golfo di Napoli. Esce a mia firma su “Il Dispari”, il quotidiano che ha ereditato la lezione del giornalismo di Di Meglio, un mio contributo che racconta i primi passi e come finii “naufrago” sull’isola di Ischia. La mia crescita proseguì nelle grandi redazioni, dove continuai ad imparare il mestiere, mettendo sempre avanti la passione per superare le difficoltà di una professione in continua trasformazione.

Prima del trasferimento a Milano, che segnò il trasloco dalla carta stampata al digitale, mi trovai per le strade di Roma a rovistare per il futuro. Da figlio di un operaio e di una casalinga non ho mai avuto “santi in Paradiso”, ma angeli custodi sì. Quel pomeriggio nella Capitale mi dissero: “Vai da Spoto al Messaggero, lui ti salverà. E’ generoso, viene dalla gavetta, si è fatto da sé e crede nei giovani”. Salvatore Spoto era un noto cronista del quotidiano romano. Ed io: “Cosa vuoi che farà con uno come me che scrive di spettacolo?”.
Ero demoralizzato. Non andai in via del Tritone. Avevo in tasca pochi spiccioli. Non bastavano neanche per una corsa in autobus. Mi infilai sul primo treno, ripartii con l’amarezza di non esserci stato.

Oggi, in occasione di una ricorrenza speciale, busso alla porta del celebre cronista di Roma che, senza saperlo, è stato l’angelo custode dei miei sogni in questi lunghi anni. Sono legittimi. Appartengono al ragazzo di periferia di ieri che, nonostante i capelli brizzolati, non ha perso la passione e l’entusiasmo necessari per andare incontro alle sfide del futuro. Aspettando il 18 febbraio, torno a battere sulla macchina da scrivere Olivetti 35 il testamento che mi lasciò il mio direttore Domenico Di Meglio: “Guagliò, sei cresciuto ormai. Continua a camminare con le tue gambe”.

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Vent’anni di interviste nel backstage della memoria, da Dustin Hoffman a Annie Lennox

IN EDICOLA – Scrivere per 20 anni, i miei primi passi con Domenico Di Meglio

Ricordare John Fitzgerald Kennedy nel “mio viaggio” 50 anni dopo

Rosario PipoloVoglio ricordarlo così John Fitzgerald Kennedy con uno scatto ingiallito del ’92 che mi ritrae a Washington di fronte a quella fiamma che arde su pezzi di marmo gelido. Voglio ricordarlo attraverso un viaggio: da fresco diplomato, figlio di una casalinga ed un operaio, che sognò di diventare Forrest Gump per mettere piede alla Casa Bianca e stringere la mano al Presidente, ammazzato a Dallas il 22 novembre di 50 anni fa.
L’anziana signora, che portava al guinzaglio un barboncino bianco nel cimitero di Arlington, aveva stretto la mano a JFK. Me lo raccontò quel pomeriggio. Era rimasta affezionata al Presidente e, appena poteva, passava a fargli un salutino al camposanto.

Voglio ricordarlo così John Fitzgerald Kennedy, senza scomodare il mio archivio e tirare fuori alcuni ritagli di riviste che misi via una marea di anni fa. Nel 2005, durante i settemila chilometri di traversata in USA con un autobus, feci tappa a Dallas. Non fu casuale.  Cercavo persone che avevano assistito al tragico corteo texano, volevo memorie, ricordi. Non trovai niente. Pochi rimasugli erano assiepati al Museo del Sesto Piano, sorto nell’edificio da dove JFK  fu ammazzato.
Me ne tornai a mani vuote, ma con il peso in valigia delle contraddizioni che sobbarcano la coscienza degli Stati Uniti d’America. Il Presidente più mitizzato d’oltreoceano era stato partorito dal grembo delle lobby e del potere, per giunta cattolico, ma pur sempre un democratico. Finì come un martire, dando spunti a giornalisti, sceneggiatori e scrittori per sostenere la legittima teoria del complotto, che andava oltre il perimetro semplicione della Guerra Fredda.

I colpi che fecero fuori JFK, riflessi nel volto spaurito di Jackie nelle sequenza più celebre della tv in bianco e nero, spazzarono via l’idillio degli “Happy Days” degli anni ’50 e infilarono tanti bottoni nel tunnel della guerra del Vietnam, nel diktat dei petrolieri texani, nel ghigno del rivale di sempre Richard Nixon.
L’America canterina mise al tappeto l’America sognatrice nello stesso giorno in cui, per ironia della sorte, in Gran Bretagna usciva l’album musicale “With the Beatles”. La colonna sonora dei Kennediani doveva essere il fronte del palco che si spartivano Bob Dylan e Joan Baez. Fu invece la canzoncina sensuale Happy Birthday, Mr. President di Marilyn Monroe, che affrescò la Casa Bianca con le prime pennellate di impeachment, prima ancora che la volgare Monica Lewinsky venisse al mondo.

Dopo mezzo secolo ancora mistero, fiction, menzogne, complotti, rimorsi, rimpianti. Allora non c’era Wikileaks per beffeggiare la CIA o l’FBI. Ci restano un mucchio di foto ingiallite con in cima quella in cui John John saluta il feretro del papà Presidente. E pensare che c’era il figlio di un operaio e di una casalinga che voleva stringere la mano a JFK. Forse ero io.

Diario dell’11 settembre: Rosalba Caruso, la prof. antiborghese che mi portò nel Cile senza Allende

Rosario PipoloIn un pomeriggio autunnale del 1986, nelle ultime ore del tempo prolungato a scuola, prese una ciurma di ragazzotti brufolosi per portarli a vedere un film. Rosalba Caruso, professoressa antiborghese di una scuola media alla periferia Napoli, prenotò il laboratorio e fece ingoiare al videoregistratore il film “Missing” di Costa-Gravas. Fu un atto coraggioso. Gli altri insegnanti si preoccupavano di rispettare i programmi ministeriali, lei trasformava la sua passione di docente in stimoli per noi alunni di provincia tra le mura di una scuola pubblica. Le sequenze della pellicola con Jack Lemmon fecero ammutolire tutti, persino i miei compagni più irrequieti, gli stessi che gettarono la maschera da bulli per bagnarsi gli occhi di lacrime davanti al dramma delle madri dei desaparecidos.

Rosalba Caruso, di estrazione cattolica cresciuta tra quattro mura borghese, aveva un’intelligenza e un sensibilità tali da svestirsi di qualsiasi etichetta, quelle che il sottobosco paesano avrebbe voluto metterle addosso. All’uscita da scuola, passeggiammo assieme e mi ricordò che le rivoluzioni non si fanno con i bagni di sangue, ma con la forza delle idee. Persino la penna e l’inchiostro potevano essere nel silenzio più efficaci di una spada. Mi mise tra le dita una Bic blu. L’ho conservata in tutti questi anni. La tirai fuori solo nel ’94 – l’anno in cui una brutta malattia me la portò via – per scrivere sul suo feretro “Grazie, professoressa. Ti ho amata come il figlio che non hai mai avuto”.

Oggi, 11 settembre 2013, a quarant’anni dal Golpe in Cile che sfregiò il volto di una parte del Sud America, ho tirato fuori la penna che mi regalò Rosalba Caruso. Non è più la penna di un alunno, ma quella di chi scioglie i suoi 40 anni in un urlo di rabbia e di dolore nell’11 settembre che si prolungò nella dittatura militare di Pinochet, tra la complicità dell’America di Nixon e l’omertà del Vaticano.
La mia intervista a Jorge degli Intillimani nel 2005 fu una scusa per esplorare, attraverso la musica, le ferite del Cile e dei suoi esiliati. Quando uscì il film 11 settembre 2001 ero in Sala Grande al Festival del Cinema di Venezia e contribuii ai lunghi applausi che accompagnarono l’episodio firmato da Ken Loach. La sequenza si chiudeva con uno scrittore cileno che scriveva agli americani: “Oggi, 11 settembre, noi ricorderemo i vostri morti, ma voi, per favore, ricordate anche i nostri”.

Parole di rabbia: Dieci anni senza Pierangelo Bertoli

L’Italia ha bisogno di anniversari per offuscare la lucida smemoratezza che la rende insopportabile. Le mie sono “parole di rabbia” oggi, in una puntualità che assomiglia a quella di un orologio svizzero. Sono dieci anni esatti senza Pierangelo Bertoli, uno dei cantautori più dimenticati dal Belpaese. Al diavolo gli anniversari, le belle parole dell’Italietta che storse il naso quando vide “il poeta musicista” in carrozzella al Festival di Sanremo, in contrasto con i filantropi dell’estetica e delle veline dell’Ariston. I più cafoni pensarono che il duetto con i Tazenda fosse un esordio; i più arguti si commossero a rivederlo, perchè sapevano la lunga strada discografica di Periangelo Bertoli.

Nei dieci anni senza il cantautore di Sassuolo, l’Italia non è cambiata. Continua a mentire, ad essere più corrotta di prima. Bertoli lo urlò a squarciagola venti anni fa, con “Italia d’oro”, pochi mesi prima che annegassimo nel letamaio di Tangentopoli. Intanto gli intellettuali di carta pesta si ostinavano a politicizzare musica e canzoni: Fabrizio De Andrè era di Sinistra; Lucio Battisti era di Destra. Il pregiudizio è la malattia cronica del Belpaese, incapace nel tempo debito di valorizzare – tranne qualche rara eccezione – colui che seminò senza fronzoli la ballata folk nella terra modenese, che lo aveva allevato e nutrito.
Pierangelo Bertoli aveva capito che la canzone, per restare “popolare”, non dovesse essere “musica leggera”, ma entrare nel cuore della gente con uno stile intimo. Bertoli impastò storie di vita vissuta e paesaggi sfuggiti alle nostre distrazioni; riabilitò riflessioni sociali sfuggite dal qualunquismo degli anni del riflusso; scaraventò “a muso duro” la verità in faccia ai bugiardi per cui i deboli, gli emarginati, gli ultimi potessero essere gettati nel fuoco del dimenticatoio. Il coro di voci amiche che lo ha ricordato a Campo Volo lo scorso 22 settembre impugni una promessa: incidere nel prossimo album una canzone di Bertoli per far conoscere il suo verbo tra le giovani generazioni.

Venticinque anni fa, in una sera d’inverno, giravo per Napoli con cinquemila lire in tasca. Le spesi tutte per acquistare un vecchio disco di Bertoli: l’Album. Lo aprii, c’erano foto in bianco e nero di lui assieme alla sua famiglia. Mi venne voglia di marinare la scuola, fuggire a Sassuolo, bussare al campanello e farmi raccontare altre storie, come quelle infilate in quel vinile del 1981. Non l’ho mai fatto. Voglio farlo. Restare in silenzio a casa sua e farmi raccontare dai figli il significato di aver avuto un papà straordinario.

In questa notte guerriera, rispunterà la luna dal monte. E’ la luna di Pierangelo, che continua a farci sognare e sperare.

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50 anni con i Beatles oggi: Perchè un minorenne scappò a Liverpool

Non c’è nessuna icona della musica contemporanea che sia legata ai luoghi natali come i Beatles. In giro ci sono tante città-santuario, come la Graceland di Elvis Presley, ma non fanno altro che imbalsamare il mito. Per Liverpool invece è tutt’altra storia: quei posti sono vivi, Penny Lane o Strawberry Fields concimano nel territorio urbano la working-class di un tempo, tra dock e “ red bricks on the wall”.
Almeno lo erano fino a vent’anni fa, prima dell’invasione dei pellegrini del low cost di Ryan-air, prima che il comune optasse per la scelta infelice di cambiare alcune strade, di abbattere edifici fatiscenti, di dedicare ai Beatles tributi kitch qui e lì.

Io mi sono perso invece proprio tra quegli edifici fatiscenti, nell’estate del 1990, ancora minorenne, alla ricerca di posti e persone che avevano ruotato attorno ai quattro ragazzotti di provincia anglosassone: dalla vicina di casa di Paul alla birra con Williams, il primo manager; dall’abbraccio con un fantomatico zio di John alla passeggiata assieme ad una donna, figlia di una Anne che in gioventù aveva pomiciato con Pete Best.
Mezzo secolo fa, proprio oggi con il singolo “Love me do”, i Beatles entrarono nella storia personale di più generazioni; venticinque anni fa bussarono alla porta della mia adolescenza: ci sono entrati, ci sono rimasti per sempre, con costanza.

Sono stati la colonna sonora di gran parte della mia vita, ma non mi sono bastate le canzoni, gli album, i cimeli racolti nel tempo. Volevo guardarli da vicino, da giovanotti grezzi di periferia, prima che la Londra di Abbey Road li risucchiasse, trasformandoli in quattro baronetti metropolitani e sofisticati.
Mi accaparrai una mappa e scovai una cinquantina di posti, anche minori, che spesso parlavano più di quanto magari facessero Menlove avenue o il Cavern Club: una scalinata dove John e George si era fermati; il letto di un ospedale pubblico dov’era nato Ringo; un incrocio qualunque che aveva strappato via a John la madre Julia.

Le canzoni dei Beatles sono venute prima e dopo. Giusto in mezzo però c’è Liverpool, quella di vent’anni fa, che aveva raccontato un miracolo avvenuto nella Gran Bretagna del secondo dopo guerra: la classe operaria andò in paradiso con quattro sbarbatelli, cresciuti nell’Inghilterra “cafona”, che mischiarono sogni, poesia e musica come se fosse un gran bel gioco, destinato per volontà degli dei a non finire mai.

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50 anni di Rolling Stones: da un’audiocassetta al concertone con 15 euro!

Negli anni ’60 o stavi con i Beatles o con i Rolling Stones. Non esistono le mezze stagioni, nella musica come nella vita. Per la mia generazione è stato diverso. I Beatles si erano sciolti da un bel pezzo, mentre Mick Jagger e compagni con alti bassi continuavano a darci dentro, anche in maniera pesante.
I Rolling Stones festeggiano 50 anni in questo afoso 12 luglio. Per me questo non è il solito anniversario nostalgico, annacquato dal marketing della discografia musicale, ma la solita scusa per propagandare che certi brani balzano di striscio nella nostra vita e ci cambiano dentro.

Ho conosciuto gli Stones attraverso un’audiocassetta Maxell 60 che mi fece ascoltare Bob Bridger nel 1988. Succedeva proprio in questi giorni: era il mio primo viaggio in Inghilterra, a Ramsgate nel Kent. Sul lato A c’erano i Beatles e su lato B gli Stones. Ero un adolescente irrequieto e romantico, mi attaccai alla gonnella delle canzoni dei baronetti di Liverpool. Eppure Mick Jagger e compagni non mollarono mai la presa, me li ritrovavo sempre, soprattutto quelli degli anni ’70, che nel mio ciclo universitario fecero da scudo a chi invece, tifando per il rock grezzo e potete del Vasco di Zocca, diceva che le canzoni andavano ascoltate in italiano.
Cavolo, figurati se uno studente come me di Lingue Straniere si sarebbe sottomesso ai ricatti linguistici. Io la pensavo in tutt’altro modo: anche se non conoscevi l’inglese, certe canzoni aggressive dei Rolling Stones si scioglievano dentro di noi come l’acido. Per loro rischiai l’ultimo esame di Inglese all’Università: dinanzi ad una mini partitura tra le prime pagine dell’Ulisse di Joyce, me ne uscii con questa affermazione: “Se Joyce fosse venuto parecchi decenni dopo, forse qui ci avrebbe piazzato una canzone dei Rolling Stones per esprimere lo smarrimento di Leopold”.

Forse il prof. fece finta di non sentire e non mi buttò fuori dall’aula. Quando li ho visti dal vivo a Milano l’11 luglio del 2006, acquistando il biglietto a 15 euro e beffeggiando chi voleva far passare la musica live come roba da ricchi – scrissi alla fine della recensione: “Fuochi d’artificio, lapilli di luce, schegge irrazionali per dirci che l’incantesimo è finito, che per una volta ci siamo sentiti invincibili perché abbiamo varcato la soglia dell’eternità. E se questo è stato un sogno, un sogno collettivo adesso appartiene a tutti. Teniamocelo stretto”. Mezzo secolo ce lo siamo fatto scivolare dalle dita con errori e mostruosità. I sogni e le canzoni però teniamoceli stretti e non solo nel giorno di un compleanno.

Scusate il ritardo: Giovanni Falcone e le scadenze di un Anniversario

Questo post lo leggeranno in pochi. In Italia la memoria ha una maledetta scadenza: il giorno dell’anniversario.
Alcune estati fa, mentre i palermitani si arrostivano sotto il Solleone di Mondello, mi afferrarono per pazzo. Mi feci accompagnare in motorino al camposanto di Santo Spirito a Palermo. Chi vuoi che ci fosse al cimitero in un’afosa mattina d’agosto? Una coppia di beccamorti e un tizio all’entrata. Quest’ultimo mi guardò infastidito quando gli chiesi indicazione per la tomba del giudice Giovanni Falcone. Da dietro gli occhiali scuri mi rimproverò come a dire: “Se ne vada pure lei a mare ad abbronzarsi”. In effetti ero pallido come una mozzarella.

Pensavo di trovare lì la stessa fiammella, sempre accesa, che avevo visto a Washington sulla tomba del Presidente Kennedy. Avrebbe tradotto alla perfezione questo pensiero del giudice ammazzato a Capaci dalla Mafia il 23 maggio di vent’anni fa: Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.”
Era cappella come tante altre, con qualche fiore insecchito lasciato da qualcuno. Sporsi il capo all’interno e, leggendo i nomi sulle lapidi, mi convinsi che non avevo sbagliato luogo. Quella mattina d’agosto, girovagando nel centro storico di Palermo, ebbi la sensazione che Giovanni Falcone fosse uno qualunque. Eppure, qualche anno prima, ero passato nel capoluogo della Sicilia proprio a ridosso della marcia commemorativa dedicata a Falcone e Borsellino. Mi chiedo: la memoria ha bisogno dei rimbalzi emotivi dell’anniversario? Ieri i social nwtwork sono stati invasi da immagini e parole dedicate al magistrato ammazzato. E adesso? Dopo il ventennale della morte di Paolo Borsellino, quanto ci toccherà aspettare?

Un anniversario rischia di arrugginirsi in fretta quando non seminiamo memoria nella quotidianità, traducendo l’iconografia dei due magistrati martiri nelle minuscole concretezze del quotidiano: adottiamo console di videogame come babysitter dei nostri figli, invece di tradurre in fiaba il significato del coraggio; continuiamo a scambiare farabutti per eroi, invece di valorizzare le azioni invisibili dell’eroismo comune; lasciamo che i ricatti dell’invisibile illegalità entrino nel nostro quotidiano e per omertà chiudiamo un occhio, anzi due; ci illudiamo che mai nessuno alzerebbe le mani contro una scuola, senza mettere in conto che la lucida follia di un bombarolo potrebbe fare di tutto il contrario di tutto. Ogni mattina dovremmo dedicare un minuto di silenzio ad eroi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, perchè se possiamo guardare diritta negli occhi la persona che amiamo e sussarle “ti amo”, è anche grazie al loro atto d’amore verso un’ingrata civiltà, la nostra.

8 marzo, festa della donna: Volevo raccogliere un mazzolino di mimose a L’Aquila

Volevo fiondarmi per le strade diL’Aquila e raccogliere un mazzolino di mimose per questo 8 marzo. Non era una scusa per allontanarmi da Milano e dal solito tamtam, ma il desiderio di riflettere sulla festa delle donna nel capoluogo abruzzese.
Che illuso sono stato. Neanche il tempo di tracciare un itinerario decente che mi ricordo in che Paese io viva: una parte dell’Italia che sa come lavarsi le mani sottobanco, dopo che un terribile sisma ha seppellito i sogni e gli averi di tutta una comunità.

A tre anni dal terremoto che ha messo in ginocchio l’Abruzzo, pensavo di calpestare prati fioriti e invece ci sono macerie. La primavera non arriverà neanche questa volta. E se provassi a scavare come un forsennato, perché mai dovrei trovare l’ultimo ciuffetto di mimosa?
Mi affaccerò nelle case sventrate per raccogliere ritagli di diario delle donne che sono state vittime del terremoto: mamme che scrivevano di come fosse complicato restare punti di riferimento per i figli ; mogli in attesa che i mariti, vittime della scappatella maledetta, tornassero al nido per ammettere che l’amore vero dormiva ancora sotto le lenzuola rinnegate; nonne dagli occhi lacrimanti persi negli scatti di gioventù; bambine, a ridosso dell’ultimo respiro, schiacciate sul volto sfigurato delle proprie bambole di pezza; studentesse universitarie sul terzultimo ripasso prima del grande esame.

Mi sento un uomo inutile in questo 8 marzo. Oggi, spalancando la finestra sotto il cielo di L’Aquila, non vedremo il manto di rose rosse germogliato al posto della memoria oltraggiata. Accadrà tutto sotto le macerie.