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Blog e Sito di Rosario Pipolo online dal 2001

Cartolina dalla Cecchignola: le cose che non ci siamo detti mai

Le cose che non ci siamo detti mai le ritrovo qui, fuori le mura di questa caserma, nel perimetro dela Cecchignola di Roma, e non di certo perché abbia fatto la naia. Nei miei venti giorni con la divisa risultai il militare più indisciplinato e ribelle, senza che nessuno scommettesse fossi il nipote di un maresciallo dell’esercito.
La prima volta che misi piede in una caserma fu qui ed oggi ci sono tornato con il bus 044. Non arrivavo all’altezza della giacca della tua divisa allora. Venire a lavoro con te per tutti quei giorni fece quella caserma casa mia, nei mesi grigi in cui noi bambini di allora ci sentimmo sfollati dopo il terremoto dell’Irpinia.

Tra le cose che non ci siamo detti mai c’è sempre stata questa riconoscenza che interpretavo a modo mio, indossando il basco e i guanti tuoi dal colore verde militare. Volevo in maniera infantile sentirti addosso. E questo sentirti addosso l’ho avvistato quando da lettore del mio romanzo hai attraversato parte della tua vita su una strada di carta e inchiostro. Per chi fa il mio mestiere non ci sono parole più dense che sentirsi dire di aver scritto quello che da sempre avresti voluto scrivere, rinchiuso a chiave in un cassetto di una caserma tra appunti sparsi.

Tra le cose che non ci siamo detti mai c’è il declassamento da disadattato alla vita militare rivendicato da me nel declassamento dei legami familiari, nell’esclusione dei parenti e dei loro squilibri mediocri dalla mia quotidianità, perché la vera famiglia è quella che costruisci tu, con le tue mani, giorno dopo giorno, con chi vuoi. Il legame tra me e te va oltre ogni gerarchia ed è stato disegnato in un vissuto e in una presenza costante nei miei confronti di chi ha saputo leggere dentro me le ferite private, racchiuse nel tuo ripetermi “Il tempo cancella tutto e cicatrizza i dolori”.

Le cose che non ci siamo detti mai sono rimaste accovacciate un pomeriggio sul divano alla Castelluccia di San Paolo quando avevamo capito reciprocamente quanto uno zio fosse importante per un nipote così come un nipote per uno zio in una corsia preferenziale: non siamo tutti uguali, nei legami vince chi ama e ricambia di più, è una meravigliosa gara a due che non ci farà evaporare. Oggi che ti sei appisolato ho paura, come in quel pomeriggio, che tu non ti sveglia più. Non c’è tempo per dormire, me lo hai insegnato tu.

Sono a metà di viale dell’Esercito. Due militari  mi tengono d’occhio dalla finestra. Indosso la mia divisa civile: giacca e pantalone blu scuro. Mi metto sugli attenti, porto la mano destra con scatto repentino verso la fronte. Ti vedo, sapevo che saresti venuto da me, qui alla Cecchignola.

Tra le cose che non ci siamo detti mai ce n’è una: sei stato il Pasquale più importante della mia vita.

“Io t’ho scoperta stamattina… Roma capoccia, der mondo infame.”

Nessuno escluso: “Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma!”

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Rosario PipoloMi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Nel tuo sound e sulla tua pelle è tatuato l’Egitto, la terra di tuo padre e quella che io attraversai da bambino tra le pagine di un sussidiario di storia. Avessi avuto un compagno di banco come te, avremmo fatto comunella senza aspettare l’ora odiosa della merenda.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Ti avrei raccontato dei miei viaggi metropolitani a Napoli con nonno Pasquale e ti avrei portato una pastiera fatta in casa da nonna Lucia, e l’avrei barattata volentieri con i dolcetti fatti da tua nonna in Egitto. A me bastava un biglietto d’autobus per abbracciare la mia, tu non finivi mai di rompere salvadanai per metterti su un volo verso il Cairo.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Muovendo i primi passi nella vita, ad avercelo un amico di infanzia che ti rappava la vera geografia della periferia, perché ognuno ne ha una, dentro e fuori di sé.
Dalle mie parti bisognava accontentarsi di neomelodie, diffuse per radio ad alto volume da un pianerottolo all’altro, i cui drammi d’amore non sempre a lieto fine coprivano gli spari della criminalità organizzata.

Mi chiamo Amir, ma so’ de Roma. Non le voglio più quelle verità nascoste, quando restavo chiuso in casa perché fuori c’era il coprifuoco per il controllo del territorio. Da me i papponi, che a messa intingevano tre volte la mano nell’acquasantiera, la sera se pigliavano ‘o cafè con una delle dita della mano di Don Raffaè.

La verità, Amir? Diventiamo subdolamente brutti, sporchi e razzisti tutte le volte che freniamo la voglia di condividere le nostre storie di periferia con chi è arrivato da una periferia più lontana, quella di una terra straniera, di un altro continente. Da bambino sognavo di fare un viaggio al Cairo. Ho la valigia dietro l’angolo, vorrei farlo in tua compagnia e partendo dalla tua Torpignattara. 

Il tuo rap frena il mio pianto. Mi chiamo Rosario, come la “Cune de la Bandera” argentina,  ma song ‘e Napule.

La coppa della vergogna di Fiorentina-Napoli: “un vincitore vale quanto un vinto”

Bastardi Dentro.it

Rosario PipoloSe un trofeo deve finire sotto il letame per la violenza che ha incorniciato la finale di Coppia Italia Fiorentina-Napoli dello scorso 3 maggio, allora tenetevelo pure. All’occorrenza i social network sanno come piegarsi per essere amplificatori di vergognose giustificazioni, perché il motto è il solito, anche se ci scappa il morto: The show must go on.  Godiamoci lo spettacolo, pappiamoci la coppa, calcoliamo gli incassi, il dopo si vedrà.

Facciamo una premessa una volta e per sempre: il gemellaggio violenza e stadio non riguarda la tifoseria napoletana. E’ un problema di tutta l’Italia. Se il J’accuse si fermasse all’ombra del Vusuvio, peccheremmo di miopia, alla maniera becera dell’anglosassone The Guardian, che ha liquidato sulle sue pagine “Napoli come roccaforte della Mafia”.

Mentre la rabbia ci fa rimpiangere le misure che replicherebbero le ombre del thatcherismo contro gli hooligans in Gran Bretagna, il pressapochismo all’italiana ci fa ripetere a denti stretti: “Tiriamo a campare” . E dovrebbe saperlo anche il nostro Premier Renzi, che era sugli spalti dell’Olimpico a Roma a supporto della sua Fiorentina. Se le rispettive tifoserie non hanno avuto la dignità di far sospendere la partita, lo avrebbero dovuto fare le società calcistiche. Non è successo niente di tutto questo e siamo punto e a capo. Il solito copione, le solite frasi fatte, i noiosi slogan in vista della prossime elezioni e l’indifferenza dei “tifosi onesti” a cui interessava ammortizzare con lo show il costo del biglietto.

E se chi ci governa non è in grado di dare una bella lezione ai delinquenti del calcio italiano, intervenga la Comunità Europea. Questa volta però non ci accontentiamo di una multa salata e neanche della “daspo a vita” annunciata dal Ministro Alfano. Vogliamo la resa dei conti e qualcuno che ci aiuti a capire perché “i controlli prima di accedere allo stadio” non sono uguali per tutti: le bombe di carta sono alla portata dei soliti all’occorrenza.

La trattativa con gli ultras va verificata ma sia immediata la rimozione dei vertici del calcio italiano che strizzano l’occhio a questo scempio. Rubo dai versi di una canzone di Dalla: “un vincitore vale quanto un vinto” dopo questa “coppa delle vergogna”. Restituire il trofeo non sarebbe una vigliaccata così come disertare spalti e tribune per ammaccare il controverso business delle carogne e l’oltraggio alla memoria dei Raciti di turno.

Diario di viaggio: Un modo insolito per festeggiare il primo anno di Maxela Coppelle a Roma

Assieme a una parte dello staff

Rosario PipoloCapita che se ti trovi alla festicciola del primo anno di un ristorante, il palato pretende la sua parte: assaggi, punto e basta. Maxela, l’oasi dei mangiatori doc di carne in via Coppelle a Roma, spegne la sua prima candelina e così ti consoli spiluccando salumi, formaggi e una buona focaccia di Recco. Anzi, mi sembra di essere finito a Genova, rincorrendo quel sapore a cui accosteresti qualche canzone strimpellata in dialetto alla De André. E mentre butti l’occhio sulla carne in passerella – sono mica ad una sfilata culinaria? – aspetti l’ora di cena per azzannare qualche specialità alla brace e finire la serata con un buon bicchiere di vino.

Visto che la rete è strapiena di food-lover e in giro ci sono tanti critici gastronomici sul ciglio di una strada – un consiglio su Foursquare o un pallino su TripAdvisor valgono più di una guida blasonata – lascio a loro il privilegio di una noiosa recensione, mi fido dell’intuito del mio palato e mi spingo oltre. Oltre dove? Se c’è di mezzo un ristorante, di cosa dovrei parlare se non di cibo?

Sarà questa mia fissazione del “viaggio nel viaggio”, che mi porta ad esplorare l’ambiente: gli scaffali con i vini mi portano alle mie incursioni nelle cantine toscane; il banco da macelleria ai tempi in cui mi divertivo a guardare nonna Lucia che contrattava con il macellaio per avere la migliore carne; l’allestimento dei tavoli alle romanticherie del mio ultimo viaggio a Parigi. L’ambiente è fatto anche di persone ed è la chiacchierata con lo staff che mi porta a fare il giro di mezzo mondo, dal Senegal alla Romania passando per l’Ucraina, con tante piccole storie che si fondono con il gusto.

E non rimpiazziamo il solito Proust con la storia del gusto che evoca il ricordo, tanto basta la cordialità di ognuno di loro per convincermi ad infilarmi in una foto con lo staff. All’appello manca Andrea, il simpatico napoletano che dirige Maxela Coppelle, alle prese con lo chef per gli ultimi assaggi prima dell’apertura delle cena. Accipicchia, Andrea assomiglia tanto a mio cugino, il più piccolo della nidiata materna, che si dipingeva il muso con il ragù quando nostra nonna gli proponeva l’assaggio di un buon piatto di maccheroni.

Non dovevamo festeggiare il primo compleanno di Maxela? Ecco, lo abbiamo fatto, tirando le orecchie ai ricordi, dando una pacca sulle spalle a coloro che ci lavorano. Non è solo il cibo a fare la differenza, ma anche le risorse umane che contribuiscono al successo di un ristorante. Passione ed entusiasmo restano un valore aggiunto.

“L’ultima neve alla masseria” a Roma, analisi tra autobiografia, psicologia e immaginazione

Assieme a Massimo Calanca alla presentazione del libro


Ospito sul blog il testo integrale dell’intervento di Massimo Calanca, in occasione della presentazione a Roma del mio libro “L’ultima neve alla masseria” presso la sede dell’Associazione Centro Internazionale CinemAvvenire.

Mi fa piacere presentare il libro “L’ultima neve alla masseria”, perché Rosario Pipolo è stato uno dei primi partecipanti alle iniziative di CinemAvvenire alla Mostra del Cinema di Venezia. La nostra iniziativa veneziana ha avuto fin dall’inizio l’obiettivo di trasmettere ai giovani, attraverso l’arte cinematografica, non solo la conoscenza e l’amore per un cinema “che aiuta a capire la vita ed a viverla meglio”, come diceva Gillo Pontecorvo, il maestro che ha fondato insieme a noi l’associazione; ma anche il desiderio e il piacere della creatività, applicata sia all’arte vera e propria, sia alla propria esistenza individuale, “per fare della propria vita un’opera d’arte”, come ha detto Antonio Mercurio, il maestro a cui si è ispirato gran parte del nostro lavoro di psicoterapeuti.

Il libro di Rosario è un misto tra l’autobiografia e il romanzo. Lo potrei definire una ricerca autobiografica di fantasia. A ben vedere, ogni opera d’arte è in qualche misura autobiografica, anche se parla di mondi lontani dall’esperienza di vita dell’autore, perché questi non può fare a meno da un lato di mettere dentro l’opera se stesso e la propria esperienza di vita, e dall’altro di ricercare un senso alla propria vita addentrandosi nei pensieri e nelle vicende dei personaggi di finzione. Ha scritto Luigi Pareyson: “L’arte è l’attività formativa per eccellenza….. La persona dell’artista è al tempo stesso “contenuto” e soggetto formante; mentre, nell’interpretazione, la persona del fruitore “si fa organo di accesso all’opera e, rivelando l’opera nella sua natura, esprime nel contempo se stessa”. E poiché la vita umana è tutta invenzione, produzione di forme, “l’arte modifica la nostra capacità formativa e quindi lo stesso nostro modo di vedere e formare la realtà e la vita.” (L. Pareyson, Teoria delle formatività”).

Ma, se ogni opera è in qualche modo autobiografia, esistono tuttavia opere, come questa di Pipolo, più chiaramente e direttamente figlie del pensiero autobiografico. Capita a tutti, prima o poi, di sentire il bisogno di ripensare alla propria vita passata e di raccontarsela e raccontare se stessi a se stessi (e qualche volta agli altri) in modo diverso dal solito. E’ quello che viene chiamato “pensiero autobiografico” (Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore). “Il momento in cui sentiamo il desiderio di raccontarci è segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità. Poco importa se ciò accada a vent’anni piuttosto che a ottanta. E’ l’evento che conta, che sancisce la transizione a un altro modo di essere e di pensare.” (Ivi.) Il pensiero autobiografico è quell’insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e che si è fatto, che ripercorriamo in cerca di un nuovo senso. Anche quando tale pensiero si rivolge verso un passato doloroso, di errori o occasioni perdute, è un’occasione di un “ripatteggiamento”, di una riconciliazione, a volte con sentimenti di maliconia o di compassione, ma comunque di rappacificazione con se stessi. “Ciò che è stato poteva forse compiersi altrimenti, la storia potrebbe aver avuto altri finali, ma, comunque sia, ora quella storia è ciò che è. E si tratta di cercare di amarla, poiché la nostra storia di vita è il primo ed ultimo amore che ci è dato in sorte” (Duccio Demetrio, op. cit.).

Paradossalmente questo non ci porta alla chiusura individualista o egocentrica, ma al contrario ci aiuta a sentire che condividiamo l’essere al mondo di tutti gli altri. Il pensiero autobiografico in qualche modo ci cura. Mentre ci rivediamo alla moviola (“sviluppiamo i negativi della nostra vita”, come ha detto Marcel Proust), ci riprendiamo tra le mani, “ci prendiamo in carico (in cura) e ci assumiamo la responsabilità di tutto ciò che siamo stati o abbiamo fatto e, a questo punto, non possiamo che accettare” (D: Demetrio). Ma questo non significa rassegnazione. Da un lato significa accettazione, cioè amore per noi stessi. Dall’altro può significare decisione di cambiare o di lasciare andare qualche parte di noi, proprio alla luce dell’esperienza passata rivisitata, meglio compresa e “metabolizzata”. Cioè è un’occasione di trasformazione esistenziale che guarda al futuro.

Infatti il ricordo non è mai soltanto un semplice rivivere il passato. Da un lato, certo, è una riedizione, cioè ci fa rivivere, mentalmente ed emozionalmente, situazioni già vissute, che ci richiamano e ci legano in qualche modo al passato, e a volte rischiano di farci rimanere dentro il circolo vizioso della “coazione a ripetere”. Dall’altro, poiché noi non siamo più quelli di un tempo ed inoltre il nostro Sé ci spinge ad evolvere e a crescere, il ricordo è sempre qualcosa di rivisitato, di nuovo, di diverso, di inventato, che già contiene in parte quello che siamo diventati oggi e quello che vogliamo diventare domani.

L’autobiografia non va intesa come una specie di farmaco che ci aiuta a liberarci dal nostro passato prendendone le distanze. Questo può valere in parte per le situazioni traumatiche che abbiamo rimosso o dimenticato, di cui fatichiamo a prendere coscienza, e che quindi ci condizionano senza che ne siamo consapevoli. Allora, rivisitarle con il ricordo e oggettivarle con l’autobiografia, può servire non a liberarsi di loro, ma a liberarsi del conflitto inconscio che continuano a generare, per integrarle armoniosamente nella nostra personalità. “L’autobiografia non è soltanto un tornare a vivere: è un tornare a crescere per se stessi e per gli altri…è un viaggio formativo e non un chiudere i conti” (D. Demetrio). “Io pongo il mio passato come mio avvenire, mi sottraggo alla minaccia della dispersione e stabilisco l’unità e la coscienza del mio io” (Nicola Abbagnano, “Introduzione all’esistenzialismo”, Mondadori).

“E’ vero che scruto nel mio passato per trovare chi sono, da dove vengo, chi mi ha aiutato ad essere ciò che poi sono divenuto; però è pure vero che, già con quest’opera di scavo, mi apro al mondo, ad altre possibilità” (D. Demetrio). “Entrare in autobiografia” (come la definisce Vincenzo Masini) è superare la paura del tempo, perché l’atto autobiografico è sempre al presente. S. Agostino, nel suo interrogarsi sul tempo, scrive: “… Futuro e passato non esistono… impropriamente si dice: tre sono i tempi, il passato, il presente e il futuro. Più esatto sarebbe dire: tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Queste ultime tre forme esistono nell’anima … il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione diretta, il presente del futuro è l’attesa.” (S. Agostino, Le confessioni) Lo stesso poeta Gibran non si allontana da S. Agostino quando, interrogato sul tempo, risponde: Vorreste misurare il tempo, l’incommensurabile e l’immenso. Vorreste regolare il vostro comportamento e dirigere il corso del vostro spirito secondo le ore e le stagioni. Ma l’eterno che è in voi sa che la vita è senza tempo. E sa che l’oggi non è che il ricordo di ieri, e il domani il sogno di oggi.

Ma se col pensiero volete misurare il tempo in stagioni, fate che ogni stagione racchiuda tutte le altre. E che il presente abbracci il passato con il ricordo, e il futuro con l’attesa.” (Kahil Gibran, Il profeta). Come è noto, il concetto di Sé è molto importante in psicoterapia. Un elemento caratterizzante del Sé è il suo manifestarsi in forma narrativa. Ha scritto lo psicoanalista junghiano Robert H. Hopcke: Essere umani significa raccontare storie, vivere e usare dei simboli per dare senso alla nostra vita, cercare un’esperienza profonda e diretta di ciò che trascende la nostra limitata esistenza mortale…(Robert H. Hopcke, Nulla succede per caso. Le coincidenze che cambiano la nostra vita, Mondadori, Milano, 1998). Scrive Andrea Smorti, uno psicologo cognitivista che ha studiato il pensiero narrativo: “Che cosa è il Sé? Non è facile definirlo. Ce lo possiamo però rappresentare come un testo che giorno dopo giorno viene scritto dal soggetto stesso e dagli altri”.( Andrea Smorti, Il Sé come testo. Costruzione di storie e sviluppo della persona, Giunti, Firenze, 1997. Il corsivo è mio)

Lavorare alla propria autobiografia non significa soltanto affastellare insieme una serie di ricordi che emergono alla mente alla rinfusa, ma anche ricercare le connessioni, i nessi, le coerenze tra i ricordi, ricomponendoli in figure, disegni, architetture. Ogni singolo ricordo è un segno, che ha “graffiato” la nostra vita come una lastra da incisioni, ma appartiene ad una rete che tende a ricomporlo in una scena, in una storia dotata di senso. La mente non si limita a rievocare immagini tra loro isolate e distinte. L’intelligenza retrospettiva ricostruisce, collega e quindi colloca nello spazio e nel tempo, riesce a dar senso agli eventi solo se li colloca in un processo e in un percorso. L’autobiografia, sia quella che rimane ad uso personale, sia quella che ha ambizioni letterarie, viene scritta perché l’autore ha bisogno di attribuirsi un significato, e forse più di uno, e di presentarsi in modo nuovo a se stesso e, qualche volta, al mondo.

Ma ho detto che il romanzo di Rosario Pipolo è anche fatto di immagini fantastiche. Sia nella storia che il protagonista racconta di sé, dei suoi familiari e della sua terra, sia in alcuni dei personaggi tra il reale e l’onirico che incontra nel suo ritorno a casa, sia nella sua ricerca documentaria delle proprie origini, a figure della realtà, che hanno il sapore inconfondibile del vissuto personale nella terra e nella cultura del suo paese, si mescolano immagini della fantasia. Lo stile di questo “melange” mi ricorda quello del Fellini di “Otto e ½” o di “Amarcord”, film dove realtà, sogno, immaginazione e prefigurazione, si inseguono sulla base di associazioni più analogiche che logiche, più emozionali che razionali; anche se l’insieme finisce per comporre un “puzzle”, o meglio un affresco, in cui pian piano emerge il senso faticosamente cercato dal protagonista e dall’autore riguardo la propria opera e la propria vita. Ho pensato che non a caso Rosario, anni fa, si è impegnato nel progetto “Fellini 2000”, evento omaggio al grande regista, realizzato in collaborazione con la Fondazione Fellini e Mediaset.

Ma, al di là delle suggestioni e dei rimandi, la parte fantastica del romanzo di Pipolo è altrettanto, se non più, interessante di quella del ricordo reale per la ricerca di senso di cui sto parlando. Infatti, la fantasia – quando non è impacciata da intenti didascalici o dimostrativi, ma si esprime con associazioni libere guidate da autentiche emozioni – è capace di illuminare di senso e di nuovo significato fatti, eventi e situazioni che nella semplice ricostruzione del vissuto ci appaiono inesplicabili ed oscuri. E’ il potere del pensiero primario, che attraversa facilmente nei due sensi il confine tra l’inconscio e la coscienza, mettendo in comunicazione mondi separati e diversi e creando collegamenti e nessi che mettono in luce aspetti nuovi e significati inediti di eventi, cose, persone.

E infatti è dall’intreccio di ricordi reali e fantastici che emerge a poco a poco il senso che Pietro, il protagonista, ritrova. Non è tanto importante portare fino in fondo la ricerca delle radici reali, quanto metabolizzare i ricordi del passato integrandoli nella propria personalità unificata, filtrandoli e risanandoli, affinché non ingorghino il futuro, attraverso il sogno del padre, “quell’ultima neve alla masseria” rimasta ancora intatta nonostante il degrado del tempo e di uno sviluppo sociale ed economico senz’anima. Discorso che io interpreto così, nel mio linguaggio La ricerca di senso è indispensabile per uscire dal nichilismo disperante. La distruzione di tutti i valori operata dalla razionalità occidentale, se da un lato ci ha liberato da schemi mentali e di comportamento limitanti e spesso soffocanti, aprendoci a nuove possibilità di libertà, dall’altro ci ha privato di ogni punto di riferimento e, soprattutto, del senso e del significato della realtà e della vita. Sembra che manchi il motivo e la direzione del nostro agire e del nostro stesso stare al mondo. E ciò, al di là dell’illusione di riempire questo vuoto con il consumo, con “quell’edonismo di massa” di cui ha parlato Pasolini, non può che produrre disperazione.

Ma davvero la ragione deve limitarsi a togliere senso? – si è interrogato Eugenio Scalfari. – Non potrebbe invece avere un’autonoma capacità di dare senso e valore, cioè contrastare il nichilismo con le forze dell’illuminismo invece che con quelle del mito? Secondo me, da sola, la ragione non basta, anche se può dare un grande contributo a questa ricerca. Occorre addentrarsi anche nei territori oscuri dell’inconscio, degli archetipi, dei miti; confrontarsi con le parti oscure che ci abitano come esseri umani, nei ricordi personali della nostra infanzia ma anche in quelli ancestrali della specie che sono stampati dentro di noi. Contrastare la rimozione e l’oblio, per portare queste parti alla luce, non per eliminarle in quanto parti oscure, ma per unificarle con le nostre parti luminose e diventare così persone intere.

In fondo ogni opera d’arte è il frutto di una sintesi di opposti. Questo vale sia per l’arte vera e propria, sia per l’opera d’arte della nostra vita. E ognuno di noi oggi deve fare questo percorso in parte insieme agli altri, cioè ai personaggi del suo passato, del suo presente e del suo futuro, perché “l’Io senza il Tu non esiste”, come ha detto Martin Buber. Inoltre deve farlo riallacciando i nessi con il padre, con quel “principio paterno” che è insieme garanzia di radicamento nella storia evolutiva dell’uomo e prospettiva di ulteriore evoluzione verso nuove proprietà emergenti dello spirito. Ma, nella “Babele” del mondo contemporaneo, è inevitabile che ognuno debba fare questa ricerca in parte anche da solo.

E’ quello che mi pare dica il libro di Rosario Pipolo alla fine. E in questo mi pare in piena sintonia con quanto ha scritto Joseph Cambell, il grande mitologo americano: “è il cuore dell’uomo (e della donna) oggi il luogo creativo del mito moderno, il centro focale dello sguardo divino”. Di “quel Dio che in parte siamo noi e che in parte dobbiamo ancora diventare”, come ha scritto Antonio Mercurio. Senza deliri di onnipotenza, perché non nasciamo dal nulla ma veniamo dalla materia e dalla vita che agiscono secondo leggi che ci precedono. Ma anche senza rinunciare alla responsabilità che ci compete, quantomeno come co-autori della creazione nostra e del mondo in cui viviamo.

Roma, 13 aprile 2013

Massimo Calanca*

Psicologo e psicoterapeuta


* Nato a Roma nel 1947, è stato segretario nazionale dell’ARCI, organizzando tra l’altro la tournèe dei fratelli Taviani in America Latina, il viaggio di Gillo Pontecorvo in Nicaragua ed in Salvador alla ricerca delle idee per un film e fondando la ONG di cooperazione allo sviluppo Arci-Cultura e Sviluppo. Laureato in lettere moderne, si è specializzato in comunicazione sociale. Nel 1992 ha fondato con Gillo Pontecorvo alla Mostra del Cinema di Venezia l’associazione CinemAvvenire, per promuovere l’amore e la conoscenza del cinema tra i giovani e gli studenti, divenendone presidente alla scomparsa del fondatore. Vive e lavora a Roma, dove si occupa di psicoterapia, counseling e formazione.

Roma e l’addio al suo Califfo: “Tutto il resto è noia.”

Rosario Pipolo“Ciao, Franco. Ora senza te, tutto il resto è noia” non ha l’aria del solito striscione di un concerto allo stadio. E’ l’epigrafe che la borgata romana dedica al suo cantore, Franco Califano, con un vezzo da balera che mischia l’esistenzialismo di un Moravia agli eroi della borgata pasoliniana.

Franco Califano è stato la controindicazione della voce nazional-popolare degli anni ‘70 o l’anti-divo della discografia italiana d’autore, con la spavalderia di un teddy boy della Fontana di Trevi. Dicevano che nella vita privata il Califfo ancheggiava tra la fama di sciupafemmine e quella di legami con brutti ceffi, per giunta dalla “sniffata” facile. Sul palco, dietro gli occhiali scuri, diventava il neomelodico da fotoromanzi popolari con la romanità sotto la lingua, capace di sciogliere il cuore di chi popolava il quartiere.

Nonostante ciò, senza falsi moralismi né intellettualismi sofisticati, il Califfo aveva preferito legare la sua storia privata e pubblica a quella dei farabutti da borgata, i quali nell’urlo “maledetta noia” si erano fatti traduttori dell’esistenzialismo. “Tutto il resto è noia” non è un vecchio brano dimenticato in cantina ma il manifesto di uno stato d’animo che può far sprofondare la vittima negli abissi.

Esistere vuol dire anche osare per rincorrere le vittorie e le sconfitte dei giorni fugaci. Franco Califano intraprese più di quaranta anni fa una crociata contro quella “maledetta noia”. Si è dovuto ricredere chi lo accusava di nascondersi dentro un paio di occhiali scuri. La borgata romana però è andata oltre l’irrisoria apparenza. Il Califfo li metteva per capire di che forma fosse fatto il cuore del suo pubblico, che non lo hai mai lasciato solo, neanche quando la solitudine ha tentato di divorarlo e farlo a pezzetti.

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Io, “indignato”: a Roma bruciano i sogni tra violenza e orrore

Ci vuole poco per bruciare un sogno. Basta un guerriglia come quella di sabato 15 ottobre a Roma per seppellire sotto terra il sacrosanto diritto di manifestare con aria pacifica. Non c’è pensiero, non ci sono ideologie, non ci sono sogni nell’anima degli “Indignati arrabbiati” che hanno devastato il cuore della capitale. Il movimento di radice ispanica, che sta remando ovunque contro le ingiustizie e gli orrori della globalizzazione, rischia di scomparire in una bolla d’aria per colpa di una minoranza criminale e violenta, che va condannata senza mezzi termini.

Sì, è vero. Occorre impugnare il megafono per farsi sentire, soprattutto in un paese come il nostro dove governo e istituzioni non tutelano più le fasce deboli ed indifese, ma senza finire nella scialba trappola dell’aggressività e della violenza. Quando si ripetono questi orribili episodi, l’Italietta provinciale si risveglia dal torpore e riesuma i fantasmi vaganti degli Anni di Piombo e delle Brigate Rosse.
Allora sotto il passamontagna della strategia della tensione c’era una progettualità ideologica che aveva coinvolto anche gli intellettuali. Oggi dietro questa ciurma di teppistelli c’è soltanto polvere, nient’altro. La maggior parte di loro conosce la storia per sentito dire, non sa neanche la differenza tra marxismo e il liberalismo, non si è mai messa alla ricerca dell’autorevolezza che ci riporta alla memoria dei De Gasperi, dei Nenni, dei Berlinguer o dei Togliatti.

Oggi c’è terreno fertile per i social network, per farci assalire dal solito sobbalzo emotivo che in molti casi ci trasforma in capre mediatiche. Ognuno dica la sua, retweetti o incolli sulla bacheca di Facebook ciò che ritiene più opportuno, ma senza appoggiare tacitamente l’imbecillità che trasforma un guerriero in un eroe. Sarebbe imperdonabile, anche nel rispetto di chi si è ritrovato l’auto o il negozio distrutto.
A subire il danno non sono stati i mostri in doppio petto blu che svolazzano nei cieli con il proprio jet privato, ma la gente comune. La stessa gente che nel corteo pacifista degli Indignati ci ricordava che i sogni sono come l’acqua santa.

 Black bloc in azione, 5 ore di guerriglia

Rome counts cost of violence

Occupy Rome turns violent

Ringo Starr a Milano e Roma: Io scassinavo salvadanai per i tuoi dischi!

Sono una minoranza gli adolescenti che si fanno travolgere dalla musica fuori dal proprio tempo. Mi sentivo parte di questo branco ristretto quando alla fine degli anni ’80 me ne andavo nei paesotti di provincia a cercare i tuoi dischi, caro Richard. Una volta girando a Liverpool – ero ancora minorenne e lasciai i miei in preda alle palpitazioni – nei posti in cui sei cresciuto, mi sono detto: cosa avevamo in comune? Anche tu eriun ragazzotto di periferia e non penso che, picchiando forte sulla tua batteria, avresti mai immaginato di attraversare il mondo.
La casualità, la mia compagna di viaggio prediletta, mi portò allora ad incontrare alcune persone a te particolamente legate, quelle che bussando alla porta di casa tua trovavano il cognome Starkey. Beh, rovistando in un negozietto di anelli poco distante da Penny Lane, mi sono chiesto come facessi ad andarne matto. Quella non era robetta da femminucce? Perlomeno ti sei trovato un buffo nome d’arte, Ringo, che ti confonde con un pistolero del Western.
L’epopea del vecchio West era passata da un pezzo, ma non quella delle navi che trasportavano sogni verso l’oltreoceano. E’ lo stesso tragitto che fanno i sogni incollati alle parole e alle note delle canzoni, formando i piccoli segreti della vita: “Every soul has a secret, give it away or keep it”.
Io l’ho tenuto il mio segreto: quello di aver fatto lo scassinatore di salvadanai per acquistare i tuoi dischi e sentire dal profumo del vinile l’ebbrezza del tempo che non passa mai. Avevo fatto la maturità quando sei venuto in Italia l’ultima volta. Mi dicevano che ero un matto ad assistere ad un concerto alla vigilia della prima partenza per gli Stati Uniti. Che rabbia, quando gli organizzatori fecero saltare la data di Roma!
Sono passati quasi vent’anni, ma resto la “capa tosta” di allora. E con lo spirito di chi si batte affinché la musica sia una gioiosa “festa sociale”, sono sicuro che in questa domenica e lunedì di luglio restituirai a Milano e Roma una carica di energia, mancante in questo momento. Gioco a fare il finto tonto: più invecchi, più assomigli un sacco a Ringo Starr, il batterista del Beatles!

Facebook per Alberto Bonanni, il musicista pestato a Roma

A Milano i maxi concerti sono nelle mani di ridicolo comitato anti-rumore, a Roma invece si finisce ammazzati se si suona. Insomma, spero di non rischiare anche io di brutto, quando la sera faccio sobbalzare (scherzosamente ed educatamente) il mio vicinato con la musica di Pearl Jam, Ac/Dc e Led Zeppelin.
Ad Alberto Bonanni, un giovane musicista di 29 ani, è andata davvero male. Era in un locale di Monti, nel cuore della capitale, quando è stato picchiato brutalmente da un branco di giovani. Perché? Un uomo era sobbalzato dal balcone, lamentando lo schiamazzo e inseguendo Bonanni con un bastone. La serata musicale a The Saylor’s si è trasformata in un incubo e questo pestaggio brutale è un altro segno dell’incoerenza e della prepotenza che si aggira nelle sere d’estate nelle nostre città
Alberto è in fin di vita ed si parla addirittura di “morte celebrale”. E questa volta a supportare gli agenti nella ricerca di quei maledetti assassini è stato proprio Facebook. Infatti, grazie al social network abitato da 20 milioni di italiani sono riusciti a risalire ad uno dei colpevoli, che ha ridotto in questo stato il chitarrista romano di una delle Tribute band degli Iron Maiden.
Intanto, su Facebook è stata presa d’assalto la pagina “Suonare per Alberto Bonanni pestato a morte a Roma” dove si segnalano diverse iniziative per dire basta a questi atti di violenza. Alberto non aveva fatto lo scassinatore di timpani, ma aveva appena smesso di suonare. Sulle corde di quella chitarra appesa ad un chiodo, chi strimpellerà i sogni di una vittima? Dove c’è musica, c’è socialità. Dove c’è socialità, c’è vita.

Donne italiane in piazza, sull’orlo di una crisi di nervi

Sono italiane le donne sull’orlo di una crisi di nervi e questa volta sono uscite a viso scoperto. Niente mimosa, niente Festa della Donna, niente nastro rosa. L’urlo rabbioso femminile, anzi “femminista”, ha trascinato in ballo pure gli uomini. E questi non erano gli osceni tronisti di Uomoni & Donne, ma mariti, compagni o figli che sono scesi in piazza senza i soliti pregiudizi: stiamocene a casa a guardare la partita di pallone, perché questa è robetta per donne “radical chic”.
Altro che protesta di quattro femminucce inviperite e incazzose! “Se non ora quando?”, la manifestazione delle donne italiane che hanno chiesto una volta per tutte “più rispetto per il gentil sesso”, è stato un vero boomerang lungo tutto lo stivale. Sembrava di essere ritornati ai tempi di una domenica sessantottina, rigorosamente in bianco e nero, dove per una volta poteva andare a farsi benedire il pranzetto allegro tutti in famiglia del Belpaese democristiano. Si torna ad urlare e questa volta c’è poco da fare i furbi.
A scatenare il putiferio è stato il Ruby-gate e quella mostruosa meccanica che vorrebbe convincerci che “le donne sono nudo oggetto di scambio sessuale”. Un bel paio di tette moltiplicate per quanti sono i culi delle bamboline di corte rappresentano davvero l’immaginario collettivo dell’italiano medio, maschilista e smargiasso? Se fosse così, siamo proprio conciati male così come quando, nei battibecchi quotidiani, ci imbattiamo nell’acidità femminile che ingigantisce le piccole delusioni nel banale ta-ra-ta-ta: “Gli uomini sono una razza inutile, ne possiamo fare a meno”.
La piazza ha ancora fascino di seduzione o il potere di far cadere gli imperatori? In alcune immagini passate in tv, mi è sembrato di rivedere quel mucchietto di donne agguerrite appostate fuori alla Casa Bianca per chiedere a Nixon, il peggiore Presidente della storia americana, di farla finita una volta per tutte con la guerra in Vietnam. Eppure quell’urlo col megafono non riuscì a fargli staccare il sedere dal trono, finché il joker dal ghigno malefico non fu sbattuto sul lastrico dal Watergate. L’Italia non vuole più aspettare e urla senza megafono: Se non ora quando?