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Viaggio nella New York al femminile

new-york-femminile-elisa-pasino

rosario_pipolo_blogFacendo due conti, l’anno scorso io ritornavo a New York dopo 23 anni ed Elisa Pasino intingeva la penna nel calamaio per cominciare a scrivere la sua guida New York al femminile, edita da Morellini. Che gusto retrò ha questa immagine della penna nel calamaio oggi che abbiamo digitalizzato tutte le dita della mano.

Ci sta bene pensando allo stile di scrittura della Pasino, che sa conservare tatto ed eleganza, in quel suo modo di essere penna e donna di altri tempi. Adocchiando la sua New York al femminile mi vien da scrivere che della noiosa compilazione di una guida turistica non c’è niente.
Anzi c’è quella punta di ricercatezza di chi ti prepara ad un viaggio creando la complicità con il lettore e svelando i piccoli segreti della Grande Mela, che sa come essere donna.

Eppure la femminilità newyorchese non ha niente a che vedere con lucidalabbra, mascara o fondotinta. Ha quel suo modo di manifestarsi in controluce, come conferma il cinema di Woody Allen quando tratteggia la Manhattan delle donne.
Nel mio ritorno autunnale nella Grande Mela avevo rimesso piede da Tiffany con la convinzione che l’essenza femminile di questo posto fosse tutto nella protagonista del romanzo e film che hanno fatto la fortuna del brand.

Il portiere si sentì leggermente imbarazzato quando sbraitai: “Dove è finito il volto gigante di Audrey Hepburn? Quanto siete ingrati nei confronti del sorriso di Holly che ha dato femminilità a questo tempietto sulla Fifth Avenue”.
Speriamo che la Pasino non legga questo ritaglio di viaggio, perché dopotutto lei sa che la femminilità di una città non deve  essere urlata, ma sussurrata con garbo.

Mi annoiano le guide turistiche, mi fanno sbadigliare. Qualche volta accade che un diario di viaggio metta il soprabito di una guida e prenda per mano il lettore. Essere presi per mano di questi tempi? Cosa rara e giusta. Mi è successo tra le pagine di New York al femminile.

Cartolina da Ground Zero: Io cristiano e lei musulmana nella preghiera del silenzio

Rosario PipoloChi non c’è stato prima dell’11 settembre non può capire l’effetto dirompente del pugno allo stomaco.  A fine luglio del 1992 arrivai dalla Long Island University sotto le Torri Gemelle: alzai lo sguardo verso il cielo, tirai fuori la macchina fotografica con un rullino da 36 e cominciai a scattare.

Dopo ventitré anni, ritorno nello stesso punto in un lunedì mattina di fine novembre e vi trovo un fossato gigante nel perimetro di un marmo con una sfilza di nomi scolpiti.
Ground Zero non è soltanto la ferita dell’America dissanguata dal Terrorismo, ma è soprattutto la zolla di terra bruciata da cui ha ripreso a muovere i passi New York.

Manhattan non è più la stessa, lontana anni luce da quella della celebre canzone cantata da Sinatra; dalle sequenze dei film di Woody Allen; dalle pagine culturali del New York Times che la ritraevano scintillante nella sua nudità riflessa nello skyline.
Il rumore del cantiere e delle ruspe è in netto contrasto con il silenzio e la compostezza di chi passa qui per riflettere senza cadere nella tentazione turistica della toccata e fuga come per dire “ci siamo stati anche noi”.

Ground Zero mi regala un incontro: Ghadeer, splendida ragazza di origine irachena, proveniente dalla Danimarca. A poco più di una settimana dagli attacchi di Parigi, condividiamo piccoli ritagli della nostre vite e il supporto comune all’hashtag “I Musulmani non sono terroristi”, circolato su twitter nelle ore postume al bagno di sangue al Bataclan.
Le racconto dei tempi in Francia in cui zia Lilina mi mandava a prendere il pane cotto a legna in una panetteria gestita da una famiglia musulmana di origine algerina. Avevano capito che ero un mangione di farinacei e me ne facevano assaggiare zolle appena sfornate.

Io e Ghadeer ci guardiamo negli occhi: io cristiano, lei musulmana, vogliamo dare un significato speciale a questo incontro. L’uno accanto all’altra con il vento tra i capelli e raggi di sole abbagliante, attraverso la preghiera del silenzio comune, raccogliamo le nostre anime a Ground Zero.

Quest’anno il mio albero di Natale è fatto con le foglie degli alberi piantati lì, non ha luci artificiali, non ha palle variopinte ma ha i colori autunnali newyorkesi. Il mio Giubileo laico si apre qui e la “porta santa” spalancata dinanzi ai miei occhi è la voragine di Ground Zero.

Cartolina da New York: Il mio Ringraziamento

Rosario PipoloTornare a New York dopo ventitre anni ha avuto un grande significato per me. Nell’agosto del 1992 avevo lasciato sotto le Torri Gemelle i sogni post-maturità, appesi al collo dei miei vent’anni.

Nel 2005, tra l’altro, avevo percorso 6.000 chilometri negli Stati Uniti sugli autobus della Greyhound, per guardare in faccia l’America della gente che faticava, lontana dalle lobby e dai palazzi del potere.

Il turismo di massa all’italiana, fatto dall’abuso di selfie nella Grande Mela, è ancora convinto che Manhattan sia una sequenza patinata di Sex and City piuttosto che il bianco e nero della fotografia di Gordon Willis nell’omonimo film di Woody Allen?
A scanso di equivoci ho vissuto New York attraverso lo sguardo della periferia, sulla lingua di frontiera tra Queens e Brooklyn, fingendomi un italo-americano e facendomi adottare da una famiglia di immigrati argentini di Rigerswood.

Teresa, oggi un’arzilla signora ottantenne, sbarcò all’ombra della Statua della Libertà insieme ai suoi tre pargoli all’alba degli anni ’70, lasciandosi alle spalle l’Argentina schiaffeggiata dalla dittatura.
Osservando la figlia Cristina che preparava l’imbottitura per il tacchino del Thanksgiving e le fusa della nipotina Isabelle, ho ripensato a quanto gli immigrati abbiamo contribuito a raddrizzare le contraddizioni delll’America, liberandola in parte dal denigrante odio razziale, ferita incolmabile insieme al bagno di sangue del Vietnam.

Il mio giorno del Ringraziamento è andato oltre la parata del “consumismo folcloristico” di Macy, condivisa assieme a tanti newyorkesi  tra la 77a strada e Central Park.
Forse sarebbe il caso che la Macy’s Parade, nata sulle ceneri di una festa degli immigrati, mandasse in pensione qualche pupazzone e qualche majorette di troppo per far sfilare i figli e i nipoti di tutti gli immigrati che hanno fatto quest’America, mattone dopo mattone.

A tavola con Teresa e la sua famiglia non mi sono sentito un abusivo, ma il coprotagonista di un momento di condivisione delle storie appartenenti a noi gente del Sud del mondo, tra Buenos Aires e Napoli.
La famigerata Festa del Ringraziamento sta diventando un rituale a cui gli americani si stanno disaffezionando perché, forse proprio come cantava John Lennon in Cold Turkey e in tempi non sospetti, “non riesco a vedere nessun futuro, nessun cielo, il tacchino freddo mi ha preso in fuga.” Siamo nell’America in cui la follia alla Trump riesce ad impugnare un microfono.

Diario di viaggio: Gli italoamericani e l’America che sta cca’

Rosario PipoloGli italoamericani sono entrati nel nostro immaginario collettivo anche attraverso il cinema e la televisione. Il più delle volte con quelle forzature che affogano nell’odioso cliché, da Il Padrino ai Soprano. In quanti si sono lasciati affascinare e convincere che il successo all’ombra della Statua della Libertà sia tutto in un pugno di ferro, nel tiro alla fune che fa del Vito Corleone o del Tony Soprano di turno il braccio violento d’oltreoceano.

Se però mettiamo in conto che una famiglia italoamericana, prima dei suoi codici e delle sue regole, custodisce con gelosia il meglio della sua italianità, allora forse è il caso di dire che l’America sta cca’, come canterebbero i Terrasonora, e non nel quadretto televisivo della famiglia patriarcale della serie Dallas, tramontata insieme alla politica pirotecnica reaganiana.

Nel 1963 dal Sud dell’Italia Luigi e Concetta sbarcarono a ‪New York‬ e cominciarono a Queens una nuova vita. Nell’arco di tempo che va dall’America dei Kennedy a quella degli Obama, Luigi e Concetta vantano oggi una famiglia numerosa: più di 45 persone tra figli, generi, nuore, nipoti e pronipoti.

Condividere con loro una cena a ridosso della Pasqua, mi ha convinto che incrociare gli italoamericani in Italia è come il boato di un tuono per la nostra memoria. Le complicazioni di un pianeta testardamente globalizzato hanno cancellato la soluzione del rebus tatuato sulla pelle di ogni civiltà che si rispetti: chi emigra dona un valore aggiunto al Paese che lo accoglie.
Guardando negli occhi Rocco, Antonietta, Catherine, Antonietta junior, Francesca, Gina Marie e Giovanna, spicchio di questa numerosa famiglia che porta nomi italiani ma parla una lingua straniera, mi sono detto: Dobbiamo qualcosa a loro per aver schiacciato il cliché citato all’inizio, esportando negli ‪Stati Uniti‬ l’immagine autentica dell’Italia laboriosa e onesta.

I viaggiatori come me in realtà non hanno la vita rinchiusa nella famiglia d’origine ma la frazionano con tante altre anime conosciute lungo il percorso della vita. Catherine e le sue sorelle mi hanno restituito quel senso di libertà che conquistai nel 2005, attraversando gli USA su un autobus della Greyhound per oltre seimila chilometri.
Nell’aprile di dieci anni dopo è l’America che viene a farmi visita, ricordandomi che non si è mai abusivi quando il viaggio si è compiuto per riprendersi una vita vissuta insieme agli altri. Così accade che un Paese straniero diventi improvvisamente nostro, facendoci scivolare di dosso la sfacciata leggerezza da vagabondo.

Dov’eri quel maledetto 11 settembre di dieci anni fa?

Caspita, sto pensando a dov’ero quel maledetto 11 settembre di dieci anni fa. E tu? Dalla parrucchiera; col culo incollato alla scrivania dell’ufficio; per strada illudendoti che fosse un giorno qualunque; a telefono afflitto dalle solite cazzate; a sbuffare sul divano perché ti toccava fare in fretta, se volevi recuperare l’interrogazione di latino del giorno dopo; in coda all’ufficio postale per inviare un pacco posta-celere ai cugini italo-americani; a litigare col tuo ragazzo; a dare la poppata a tuo figlio.
Dove c**** eri quel maledetto 11 settembre di dieci anni fa? Me lo vuoi dire sì o no?
Io a Firenze, rinchiuso in una sala cinematografica, a recuperare una vecchia pellicola in occasione di un convegno a cui avevo relazionato. Sono uscito tra il primo e il secondo tempo. Pensavo al discorso anti-americano del Nobel Harold Pinter pronunciato il giorno prima. Aveva imbarazzato tutti gli accademici. Mi sono girato, ho buttato l’occhio alla tv e ho visto un aereo schiantarsi nelle Torri Gemelle. Il solito film di fantascienza! Sono rientrato in sala e ho continuato come nulla fosse successo.
Al termine della proiezione, mi sono detto: che c**** ho fatto? Questo non è uno scherzo. E dopo dieci anni mi interrogo: chissà se ci fosse stato Twitter, come sarebbe andata. Chissà se l’uragano social avrebbe raddrizzato il marasma confusionario mediatico, svoltando oltre il cine-documentario alla Micheal Moore.
Gli dei hanno giocato sporco e nessuno ci ha fatto caso. A casa di mio zio Mimmo – che dopo dieci anni non c’è più – ho trovato un vecchio libro sul Cile di Allende. E mi sono ricordato dell’11 settembre, quello del ’73, in cui ero lì beato nella culla, mentre a Santiago del Cile prendeva il potere Augusto Pinochet. I cileni vissero un dolore e un dramma che ci hanno costretto a dimenticare. Forse è ora che ce ne ricordiamo in occasione di quest’altro anniversario.
Dove c**** sarai il prossimo 11 settembre? Io voglio starmene da solo, da qualche parte, a vagabondare come un eremita che si ostina a non credere che “tutto cambia per rimanere come prima”.

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L’altro 8 marzo: Per la Festa della Donna la mia mimosa alle vittime della Fabbrica Triangle di New York

Rosario PipoloLizzie Adler, 24 anni, contava i minuti perché finisse il turno. Forse fuori l’aspettavano le carezze del suo fidanzato. Ida Brodsky, 15 anni, non pensava di finire a fare l’operaia, perché alla sua età sognava di avere penna e calamaio e scrivere un tema sul libro che avrebbe potuto leggere la sera prima. Laura Brunetti, 17 anni, singhiozzava ogni volta che le passava davanti l’immagine d’oltreoceano della nonna che la cullava dolcemente, nell’Italia che i genitori avevano lasciato. Dora Welfowitz, 21 anni, aveva ricevuto una proposta di matrimonio e l’aveva presa seriamente in considerazione. Sarebbe uscita da quella maledetta fabbrica una volta per tutte, per fare la moglie e chissà la mamma a tempo pieno.

Julie Oberstein, 19 anni, e le due sorelle Lena e Mary Goldstein, 22 e 18 anni, si ritrovavano ogni volta davanti la solita vetrina newyorkese, sognando di avere abbastanza spiccioli per comprare quel cappello di chiffon. A Provindenza Panno, 43 anni, avevano regalato una piantina e le avevano assicurato: “Tutte le volte che ti mancherà, innaffiala e vedrai che prima o poi tornerà”. Suo marito si era imbarcato come marinaio su una nave e non era tornato più. Teresa Schmidt, 32 anni, aspettava impaziente la chiamata di un albergo per fare l’addetta alle pulizie. Così avrebbe potuto incantarsi ad osservare signori e dame che sbarcavano dalla sua Europa.

I nomi di queste donne sono veri, le storie appiccicate addosso sono frutto della mia immaginazione, che ha tentato invano di addolcire il ricordo crudele della loro scomparsa prematura. Fanno parte della lista delle 146 vittime riconosciute che persero la vita il 25 marzo 1911, nell’incendio della fabbrica Triangle a New York. A che serve ricordare queste operaie proprio l’8 marzo, nel giorno della Festa della Donna?

Perché il Giorno della Mimosa resti soprattutto il Giorno della Memoria ed è questo uno dei motivi per cui è stata istituita la Giornata Internazionale della Donna. Noi forse lo dimentichiamo quando tutto si frantuma nel becero business, nella mortificazione del significato autentico di quel fiore, nell’euforia di una notte che dà un calcio in culo alla memoria per uno streap tease mascolino, in cui il kitsch di un corpo nudo soppianta l’anima dell’essere umano.

No, c’è un altro 8 marzo e non vogliamo dimenticarlo. Perciò, quando offrirete un ramoscello di mimose alla vostra donna, accompagnatelo con un abbraccio intenso e prolungato. Restituite alla vostra fidanzata, a vostra moglie, alla vostra compagna, quel sogno che è stato strappato via a tutte le vittime della fabbrica Triangle.

Il mio 8 marzo sarà diverso dal solito: sosterò fuori una fabbrica e aspetterò all’uscita tutte le donne operaie. E sarà lì mezzo, che giusto un secolo dopo, cercherò il tuo volto. Cara Lizzie Adler, adesso sei una stella che brilla in cielo, ma io ti attenderò come un secolo fa ha fatto il tuo fidanzato. Ti restituirò i tuoi 24 anni perduti, attraverso quella carezza che mai ti arrivò, sperando che le mie mimose riscattino la memoria dalla banalità, senza farmi sentire escluso dal diritto di riflettere.

New York 8/12/2010 h.22.50 – Milano 9/12/2010 h.4.50, In memoria di John Lennon

Mother, Hold On, I Found Out, Working Class Hero, Isolation, Remember, Love, Well Well Well, Look At Me, God, My Mummy’s Dead,Imagine, Crippled Inside, Jealous Guy, It’s So Hard, I Don’t Want to Be a Soldier, Gimme Some Truth, Oh My Love, How Do You Sleep?, How?, Oh Yoko! , Woman is the Nigger of the World, Sisters O Sisters, Attica State, Born in a Prison, New York City, Sunday bloody Sunday, The Luck of the irish, John Sinclair, Angela, We are all Water, Cold Turkey, Don’t Worry Kyoko,Mind Games, Tight A$, Aisumasen (I’m Sorry), One Day (at a Time), Bring on the Lucie, Nutopian International Anthem, Intuition, Out the Blue, Only People, I Know (I Know), You Are Here, Meat Cit, Going Down on Love, Whatever Gets You Thru the Night, Old Dirt Road – (John Lennon/Harry Nilsson), What You Got, Bless You, Scared, #9 Dream,Surprise, Surprise (Sweet Bird of Paradox),Steel and Glass, Beef Jerky, Nobody Loves You (When You’re Down and Out), Ya Ya, Power to the People, Give Peace a Chance, Istant Karma, Happy Xmas (War is over), (Just Like) Starting Over,Cleanup Time,I’m Losing You, Beautiful Boy (Darling Boy), Watching the Wheels, Woman, Dear Yoko.

La tua musica ha solcato la mia adolescenza, i tuoi versi sono diventati la voce della mia coscienza. Allora come adesso ogni tua canzone resta la colonna sonora della mia vita, perchè nelle tue contraddizioni c’è l’affannosa ricerca dell’uomo di un mondo più giusto. Immagino che… Ed io voglio crederci ancora.
A John W. Lennon (1940-1980)

 

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Benedetta e l’alba di un nuovo giorno

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Rosario PipoloQuando ti ho vista piccina piccina tra le braccia di tua madre e mi sono accovacciato nei tuoi occhi, mi hai riportato all’estate del 1992. Benedetta, ho conosciuto tuo padre allora, durante una vacanza studio a New York: lui era un milanese con la faccia da secchione (mi incantavo quando mi parlava di James Joyce) ed io un napoletano con la faccia stralunata, malato di teatro e musica. Lo sai quando siamo diventati amici per la pelle? Condividendo una notte indimenticabile al Greenwich village, girando tra i locali, con pochi soldi in saccoccia e sperando di incrociare Bob Dylan o Woody Allen. Rincasando gli ho chiesto un prestito di 50 dollari per comprare il primo lettore CD! Me li ha dati e si è fidato di un napoletano. Quando sono stato a Milano al concerto di Paul McCartney, mi ha ospitato a casa sua ed ho trascorso delle belle ore. Non c’era Internet , Facebook o le email per comunicare, ma siamo rimasti in contatto. Quando nel 1998 sono venuto a Milano con una valigia piena di sogni, tentando in vano di trasferirmi, tuo padre mi ha aiutato in tutti modi pur di non farmi sentire “un emigrante”. Ricordo quando mi ha accompagnato alla stazione a prendere un Espresso notturno (un treno da film in bianco e nero!) che mi avrebbe riportato a Napoli. Mi ha dato una paccata sulla spalla come per dire ” i sogni possono esistere se lo vogliamo”. Ho pianto dallo sconforto, ma lui non se ne è accorto. Tutto questo per condividere con te, Benedetta, la voglia di sognare, sì con te che sei venuta al mondo da poco più di un mese. Saranno in tanti a voler farti indossare una camicia di forza, ma con un paio di sogni in tasca non ti sentirai mai sola. E’ bello ritrovarsi, soprattutto di questi tempi in cui i legami veri sprofondano nella superficialità. Ho ritrovato Francesco, marito e papà, e non è poco. Ti sono grato, Benedetta, perché nel tuo sguardo ho ripescato qualche briciola di me, all’alba di un nuovo giorno della tua vita, un dono immenso. Felicità.

8 dicembre 1980: la musica senza John Lennon

lennon150E’ raro che la data della scomparsa di un musicista lasci tracce così profonde nell’immaginario collettivo. John Lennon fu ucciso a colpi di pistola da un suo fan, Mark David Chapman, l’8 dicembre di ventotto anni fa. A New York, dinanzi al Dakota Building, la memoria resta viva come un rito: ogni anno uno sciame di persone si riunisce e gli dedica una fiaccolata. L’artista assassinato lascia residui profondi tra le indefinite distrazioni della nostra memoria. John Lennon ci manca perché la musica è cambiata, ma senza di lui è come se non ci fosse stato un ulteriore slancio. Chiamiamolo fremito creativo come le composizioni scritte assieme a McCartney, rendendo i Beatles “più famosi di Gesù Cristo”; chiamiamolo diluvio pacifista, racimalato nei versi del manifesto lennoniano “Imagine”; chiamiamolo spudorata irrequietezza artistica nella storia indefinita con Yoko Ono. Il Lennon degli anni settanta ha mutuato la musica beat degli imbattibili sixties in rabbioso rock, capace di adattarsi ai tempi e alle modalità di fruizione delle nuove generazioni. Ascolto ininterrottamente le sue canzoni da oltre venti anni e ogni volta scopro sempre qualcosa di nuovo. I musicisti emergenti avrebbero molto da imparare da lui. Desideravo ricevere i suoi auguri natalizi, ma era impossibile. La signora Yoko Ono Lennon mi ha stupito, inviandomi un biglietto di auguri datato 16 dicembre 2000. Quella piccola dedica con la doppia firma è stato uno specchio in cui mi sono ritrovato adolescente, con i capelli lunghi e un folgarante desiderio di ribellione e libertà.

L’altro 11 settembre, la fine del Cile di Allende

L’11 settembre è una data in rosso nei nostri diari: nel 2001 l’organizzazione terroristica di Al-Quaida fa schiantare due aerei civili sul World Trade Center, le Torri Gemelle di New York. Da allora ogni anno in questo giorno tutto il mondo commemora le vittime di quella tragedia e il dolore degli Stati Uniti.

C’è l’altro 11 settembre che abbiamo dimenticato: 35 anni fa l’esercito cileno rovescia con un golpe a Santiago del Cile il governo di Salvador Allende. Con l’appoggio diplomatico degli USA, sale al potere il dittatore Augusto Pinochet e comincia per i cileni un lungo periodo di buio, fatto di delitti, atrocità e torture (i desaparecidos). Come fa un capitolo di storia così drammatico a sfuggirci? Perchè i media di mezzo mondo piangono il lutto degli Americani e non anche quello dei Cileni?

Riflettiamo con l’episodio diretto da Kean Loach nel film corale del 2002 dal titolo “11′ 09” 01″. Uno scrittore cileno scrive agli americani, concludendo così la lettera: “Oggi, 11 settembre, noi ricorderemo i vostri morti, ma voi, per favore, ricordate anche i nostri”. E’ solo così che gli angeli torneranno a volare, lasciando alla storia un saggio “Mea culpa”.

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